Sinagoghe italiane riaperte da lunedì,
siglato il protocollo a Palazzo Chigi
Dal 18 maggio anche le sinagoghe potranno riaprire. Lo stabilisce il protocollo siglato quest’oggi a Palazzo Chigi tra Governo e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il documento è frutto di un continuativo e proficuo confronto tra le parti, con indicazioni che regolamentano tutti gli aspetti relativi alla fruibilità dei luoghi di culto. Un risultato fortemente apprezzato dalla Presidente dell’Unione Noemi Di Segni, che si è recata a Palazzo Chigi assieme al rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni in rappresentanza dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia.
"La firma di questo protocollo è un atto altamente significativo che ci restituisce una delle più importanti libertà costituzionali purtroppo compressa per l’emergenza che abbiamo ora compreso essere una sfida di lungo termine. Sarà vissuta con tutte le cautele necessarie per assicurare la salute di tutti i nostri correligionari" sottolinea la Presidente Di Segni. "Le comunità ebraiche - dichiara il Presidente dei rabbini italiani rav Alfonso Arbib - stanno diramando disposizioni dettagliate per l'applicazione delle norme. Vorremo esprimere la nostra soddisfazione per la possibilità di riprendere le tefillòt con miniàn e ringraziare chi si è adoperato per ottenere questo risultato. Vogliamo anche raccomandare il rispetto scrupoloso delle regole, ricordando che sono stabilite dal Governo". Afferma rav Di Segni: "È molto importante che il protocollo firmato oggi non sia preso come un invito a precipitarsi a riaprire, anteponendo scelte di questo genere a ragionamenti che devono essere ben meditati. È un concetto rimarcato, in sede europea, anche dai vertici dal rabbinato ortodosso. Chi non se la sente, chi è ancora nell'occhio del ciclone perché il quadro epidemiologico di riferimento resta complesso, fa bene ad aspettare. Come farebbero bene ad aspettare le Comunità con sinagoghe molto piccole".
Arriva giovedì 21 maggio in libreria La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948 (Solferino), firmato dallo storico delle idee David Bidussa. Un libro “intelligente, innovativo e carico di suggestioni e di stimoli”, scrive la storica Anna Foa, presentando in anteprima il volume di Bidussa sul numero di Pagine Ebraiche di maggio, attualmente in distribuzione. Di seguito il testo che spiega come La misura del potere sia un importante lavoro storiografico e di riflessione, che ha il merito di aprire un dibattito più ampio rispetto all'atteggiamento della Chiesa davanti ai totalitarismi.
Torna ad accendersi il dibattito sulle responsabilità della Chiesa di Pio XII nei confronti della Shoah, in concomitanza dell’apertura dell’Archivio Apostolico Vaticano (già Archivio Segreto) per gli anni del suo pontificato. E non manca chi, pur fra gli storici, avanza scoop azzardati, data la brevità del tempo concesso dall’epidemia di coronavirus ai ricercatori, una settimana appena, e il fatto che molte delle nuove scoperte non modificano che in minima parte realtà note da decenni alla storiografia (come ad esempio, a proposito della conoscenza da parte del Vaticano di quanto stava accadendo in Polonia, sappiamo già dal libro di Walter Laqueur del 1980).
Di tutt’altro tenore è il libro di David Bidussa La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948, che esce in questi giorni per le edizioni Solferino. Un libro intelligente, innovativo e carico di suggestioni e di stimoli. Un libro inoltre che ha il grandissimo merito di ricollocare in un contesto assai più ampio, quello dell’atteggiamento della Chiesa di fronte ai totalitarismi e ai fascismi, il problema dello specifico ruolo di Pio XII di fronte allo sterminio nazista, con un approccio che consente di liberarsi finalmente dal confronto tra leggenda nera e leggenda rosa, diventate entrambe, più che uno stimolo, un vero e proprio ostacolo alla conoscenza. Il libro è, come dicevo, molto ricco e tocca temi di vasto respiro. Più che una recensione, queste mie note vogliono essere quindi soprattutto un invito alla discussione, un’apertura di dibattito, in cui mi soffermerò soprattutto sull’impianto generale del libro.
Al centro dello studio di Bidussa sono gli anni fra il 1932 e il 1948: sedici anni che vedono l’affermarsi dei fascismi e dei totalitarismi, le leggi razziste e l’antisemitismo razziale, la guerra di Spagna, la guerra, la Shoah, il dopoguerra e la nascita di Israele. Per la Chiesa, sono gli anni dei Concordati con fascismo e nazismo, del pontificato di due pontefici spesso contrapposti l’uno all’altro, dell’emergere di un razzismo basato sul sangue difficile da conciliare con la dottrina cattolica, della neutralità nel corso della guerra, del controverso atteggiamento di fronte alla Shoah, degli aiuti dati agli ebrei perseguitati, del ritorno ad un antigiudaismo che non avrà tuttavia vita lunga dato il peso della frattura che la guerra e la Shoah hanno avuto sull’Occidente e l’avvicinarsi della svolta conciliare. Merito grande del libro di Bidussa è quello di aver sempre tenuto presente il nesso tra le vicende storiche più generali e le scelte del papato. In questa prospettiva, assume particolare rilievo l’importanza attribuita alla guerra di Spagna, una guerra in cui tutti coloro che avrebbero combattuto il nazismo videro i prodromi della guerra, la sua anticamera (“Oggi in Spagna, domani in Italia”, affermava Carlo Rosselli) e in cui la Chiesa vide uno scontro di civiltà, una crociata da appoggiare senza tentennamenti. In quel contesto la difesa dell’identità nazionale cristiana era affidata alle armi di Mussolini e di Hitler. Un tema su cui poco si è riflettuto nel contesto più generale del rapporto tra Chiesa e totalitarismi e la cui analisi può aggiungere tasselli significativi di conoscenza a questi controversi problemi.
Oltre ad allargare il quadro storico complessivo, Bidussa si propone di estendere anche il quadro cronologico: ad essere analizzati non sono solo gli anni della guerra, ma anche quelli che li precedono e li seguono, che egli considera altrettanto importanti. Quelli cioè in cui la Chiesa elabora giudizi e politiche sui totalitarismi, come anche sui fascismi, e quelli che seguono, quelli della ripresa della tradizione antigiudaica, dello schierarsi della Chiesa in funzione anticomunista, della sua posizione rispetto alla nascita di Israele. Molto attento è inoltre l’autore a distinguere non solo fra le diversi posizioni all’interno della Chiesa ma anche sui mutamenti delle politiche della Chiesa nei confronti della guerra e quindi anche nei confronti della politica nazista di sterminio degli ebrei. La svolta tra una politica di neutralità ed una di avvicinamento alle potenze alleate è, analizza Bidussa, collocabile fra il 1942 e il 1943, accompagnata da un aumento della sensibilità, non solo della Chiesa ma in genere dell’episcopato sia in Italia che negli altri paesi occupati, nei confronti dello sterminio degli ebrei. Sono i mesi in cui, ad esempio, dopo la Rafle du Vel d’Hiv, molti vescovi francesi denunciano dai pulpiti le deportazioni, senza che i nazisti e i collaborazionisti di Vichy reagiscano ed anzi riuscendo ad impedire o a rallentare le deportazioni (contrariamente a quanto succede invece, com’è noto, in Olanda).
Parlare di atteggiamento della Chiesa verso i totalitarismi e non di Chiesa e Shoah, allargare quindi la prospettiva, contestualizzando la politica della Chiesa entro una storia più ampia che non riguarda solo gli ebrei e l’antisemitismo, offre alla ricerca e alla riflessione storica dei notevoli vantaggi. Il primo dei quali è quello di uscire da un’ottica giudeocentrica, quella legata per intenderci ad una concezione dogmatica della Shoah, che la vedeva come un capitolo assolutamente unico rispetto alla storia del mondo, un momento tragicamente glorioso dell’eterna storia ebraica. Un conseguenza che Bidussa non esplicita apertamente, ma che emerge con chiarezza dall’intero impianto del libro e che la frase di Claudio Pavone sulla storia come nemica di ogni fondamentalismo, posta come esergo al libro, non fa che confermare.
In sostanza, un libro che spero farà discutere, dal momento che si muove fuori dagli schemi precostituiti e dalle banalità del senso comune storiografico. Un libro di storia e di riflessione, un libro di cui c’era davvero bisogno.
Anna Foa, storica, Pagine Ebraiche Maggio 2020
(Nelle immagini, lo storico delle idee David Bidussa partecipa a una delle edizione di Redazione aperta. La storica Anna Foa accompagna il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro della Cultura Dario Franceschini e il presidente del MEIS Dario Disegni all'apertura di "Ebrei una storia italiana", la mostra d'inaugurazione del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara)
IL DRAMMATURGO TEDESCO E LA SUA DENUNCIA SUI SILENZI VATICANI
Rolf Hochhuth (1931-2020)
“Rolf Hochhuth, il giovane autore tedesco de Il Vicario, ha fatto un rapido salto dall'oscurità totale al suo attuale status di individuo più maltrattato del continente europeo”. Così scriveva nel 1964 il New York Times, raccontando l'improvvisa notorietà internazionale raggiunta dall'allora trentunenne drammaturgo e scrittore tedesco Rolf Hochhuth: il suo Il Vicario, messo in scena a Londra, Berlino e Parigi, aveva generato grande scandalo e al contempo molti apprezzamenti. Nella pièce teatrale Hochhuth denunciava i silenzi del Vaticano, e in particolare del pontefice Pio XII, davanti alla Shoah. Quell'opera lo ha reso celebre ma anche bersaglio di attacchi e di censure. In ogni caso il suo nome è indissolubilmente legato a quel lavoro di denuncia. “Hochhuth ha messo in luce, come nessun altro, la mancanza di coraggio del Vaticano durante il nazismo, innescando in Germania, seppur in ritardo, il dibattito”, ha dichiarato il Consiglio centrale degli ebrei di Germania in una nota in ricordo dello scrittore e drammaturgo tedesco scomparso di recente all'età di 89 anni. “Un modello per gli scrittori che denunciano i torti sociali e difendono il processo di elaborazione del passato tedesco”, ha aggiunto il presidente degli ebrei tedeschi Josef Schuster.
IL PULITZER DAVID KERTZER E LA RICERCA SUGLI ARCHIVI VATICANI
"Pio XII, fate lavorare gli storici"
“Mi sembra un po’ prematuro rilasciare dichiarazioni pubbliche sui grandi scoop dagli archivi vaticani dopo soli cinque giorni trascorsi lì dentro”. Così il Premio Pulitzer David Kertzer, commentando a Pagine Ebraiche le recenti rivelazioni su Pio XII e la Shoah ad opera di un gruppo di studiosi dell’Università di Münster. Protagonista in queste settimane di uno degli approfondimenti pilpul curati dalla redazione UCEI (qui in versione audio), lo studioso americano, vincitore del Premio Pulitzer nel 2015 con la biografia The Pope and Mussolini che mette al centro i rapporti tra il leader fascista e Pio XI, ha raccontato del lavoro di ricerca che sta compiendo sull’azione del suo successore e in particolare su come Pacelli, chiamato a succedere a Ratti dal febbraio del ’39, scelse di impostare le proprie relazioni con il dittatore. A causa del lockdown del coronavirus, Kertzer ha potuto solo per pochi giorni studiare l’archivio segreto vaticano relativo al pontificato di Pacelli, aperto a partire dal 2 marzo 2020. Uno dei pochi storici a poter accedere alle carte, aveva già fatto qualche significativa premessa a Pagine Ebraiche, in una lunga intervista firmata da Adam Smulevich, quando era stata annunciata l'apertura dei citati archivi: “Si tratta senz’altro di un fatto significativo. Ma la mia impressione è che le novità più importanti non riguarderanno tanto gli anni del nazifascismo, quanto l’immediato dopoguerra e il periodo a seguire. Sarà interessante, ad esempio, valutare con maggior efficacia il suo ruolo nelle vicende che portarono alla Guerra Fredda. Gli spunti non mancheranno”. Kertzer, allora così come nell'intervista recente, aveva ricordato come sulla figura di Pacelli fosse necessario un lavoro storiografico approfondito. “È sempre un errore imporre una narrativa celebrativa a priori, quasi a protezione di qualcosa su cui è invece fondamentale indagare. Purtroppo anche molta stampa italiana, nelle scorse settimane, si è prestata a questo malinteso. A lavorare dovranno essere solo e soltanto gli storici”.
Cultura politica
Si è appena concluso il procedimento di adesione a un bando europeo per la realizzazione di progetti intesi a valorizzare i Diritti, l’Eguaglianza la Cittadinanza. Fra le varie azioni finanziate spicca la ricerca di proposte per “prevenire e combattere il razzismo, la xenofobia, l’omofobia e altre forme di intolleranza nonché per monitorare, prevenire e combattere il linguaggio d’odio online”. Fra le forme di pregiudizio è naturalmente incluso esplicitamente l’antisemitismo. Milioni di euro vengono investiti dall’Europa in programmi educativi e in azioni di prevenzione.
“E concederò la pace sul Paese” (Levitico 26,6).
Nella seconda delle due parashot che leggeremo questo Shabbat - parashat be chuccotai - la Torah ci da le condizioni per vivere una vita buona e intensa nella terra di Israele.
Dopo aver descritto le cose buone che il Signore concederà al popolo, la Torà conclude il passo, dicendo “e concederò la pace sul Paese”.
A quanto pare questa sarà la prima maturità della storia senza prova scritta di italiano. Può sembrare strano, dato che invece pare che sia prevista qualche forma di lavoro scritto al posto della tradizionale seconda prova (pare, perché per ora girano solo bozze di ordinanze ministeriali, che necessitano di essere sviscerate con sottigliezze e riflessioni su ogni singolo termine da far invidia all’esegesi talmudica). Data la situazione eccezionale in cui ci troviamo, però, non è il caso di trarre conclusioni affrettate e dedurne che la società di oggi dia poco peso alla lingua italiana e all’espressione scritta. Anzi, forse si è ritenuta la prova di italiano non strettamente necessaria in un contesto di emergenza proprio perché tanto nella vita prima o poi capiterà a tutti di dover scrivere, e chi non è capace un giorno o l’altro dovrà imparare per forza.
La liberazione di Silvia Romano non poteva certo essere celata all’opinione pubblica, ma la sua “esibizione” e l’offerta in pasto ad alcuni giornalisti e altrettanti concittadini fanatici poteva essere certo evitata, in primis da chi di dovere. La sua conversione all’Islam (e a quale tipo di Islam) doveva rimanere un fatto privato, e così l’appurare da parte dei famigliari e di eventuali psicologi se in questa scelta ci sia stata o meno una coercizione o una sorta di “sindrome di Stoccolma”.
Soprattutto, nessuno ha dibattuto nello stesso modo di Luca Tacchetto, liberato quest’anno e sequestrato sedici mesi in Mali, o del bresciano Luca Sandrini per tre anni in mano a dei rapitori vicino ad al-Qaida in Siria, entrambi convertiti all’Islam durante la prigionia, il secondo a quanto pare davvero radicalizzatosi.