L'ISTANZA UCEI CONDIVISA CON I VERTICI DELL'EBRAISMO EUROPEO
"Dramma dei profughi, tema che ci riguarda
Rompiamo insieme il muro dell'indifferenza"
Sul dramma dei profughi di Lipa è necessario rompere il muro dell’indifferenza. E agire in modo coordinato per cambiare lo status quo. È l’istanza promossa dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che ha già interessato al riguardo le massime istituzioni dell’ebraismo europeo.
Sottolinea al riguardo l’assessore UCEI David Menasci: “In questi giorni nel centro dell’Europa, nel pieno dell’inverno, un gruppo di persone, profughi, è abbandonato in condizioni inumane nell’indifferenza dei principali governi e di gran parte della popolazione. Vedere le immagini di persone in condizioni di prigionia, al freddo e senza possibilità di avere un minimo di condizioni igieniche, con scarsità di cibo a disposizione, scuote la nostra coscienza perché richiama immagini dell’agonia dei nostri cari durante le atrocità a cui furono sottoposti nei campi di sterminio. Atrocità che non avremmo mai più voluto vedere”.
Nell’immediato seguito del Giorno della Memoria, prosegue Menasci, “non è possibile consentire nessun accostamento alla tragedia vissuta dal popolo ebraico a partire dalla notte dei cristalli nel 1938 fino alla fine della guerra nel 1945”. Ma proprio perché non è possibile fare paragoni, aggiunge, “è nostro convincimento che gli ebrei debbano essere in prima linea per evitare altri casi in cui l’indifferenza di molti porti alla perdita di dignità umana di altri”. Su questo appello, sottolinea Menasci, l’Unione “ha attivato anche altri istituzioni ebraiche europee e si sta coordinando per dare il supporto possibile agli enti nazionali coinvolti nella risoluzione del caso”.
Una vicenda della quale la stampa italiana si è spesso occupata.
“Chi salva una vita, salva il mondo. L’ha ripetuto tante volte, inascoltata, la senatrice Liliana Segre, prendendo a prestito un passo del Talmud. E oggi vengono agli occhi gli ultimi degli ultimi, i profughi di Lipa, congelati al confine tra Bosnia e Croazia, la vergogna più recente sopportata senza pudore dal consesso dell’Europa per bene” ha denunciato tra gli altri Carlo Verdelli sul Corriere della sera.
Europa inerme e complice, come ha documentato la giornalista e fotografa Monika Bulaj, grande esperta di Balcani, in un reportage uscito a fine gennaio su Repubblica: “Nel campo di Lipa, dove la gente vive di stenti lavandosi nel fiume d’inverno, riesci a portare del cibo solo di nascosto perché i gestori, pagati dall’Ue, esercitano il monopolio anche sulla fame”.
Per Domenico Quirico, che ne ha scritto sulla Stampa, la Bosnia “è un memento, una biografia della possibilità di ricadere, sempre nell’orrore, esemplifica, aspetta al varco, ripropone”. Ma anche lì, aggiungeva il giornalista, “la pietà è sparita, balbetta, tace”.
Gravissime anche le responsabilità della polizia croata, protagonista negli scorsi giorni di un maldestro tentativo di censura ai danni di alcuni europarlamentari italiani. “Chi prova a passare il confine – spiegava La Stampa – viene torturato, irriso, fotografato come un trofeo, pestato, marchiato. Questo è il bosco dove da cinque anni l’Europa rinnega se stessa”.
“Il 27 gennaio è stato il Giorno della Memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto e per farsi che esso non si ripeta più. Senza voler fare alcun paragone che non avrebbe senso, sarebbe però bello se partendo da questa ricorrenza appena passata si potesse avviare un appello per l’accoglienza di queste persone, donne uomini e bambini”, l’auspicio recentemente espresso sul Sole 24 Ore.
“L’Europa si è fermata a Lipa” ha titolato tra gli altri Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana.
Si tratta di una vicenda che interessa molto da vicino l’Italia. La scorsa estate la redazione di Pagine Ebraiche aveva avuto l’occasione di testimoniarlo, effettuando una ricognizione nei luoghi del passaggio dei profughi della “rotta balcanica” assieme al regista triestino Mauro Caputo. Tra gli ospiti dell’ultima edizione di Redazione Aperta, Caputo è l’ideatore del docu-film “No borders. Flusso di coscienza” girato lungo i 242 chilometri di confine tra Italia e Slovenia. Al centro di “No Borders” gli effetti personali lasciati nei boschi, dai quali Caputo è partito per ricostruire sogni e speranze di chi lascia guerre, massacri e instabilità inseguendo un futuro migliore.
Speranze, come ci ricordano le immagini di Lipa, purtroppo spesso tradite.
Venticinque anni, formatosi tra Italia e Israele con un’esperienza di studio anche in yeshivah, il romano Manuel Moscato ha ottenuto nelle scorse ore il titolo di “maskil”. La qualifica rabbinica intermedia che costituisce la premessa per poi ottenere la semikhà, e cioè il titolo maggiore.
“Il mio obiettivo è quello: diventare rabbino, confrontarmi con i bisogni e le esigenze delle Comunità. A partire da quelle più piccole” sottolinea Moscato, che ha sostenuto l’esame di abilitazione davanti alla commissione riunita a questo scopo nella sede del Collegio rabbinico italiano. A interrogarlo in presenza i rabbini rav Riccardo Di Segni, rav Benedetto Carucci Viterbi e rav Umberto Piperno. In collegamento a distanza il rav Alfonso Arbib.
Tra i vari argomenti affrontati durante l’esame il Tanakh, il libro dei Profeti, la storia ebraica. Del neo maskil è stata anche saggiata la comprensione di un testo di Halakhah.
Si è spenta questa settimana a Gerusalemme una delle menti più brillanti e seguite dell’ebraismo statunitense. È curioso e un po’ triste che in Italia la sua figura sia poco conosciuta, ma c’è sempre tempo per rimediare. Rav Twerski discendeva dalla dinastia chassidica di Chernobyl fondata dall’avo Menachem Nachum Twerski (allievo del Baal Shem Tov) e lui stesso si era formato negli studi ebraici nella nativa Milwaekee e poi a Chicago. Laureato in medicina, divenne in seguito un importante psichiatra fondando e dirigendo il centro di riabilitazione dalle dipendenze da alcool e droghe dell’università di Pittsburgh.
Itrò, nel ricondurre a Moshè moglie e figli dopo l’uscita dall’Egitto, si preoccupa di suo genero perché dedica tutto il suo tempo ad ascoltare il popolo e pertanto gli consiglia di nominare degli uomini che possano coadiuvarlo nell’esplicazione delle sue mansioni. Lui in tal modo potrà dedicarsi solo ai casi più difficili.
Moshè accoglie il consiglio di suo suocero anche se con il suo continuo dedicarsi al popolo insegna a noi un grande messaggio.
“La storia è scritta dai vincitori” è un luogo comune molto diffuso ma pericoloso, spesso citato a sostegno di tesi negazioniste o per rivalutare il fascismo, oppure, nel migliore dei casi, utilizzato per mettere in dubbio a priori qualunque genere di ricerca storica. Ma tendenzialmente, a parte il fastidio che proviamo per l’uso distorto che ne viene fatto, tendiamo a prenderlo per buono. A mio parere, invece, oltre ad essere fastidioso e pericoloso è anche frequentemente falso.
Qualche giorno fa mio figlio, il quale è in quarta elementare, è tornato da scuola con un lavoro ben curato fatto in classe sulla Shoah. In un fascicoletto scritto a mano venivano raccontate brevemente l’evolversi delle vicende storiche, e quindi la persecuzione e la realtà dei lager nazisti con i numeri delle vittime, il tutto era correlato da alcuni disegni con delle stelle di David. Quando frequentavo le elementari non ricordo iniziative in classe durante il Giorno della Memoria.