Cosa hanno visto gli ebrei suoi contemporanei in Dante Alighieri? Come hanno affrontato ed elaborato il suo lascito le generazioni successive? Su quali temi si è concentrata l’attenzione in questi sette secoli di studio e interpretazione dell’opera dantesca?
Interrogativi affascinanti e che sono al centro di un ampio dossier di prossima pubblicazione su Pagine Ebraiche. Anticipiamo oggi un intervento su questo argomento di Asher Salah, professore presso la Bezalel Academy of Arts e l’Università Ebraica di Gerusalemme.
Dell’opera di Dante sono state date tante interpretazioni quante ne sono stati i lettori, ma forse vale la pena tentare l’esercizio inverso e leggere la letteratura degli ebrei a partire dall’ombra che Dante proietta su di essa da oltre sette secoli. Gli ebrei in Italia, non meno che i loro vicini cristiani, si sono trovati infatti fin dall’inizio a doversi cimentare con quella che il critico letterario americano Harold Bloom ha chiamato “the anxiety of influence” rispetto a un modello, come quello dantesco, immediatamente innalzato allo statuto di fondatore dell’identità linguistica e culturale, prima ancora che politica e nazionale, dell’Italia. E certamente al complesso rapporto degli ebrei italiani con la figura e con il legato letterario di Dante si possono applicare le parole di Bloom quando scrive nella Mappa della dislettura, sempre a proposito di questa “angoscia dell’influenza”, che si manifesta “con travisamenti poetici”, con “degli strumenti di creazione simili ai meccanismi di difesa impiegati dalla psiche contro la coazione a ripetere”, con i suoi “movimenti verso un antidoto personalizzato al sublime, in reazione al sublime del precursore”.
Nel confrontarsi con l’ingombrante presenza di Dante gli ebrei italiani che si sono applicati alla scrittura sulla sua scia hanno fatto ricorso essenzialmente a due opposte strategie. La prima, rappresentativa dell’inizio dell’età moderna, è caratterizzata da un complesso che chiamerei di emulazione competitiva. Questa si scorge principalmente nelle numerose descrizioni di viaggi nei regni dell’oltretomba composte da ebrei italiani tra il quattordicesimo e il diciottesimo secolo. Dante non fu certo il primo a dare forma letteraria all’esperienza di un viaggio ultramondano. Tra i precursori danteschi già Alessandro D’Ancona nel 1874 menzionava i vari “descensus Averno” presenti tanto nella letteratura classica greco-romana che nelle visioni cristiane dell’al di là, da quelle dell’abate irlandese Brandano a Fra Bonvesin de la Riva. Tuttavia, ben prima di Dante, la letteratura rabbinica è stata ricca di rapimenti estatici nei luoghi in cui risiedono le anime dei defunti, fin dai viaggi di Rabbi Yehoshua Ben Levi, amorà del terzo secolo E.V., conservati nella Massekhet Gan Eden Ve-Gehinnom (trattato del Paradiso e dell’Inferno).
Cionondimeno, il successo e l’originalità del poema dantesco ha per sempre cambiato la percezione dell’al di là per tutti coloro che, indipendentemente dalla loro fede e tradizione culturale, hanno voluto varcare, sui suoi passi e con la loro immaginazione, i limiti del mondo dei vivi. Per gli ebrei la via è stata tracciata da un contemporaneo di Dante, Immanuel Romano che dedicò la sua ventiquattresima Mahberet a una visita dell’Inferno e del Paradiso che egli dice aver effettuato in sogno sotto la guida di un misterioso personaggio di nome Daniel. Le similitudini col poema dantesco sono numerose tanto che alcuni punti sembrano parafrasare in ebraico dei versi della Divina Commedia. Queste non bastano però a eclissare le sostanziali differenze, dall’eliminazione del purgatorio alla scelta della prosa rimata invece delle terzine in versi, quasi che Immanuel fosse mosso dal desiderio di mostrare che la lingua ebraica non fosse da meno di quella italiana nel suo potenziale espressivo e che fosse possibile creare un’opera analoga a quella di Dante una volta epurata dal suo significato cristiano.
Non spetta a noi giudicare quanto Immanuel sia riuscito nel suo intento, resta il fatto che l’idea di viaggio nell’al di là ebbe numerosi emulatori, da Mosè da Rieti col suo Mikdash Meat (1415) sino a Mosè Zacuto col suo Tofteh Arukh stampato postumo a Venezia nel 1715, a cui il ferrarese Yaaqov Olmo aggiunse anche un seguito nel paradiso col Eden Arukh (1742). L’influenza del modello dantesco in queste opere appare solo in filigrana, occultata dal tentativo di fornire alle lettere ebraiche un equivalente alternativo della Divina Commedia, quasi a scongiurare la sua scomoda influenza attraverso il ricorso alla qabbalah e all’erudizione rabbinica.
Nel vastissimo corpus testuale prodotto dagli ebrei italiani nell’arco di quasi cinquecento anni, le citazioni dirette tratte da Dante sono assai sporadiche. Non ne ho trovate più di una dozzina, quasi tutte in opere redatte in italiano per un pubblico non necessariamente ebraico, come negli scritti del rabbino seicentesco Simcha Luzzatto e della poetessa Sara Copio Sullam, ambedue di Venezia. Solo in tre opere in ebraico del Cinquecento appare menzionato il nome di Dante: negli scritti di Elia da Genazzano, di Elia da Nola e di Azariah de Rossi. Non sorprende quindi che, nonostante non sussistano dubbi che gli ebrei italiani fossero avidi lettori di Dante tanto quanto i loro contemporanei cristiani – come risulta dagli inventari delle loro biblioteche-, al momento di scrivere in ebraico essi ponevano gran cura nell’evitare di riconoscere alcun debito esplicito con quelle che Da Rieti chiama con termine ambiguo “le fantasie di un libro presso i cristiani”, riferendosi cosi alla Divina Commedia, a cui desidera opporre la propria ispirazione autenticamente ebraica.
Asher Salah, Bezalel Academy of Arts di Gerusalemme
(Nell’immagine in alto il frontespizio dell’opera di Immanuel Romano, contemporaneo di Dante; in basso la traduzione della Divina Commedia compiuta nell’Ottocento da Saul Formiggini)
IN CORSO I LAVORI PER TRASFORMARLA IN CENTRO ISLAMICO
“Salviamo la sinagoga di Tripoli”
Nella massima segretezza le autorità locali stanno trasformando l’antica sinagoga di Tripoli Sla Dar Bishi in un moderno centro di cultura islamico. Le grida vuote degli antenati che hanno pregato lì e lì sono sepolti devono essere ascoltate affinché riposino in pace e la Libia stessa possa ritrovare la pace.
La recente visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi ha riacceso l’attenzione sulle vicende del Paese. Quale rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia, negli ultimi tre mesi mi sono impegnato a far luce su qualcosa che sta accadendo in maniera furtiva. Da fonti sicure ho ricevuto delle informazioni che ne dimostrano la gravità.
Dai filmati e dalle foto inviatemi da persone e diplomatici del posto, dopo vari tentativi a vuoto, appare evidente che nella sinagoga stanno avvenendo dei lavori. Lo scopo l’ho scritto sopra.
Visto che adesso non c’è nessun ebreo che vive a Tripoli e visto che il potere è in mano alle autorità locali (leggi: milizie), si è pensato bene di violare la nostra proprietà e la nostra storia. È chiaro l’intento di approfittare del caos e della nostra assenza.
La sinagoga è il testamento degli ebrei, di come sono da sempre attaccati alla Torà e alla preghiera, il capitale di 2000 anni di presenza. È impensabile che un nostro luogo sacro sia destinato ad altri scopi. I nostri antenati, sepolti sotto le autostrade a causa della distruzione del cimitero ebraico operata da Gheddafi, piangono per riposare in pace e chiedono giustizia.
Quel che sta avvenendo è contrario ai principi dell’Unesco e della memoria della storia della Libia. Dentro la sinagoga hanno pregato i nostri nonni e antenati ed è importante che si mantenga il luogo sacro intatto e non si permetta ai libici di trasformare tutto, come è accaduto con Gheddafi che ha tentato di cancellare la nostra storia. Le nostre sinagoghe sono state trasformate in moschee o in centri di documentazione. È già accaduto con la Sla Dar Serussi, dove oltre a pregare si studiava al centro rabbinico del Talmud Torà. Avevamo sinagoghe, cimiteri, mikvaot, centri di studio e tutto è stato distrutto. Poche cose ancora sono in piedi.
David Gerbi,
rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia
(Nelle immagini, dall’alto in basso: una foto d’epoca della sinagoga Dar Bishi durante una visita ufficiale; l’esterno dell’edificio)
Si apre con un’intervista allo scrittore israeliano Etgar Keret la puntata di Sorgente di Vita in onda su RAI DUE domenica 11 aprile.
Keret racconta l’atmosfera in Israele dopo la riapertura di molte attività e il ritorno a una relativa normalità, in seguito alla velocissima ed efficace campagna di vaccinazione, e a pochi giorni dalle elezioni - le quarte in due anni - che hanno visto vincere, ma non trionfare, Benjamin Netanyahu. Con il suo consueto humour, Keret fa un bilancio graffiante e disincantato sulla situazione politica e sociale e sulla strada che il paese si trova davanti.
Cara Raffaella,
“(…) credo che se voi avrete la fortuna di vedere ancora degli anni di pace, potrete aiutare i vostri simili a non odiarsi e a trarre dalle vicende passate qualche buon insegnamento”. Sono parole definitive contro quello che oggi chiamiamo nella nostra deriva anglofona hate speech (cioè linguaggio d’odio). Le scriveva Ada Ottolenghi nella lettera introduttiva indirizzata alla giovane nipote Raffaella Mortara che precedeva il racconto degli avvenimenti che avevano condotto la famiglia Ottolenghi a salvarsi dalle persecuzioni e dalle deportazioni. Oggi questa memoria è stata finalmente pubblicata con il titolo Ci salveremo insieme. Una famiglia ebrea nella tempesta della guerra (il Mulino, Bologna 2021), accompagnata da una importante introduzione storica di Liliana Picciotto e da una interessante postfazione del figlio Emilio (Millo) Ottolenghi, che fra l’altro fa cenno a inediti aspetti biografici del generale De Lorenzo (assai noto protagonista della storia del dopoguerra repubblicano).
"Shammai diceva: fa del tuo studio una occupazione costante; parla poco ma agisci molto; accogli ogni persona con volto sereno". (Avòt 1;14)
Da domani fino al sabato che precede la festività di Shavuot leggeremo i Pirké Avòt - un trattato di mishnà, dell'ordine dei "neziqin - danni" dove sono dati insegnamenti di vita dai più autorevoli Maestri della nostra tradizione.
Le dieci interviste che ho fatto per la Shoah Foundation, da marzo a settembre del 1998, sono abbastanza diluite nel tempo, ad almeno una decina di giorni l’una dall’altra, spesso molto di più. C’è un’unica eccezione: Natalia Tedeschi intervistata il 5 giugno e Fausto Tagliacozzo con sua moglie Lia Montel intervistati il 7 giugno. Una vicinanza casuale, dovuta a qualche ragione pratica che non ricordo. Una cosa era certa: Natalia era l’unica ebrea torinese deportata ad Auschwitz che ancora non era stata intervistata ed era in grado di parlare, anche se inizialmente si era rifiutata; poi improvvisamente si era decisa e bisognava approfittarne prima che cambiasse idea.
“Perché mai conferire la cittadinanza onoraria a un egiziano?” Così molte città, soprattutto con giunta di centrodestra, hanno rifiutato con risposte analoghe l’appello “100 città con Patrick Zaki” nato in solidarietà allo studente dell’Alma Mater incarcerato senza motivo dal regime di Al Sisi.