“Abbiamo riportato la calma in Israele
e colpito al cuore i terroristi di Gaza”
’L'operazione Guardiano delle Mura condotta dall'esercito israeliano nella Striscia di Gaza è stata un successo e ha “cambiato l'equazione con Hamas”. Raggiunto il cessate il fuoco nella notte, il Primo ministro Benjamin Netanyahu si è presentato in queste ore in conferenza stampa a Tel Aviv per dare un quadro del conflitto appena concluso con i terroristi di Hamas e Jihad islamica. Al suo fianco il ministro della Difesa Benny Gantz, il capo di Stato maggiore Aviv Kochavi e il capo dello Shin Bet Nadav Argaman. “Il nostro obiettivo era riportare calma e sicurezza per i cittadini di Israele e questo abbiamo fatto. Abbiamo inferto a Hamas il massimo danno”, ha dichiarato Netanyahu. “Con 11 giorni di guerra - ha poi spiegato - sono state cambiate le regole del gioco e lo sono anche per il futuro. Se Hamas pensa che accetteremo il lancio sporadico di razzi, si sbaglia. Ciò che è valso per il passato non varrà per il futuro”.
Netanyahu ha quindi ringraziato il presidente Usa Joe Biden per “l'appoggio dato al diritto di difendersi di Israele”. Tra i due ci sono stati in questi giorni diverse conversazioni: il leader israeliano ha detto di aver spiegato a Biden che l'operazione israeliana si sarebbe fermata solo una volta raggiunti tutti gli obiettivi. E Biden, ha specificato, “lo ha capito”. “Molti nel mondo – ha proseguito Netanyahu – sono capaci di distinguere tra Israele, uno stato democratico che santifica la vita e ha l'esercito più morale del mondo, e un'organizzazione terroristica sanguinaria che santifica la morte e commette un doppio crimine di guerra: sparare deliberatamente sui nostri civili mentre usa i suoi come scudi umani”.
Tra gli obiettivi colpiti nel corso dell'operazione, il Premier ha parlato dell'abbattimento di “nove torri terroristiche”. E, ha sottolineato, "nessuna di queste era un edificio innocente”. Un'allusione alla controversia sulla distruzione di una torre dove avevano sede numerose agenzie di stampa internazionali. Nel mirino d'Israele, la spiegazione di Netanyahu, c'erano solo “uffici di Hamas, centri di comando di Hamas, depositi di armi di Hamas: abbiamo colpito fabbriche di razzi, laboratori di armi, depositi di armi. E l'abbiamo fatto con un danno minimo ai civili non coinvolti”. Facendo quindi “sforzi estremi” per non danneggiare i civili. Passi che, ha specificato, non sono stati fatti “da nessun paese al mondo”.
LA SFIDA DELL'ADAM INSTITUTE FOR DEMOCRACY AND PEACE
"Ebrei e arabi, convivenza da recuperare:
ripartiamo dall'uso delle parole"
“Paura e diffidenza le tocco ogni giorno con mano. Ma sento al contrario anche una grande voglia di impegnarsi, in modo concreto, nell’unica direzione possibile: quella della coesistenza. Se c’è qualcosa che non possiamo permetterci il lusso di perdere è la speranza”.
Uki Maroshek Klarman dirige lo Adam Institute for Democracy and Peace di Gerusalemme, realtà d’eccellenza nella promozione di progetti interdisciplinari per favorire l’incontro e il confronto tra le diverse anime della società israeliana. Una società che le recenti tensioni, sfociate in città che della coesistenza sembravano un simbolo inviolabile, hanno mostrato sempre più lacerata e conflittuale.
“Appena pochi minuti fa – racconta a Pagine Ebraiche – ho concluso una call con due scuole. La frustrazione era palpabile: quello cui abbiamo assistito è, per chi si occupa di educazione, una sconfitta. Un campanello d’allarme che non giunge però inaspettato: i segnali, purtroppo, c’erano da tempo”. Superata la fase “frustrazione”, è seguita quella “rimbocchiamoci le maniche”. E così entrambe le scuole, una ebraica, l'altra araba, hanno provato ad immaginare i prossimi passi da compiere. “I più motivati sono proprio le e gli insegnanti: nessuno ha voglia di arrendersi a una spirale d’odio che rischia di vanificare anni di lavoro per conoscersi e soprattutto riconoscersi. Forse sarà banale, ma è dalla scuola che tutto deve ripartire. La mia opinione – afferma Klarman – è che serva un ripensamento totale”.
Una ripartenza nel segno di “un’educazione fermamente anti-razzista, non basata su astratti teoremi ma sulla pratica”. Quello che l’Adam Institute, fondato nel 1987 e vincitore in passato di alcuni prestigiosi riconoscimenti, si propone di fare ogni giorno. Diecimila i giovani coinvolti annualmente in incontri, attività, progetti. Spronati all’assunzione di responsabilità anche attraverso i 30 volumi finora pubblicati (sia in ebraico che arabo). Alcuni titoli: “L’ABC della democrazia: un programma educativo”, rivolto ai più piccoli, “Le parole contano: educazione alla libertà d’espressione”, per i ragazzi un po’ più grandi; e, per gli insegnanti, “Sulla via del dialogo: mettere in rete le scuole contro il razzismo”.
Shavuot, il dramma di Gerusalemme
e le memorie dell'Italia ebraica
La tragica notizia del crollo di una tribuna durante il tisch (cerimonia chassidica) in corso a Yerushalaim la vigilia di Shavu’ot si aggiunge a un triste elenco di analoghi eventi accaduti anni addietro proprio durante il mese di siwan. Di alcuni di questi si è serbata memoria nell’ebraismo italiano, come il dramma che si verificò a Mantova venerdì 31 maggio 1776 (13 siwan 5536). Ne parla il Chidà nel suo diario di viaggio Ma’agal Tov riferendo che gli giunse la notizia mentre si trovava a Ferrara.
“14 Siwan [1° Giugno 1776], Sabato. Ci giunse una terribile notizia. A Mantova il venerdì c’erano due matrimoni nello stesso edificio. Nel secondo matrimonio lo sposo aveva fatto in tempo a consegnare l’anello, i Rabbini erano andati in un’altra stanza a firmare il contratto nuziale e avevano appena cominciato le ‘sette benedizioni’, che per i nostri molti peccati crollò il pavimento con tutti coloro che erano presenti nella casa sottostante. E anche il pavimento di questa crollò su una terza casa ancora sotto e pure il terzo pavimento finì per crollare: 65 ebrei morirono lapidati e strangolati, compresa la sposa, sua madre e sua sorella, mentre 30 rimasero feriti, incluso lo sposo. Si trovava lì anche la Signora Ester, moglie del Sig. Pinechas Cohen, ma uno dei servitori inavvertitamente l’aveva spinta ed essa, seccata, se n’era andata via subito prima che la casa crollasse. Anche suo cognato, il Sig. Israel, mentre stava arrivando per le ‘sette benedizioni’ si ricordò di dover scrivere una lettera urgente e così tornò indietro. Fu uno spavento terribile. Rimanemmo molto male alla notizia. Che il Signore ci salvi da tutti i decreti cattivi, così sia la Sua volontà” (Rav A. Somekh (cur.), Rav Chayim Yossef David Azulay, Belforte, Livorno, 2012, p. 265-266).
Pochi anni più tardi il rischio fu corso a Ivrea:
“Fu nel (giugno) 1785 (Sabato Nassò) che trovandosi quasi tutta la corporazione al pranzo nuziale di Giuseppe Isacco Olivetti sprofondò d’improvviso il pavimento della sala e tutta la comitiva colla tavola e i mobili caddero nella camera sottoposta. Non solo non vi lasciò alcuno la vita, ma neppure s’ebbe a lamentare una frattura o lussazione. Si stabilì pertanto di celebrare a perpetuità l’anniversario di quel vero miracolo con luminarie e la recita di apposito Salmo composto dal Rabbino allora in carica e questa festa si commemora il 12 di sivan sotto il nome di Nes Mappoled Abbaid” (lett. “miracolo relativo al crollo della casa” – Flaminio Servi in “Corriere Israelitico”, 10, 1871, p. 216).
Infine, nel pomeriggio di venerdì 5 giugno 1835 ad Alessandria si celebrava in un’abitazione privata il matrimonio di Isachia Vitale con Amalia Vitale. Anche in questo caso il pavimento cedette sotto il peso dei presenti e si consumò la tragedia. Ebrei e cristiani precipitarono insieme: fra gli ebrei vi furono 29 morti, di cui 5 bambini e 35 feriti; fra i cristiani rispettivamente 17 e 12, comprese alcune importanti personalità dell’esercito: la sposa lavorava di cucito per le divise. Morirono lo sposo, il rabbino Matassia Levi De Veali con la moglie Stella Ottolenghi e il vice rabbino Raffael Barukh Amar. La sposa rimase gravemente ferita ma si salvò e visse in seguito per molti anni e così il figlio del rabbino, Elia, rabbino anch’egli. La popolazione alessandrina offrì ogni aiuto possibile, mettendo a disposizione l’ospedale per cure gratuite senza distinzione fra ebrei e cristiani, ma le conseguenze sulla vita successiva della Comunità furono immani. Il sentimento generale di orrore e di rimpianto per il disastro fu sintetizzato dal Prof. Carlo Boucheron docente di latino all’Università di Torino in un’epigrafe latina, poi tradotta in italiano e in ebraico dal giovane Rabbino Marco Tedeschi, figlio del Rav Felice Tedeschi (Pinechas Ashkenazì) di Vercelli (Aldo Perosino, Gli Ebrei di Alessandria: una storia di 500 anni, Le Mani, Genova, 2002, p. 26-27; Rav Raffael Benedetto Amar, Sull’osservanza delle feste, introd. di Rav A.M.Somekh, Belforte, Livorno, 2019, p. 29-30).
OLTRE VENT'ANNI DI LAVORO E COLLABORAZIONE CON L'UCEI
Dalida Sassun (1967-2021)
Profondo cordoglio, tra gli ebrei italiani, per la scomparsa di Dalida Sassun.
Responsabile dell’area amministrazione UCEI, collaborava con l’Unione da oltre vent’anni.
Stimata professionista, è stata un punto di riferimento anche per tutte e 21 le Comunità locali che lungo questo intero arco di tempo hanno potuto apprezzarne le doti sia lavorative che umane.
Le istituzioni dell’ebraismo italiano si stringono al marito, alle figlie, a tutti i suoi cari. Con un pensiero rivolto in particolare al fratello Raffaele, attuale membro del Consiglio UCEI.
Sia il suo ricordo di benedizione.
Si apre con un servizio sulla crisi tra Israele e Gaza la puntata di Sorgente di Vita in onda su RaiDue questa domenica. Nelle ore in cui viene annunciato un primo, fragile cessate il fuoco, un approfondimento con il demografo Sergio Della Pergola. La puntata prosegue con un’intervista a Ugo Foà, classe 1928, autore del libro per ragazzi “Il bambino che non poteva andare a scuola”, e si chiude con un servizio sulle recenti dimissioni di Stanislaw Krajewski dal Consiglio del Museo di Auschwitz. A provocare la decisione dello storico e rappresentante della Comunità ebraica locale, la nomina all’interno del board dell’ex premier Beata Szydlo, membro di spicco del partito di destra nazionalista Diritto e Giustizia.
“Facciamo appello – nel mezzo dell’attacco che ci viene sferrato contro da mesi – ai cittadini arabi dello stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti.” Queste parole, per chi non lo sapesse, sono tratte dalla dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele (14 maggio 1948). Il momento non era certo meno grave di quello attuale, né il rifiuto da parte del mondo arabo era meno netto, anzi. Eppure si scelse una formula che dichiarava senza possibili ambiguità la natura democratica dello stato che si stava fondando; uno stato, si diceva poche righe più sopra, che “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura”.
Piena cittadinanza e rappresentanza in tutte le istituzioni ovviamente significa diritto di avere i propri partiti e i propri deputati, e di conseguenza diritto di partecipare a un’eventuale coalizione di governo secondo il libero gioco democratico delle maggioranze e minoranze come accade in qualunque repubblica parlamentare. È assai sconcertante leggere su queste colonne che l’ipotesi di un governo sostenuto da un partito arabo sarebbe stata “in contrasto con gli ideali che i padri del sionismo ci hanno da sempre insegnato”: dunque la dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele sarebbe contraria agli ideali del sionismo? Francamente mi sembra un’affermazione paradossale.
Ancora più paradossale sarebbe se noi ebrei italiani nelle nostre riflessioni e nei nostri dibattiti negassimo per principio ai cittadini non ebrei dello stato di Israele, quell’uguaglianza e quella piena parità di diritti e doveri di cui giustamente godiamo in Italia e a cui giustamente non saremmo mai pronti a rinunciare.
Esattamente al centro della nostra parashà troviamo la “birkat kohanim – benedizione sacerdotale”, che è considerata un ordine per i kohanim, i quali fanno da tramite fra il Signore – che benedice – e il popolo che riceve la benedizione.
Il versetto conclusivo della benedizione suona con le parole: “E porranno il mio nome sui figli di Israele e Io li benedirò”.
Il momento in cui essa viene recitata è quello della ripetizione della ‘amidà (la preghiera composta da diciotto benedizioni) e precisamente all’inizio dell’ultima benedizione, che inizia con le parole “sim shalom tovà – poni una pace buona”.
“Ogni giorno guardiamo le cose insignificanti, guardo tutto e tutto il mondo che vive di speranza, e noi non viviamo”: una voce in lingua araba resa poi impercettibile dall’ouverture del Tannhäuser di Wagner introduce la canzone “Up patriots to arms” di Franco Battiato. Forse che la speranza che riponiamo nel mondo finisce per non viverlo, o per non lasciarci il tempo di concretizzare e attuare questa speranza? Così ci tengo a ricordare il maestro da poco scomparso, e con un altro verso della medesima canzone “Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre”.
Dieci maggio: abbiamo organizzato un ospedale da campo sulla Striscia di Gaza, dalla parte di Hamas, a poche centinaia di metri dal checkpoint di Erez. È stato necessario un imprenditore per le risorse economiche e i mezzi, il reclutamento di medici e di personale infermieristico e naturalmente i permessi dalla parte nostra, da Israele. Tutta questa sincronizzazione è stata rapida: ormai siamo allenati con il Covid, la cura giornaliera dei malati palestinesi di cancro negli ospedali israeliani e la situazione dei servizi igienico-sanitari nella Striscia.