Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     20 Agosto 2021 - 12 Elul 5781
PAGINE EBRAICHE AGOSTO   

La nostra identità in bilico

“Si può scrivere per la fama, e si può scrivere per l’Arte. Si può scrivere per la scienza o per dar voce allo spirito. Si scrive per affermare di esistere o per un bisogno istintivo di comunicare. Ogni scrittura ha un suo motivo, e in ogni scrittura c’è dell’autobiografia, di contenuti o di stile. Ma si può scrivere anche a nome di qualcun altro, per rispondere all’aspettativa di chi mai ha avuto l’ardire di esprimersi, per appagare un bisogno da anni represso, per rispondere con imperdonabile ritardo alla frustrazione di coloro ai quali la storia non ha dato una voce”.
L’ebreo in bilico – l’ultimo saggio di Dario Calimani, nelle librerie con l’editore Giuntina – è una ricognizione autobiografica su cosa significhi difendere la Memoria dai tentativi di oblio e annacquamento, rapportarsi con la propria identità in ogni sua sfumatura e purtroppo talvolta anche con un sentimento ostile trasversalmente diffuso nella società italiana. Un sentimento che si annida anche in mondi, teoricamente più istruiti, che si immaginerebbero immuni dal pregiudizio.
Il viaggio di una vita. Nei diversi universi e nelle diverse situazioni toccate con mano da Calimani, per molti anni docente di Letteratura inglese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e da qualche mese presidente della Comunità ebraica lagunare. Le sofferte memorie familiari, tra sterminio e salvezza. I ricordi del periodo militare, con le prime difficoltà a conciliare vita privata e servizio pubblico. E la scelta, da allora, di non privarsi più della barba che l’esercito gli aveva imposto di radersi. Amicizie e rapporti incrinatesi davanti a considerazioni malevole. Il preside di facoltà che dopo il ritrovamento di una svastica nell’aula dove insegna esprime sì solidarietà, ma in modo ammiccante aggiunge: “Però tu ci ha giocato un po’”.
Tra detti e non detti. Tra veleni, strafalcioni e piccole e grandi miserie, un itinerario non semplice da tracciare. E comunque coraggioso e schietto. Un libro utile per capire quanta strada resti ancora da percorrere.

Mi chiede di incontrarla una consumata regista Rai, per un documentario che sta girando sul Ghetto di Venezia. E io mi dispongo mentalmente all’incontro. Ripasso nella mia mente quanto so del Ghetto. Non sono uno storico, ma me ne sono occupato, e qualche dato saliente della sua storia lo conosco; soprattutto, ho una vaga idea di come il Ghetto sia stato visto dall’esterno, da viaggiatori e scrittori che l’hanno visitato. Sento di dovermi preparare a sfatare preconcetti e idee superficiali sugli ebrei e sui tre secoli di emarginazione ebraica. Ma voglio essere ottimista, e penso che una regista Rai certamente ha letto e studiato prima di venire a Venezia. E poi, essendo romana, è di certo venuta a contatto con gli ebrei attraverso l’importante comunità ebraica della capitale.
Ci penso mentre cammino per il Ghetto e, guardandomi attorno, osservo le peculiarità su cui potrò indirizzare la sua attenzione: le basse finestre degli altissimi edifici, il campo spazioso in cui migliaia di persone, per secoli, hanno vissuto nella più totale indigenza. È il Ghetto miserabile da cui, con criminale facilità, il 17 agosto 1944 furono deportati gli anziani della Casa di Riposo Israelitica.
Lo spirito del passato aleggia sulle mura delle case, nella scritta del Banco Rosso, nelle vere da pozzo, nelle iscrizioni ebraiche incise sulla pietra, negli alti finestroni delle sinagoghe debitamente, ma a fatica, mimetizzate alla vista del passante, nelle cupole che affiorano dai tetti.
È straziante leggere il resoconto che ne fa lo scrittore americano William Dean Howells, console a Venezia fra il 1861 e il 1865, il quale lo attraversa solo per caso e, dopo aver visitato la Sinagoga Spagnola ed essersi aggirato per calli e callette, osserva: “Non capisco perché ebrei di qualsiasi ceto debbano rimanere nel maleodorante Ghetto, ma è certo che vi rimangono in gran quantità. Forse l’impurità del luogo e la sua atmosfera favoriscono la purità della razza; ma mi chiedo se gli ebrei sepolti sulla riva sabbiosa del Lido, dove soffia la dolce brezza marina – deve per forza soffiare per secoli prima di poterli purgare dal Ghetto –, non debbano essere invidiati dagli abitanti di quelle case alte e sporche e di quei vicoli sporchi e bassi. Non c’era nulla di salubre o gradevole o attraente che alleviasse la perniciosità del Ghetto agli occhi dei suoi visitatori [...] Ai bei tempi andati, quando la peste vendicava i poveri e gli oppressi e si riversava sui loro oppressori, quale flagello lugubre e pauroso dev’essere uscito di notte e di giorno da quelle strade orrende per affluire ai perimetri marmorei dei palazzi patrizi, portando ai letti dei ricchi e degli alteri l’immondo squallore del Ghetto tramutato in veleno! Grazie a Dio, i bei tempi andati sono passati per sempre. In queste antiche terre si impara a odiare e ad aborrire il passato”.
Il degrado e l’indigenza sono ben visibili anche a distanza di oltre mezzo secolo dall’apertura delle porte del Ghetto. L’eredità di tre secoli di segregazione serra ancora nella sua morsa gli ebrei del ghetto. Difficile, per la massa di derelitti, sollevarsi da una miseria disperata, accettata come destino irreversibile. In un certo senso, a metà Ottocento, le porte del Ghetto sono ancora chiuse. Quando a qualche convegno sento storici e musicologi parlare della bellezza della cultura sviluppata nel Ghetto penso sempre, come contraltare, a questa descrizione.

Dario Calimani

Leggi

PAGINE EBRAICHE AGOSTO

Il giorno in cui fummo yiddishkayt

Il guardiano dei suoni è un volume che rappresenta un omaggio corale all’etnomusicologo, regista e musicista trentino Renato Morelli in occasione del suo settantesimo compleanno. Una polifonia di voci, dai timbri più diversi, per celebrare il percorso umano, di ricerca e artistico di un personaggio vulcanico che, per diletto, ha dato vita anche a un gruppo klezmer. Di seguito uno stralcio di uno dei brani del libro, firmato dalla regista e intellettuale Mara Cantoni.

“Tamara! Sono impazzito per il kleZmer!” (la zeta è aspra) “Sto mettendo su un gruppo...” Solo Morelli mi chiama così, Tamara. Non è il mio nome ma ormai è un codice consolidato. “Klezmer, René, si dice klezmer. Come entusiasmo.”
Frammenti di una lunga storia.
Correva l’anno scolastico 19641965 quando la porta della III Media A si aprì ed entrò una giovane donna bionda che mi parve subito bellissima: la scuola era quella ebraica di Milano e lei era Hana Roth. Per molti attrice e cantante (in Israele dov’era cresciuta e aveva studiato e debuttato, in Italia dov’era già nel Nuovo Canzoniere Italiano), per me era la moglie del prof di ebraico, che ce la presentò. Chiese se ci fosse qualcuno che sapeva fare qualcosa cantare, suonare, recitare perché intendeva organizzare uno spettacolo. Fui l’unica a rispondere (credo di non sbagliare), e la più piccola del gruppo che si formò. Si combinò un montaggio di brevi sketch e canzoni varie (in duo due chitarre e due voci cantavo per esempio Vitti ‘na crozza), ma quello che poteva restare un episodio ci preparò all’anno successivo, quando accadde qualcosa di più importante di quanto potessimo percepire. “Yomi Yomi zing mir a lidele, vos dos meydele vil? Dos meydele vil a kleydele hobn, darf men geyn der shnaydern zogn...”.
Le ragazze con il fazzoletto annodato sotto il mento, i ragazzi con quel cappellino da est-europei che i Beatles avevano adottato (pare via Dylan), sul palco ampio e spoglio vicino alla palestra rappresentavamo lo spirito della “yiddishkayt”, tra canti e racconti, storielle e scenette da shtetl. Non era banale, benché oggi possa sembrarlo. Hana ce ne aveva parlato infatti con l’eccitazione che accompagna i progetti rivoluzionari: degli amici teatranti, là in Israele, stavano raccogliendo materiali eterogenei, per lo più dal mondo chassidico, e l’idea era di farne un piccolo musical antologico, agile e variato, mescolando momenti comici e drammatici, melodie e parlati... (Il musical in questione era Ish Chassid Haya, in italiano C’era una volta un Chassid. Nessuno poteva immaginare che sarebbe andato in scena soltanto nell’autunno del 1968, dopo molto discutere e molte difficoltà, segnato in più dal trauma della Guerra dei Sei Giorni, che nessuno avrebbe voluto dover combattere. E fu realmente qualcosa di trasgressivo per il pubblico israeliano, sia per l’innovazione scenica niente costumi, niente scenografia, niente strumenti tradizionali ma, al contrario, chitarre e abiti casual in una scena quasi neutra, secondo il vento della contro-cultura che soffiava da Occidente sia e soprattutto per aver osato attingere alla corrente più mistica della religione per comunicarla fuori dalle convenzioni e persino con ironia. Un nodo mai sciolto, quello del rapporto tra religione e laicità, a quell’epoca intrecciato con il rifiuto di tutto quanto fosse yiddish a partire dalla lingua, troppo vicina al dolore, troppo vicina al tedesco: il nuovo Stato doveva essere nuovo davvero. Ish Chassid Haya fu scritto, recitato e cantato in ebraico moderno, pur conservando i “Niggunim”, le melodie scandite nient’altro che per sillabe senza significato: ya-mama, ay-di-di-day, bom-biri-bom, ya-bo-boy...).

Mara Cantoni

Leggi

PAGINE EBRAICHE AGOSTO

Celeste ed Elena, anime nere

Due donne si incontrano, dentro un carcere, nella Roma del dopoguerra: l’ebrea Celeste Di Porto, la famigerata Pantera nera responsabile dell’arresto di vari correligionari di ‘Piazza’ nei mesi dell’occupazione nazista. Una delatrice della più bieca specie, come ricorderanno anche i muri di Regina Coeli (tra le tante scritte, vi si leggerà: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste”).
E la tedesca Elena Hoehn, di nascita luterana, in prigione perché accusata di aver venduto alle SS tre ufficiali dei carabinieri. Al processo sarà assolta, ma sulla sua colpevolezza sembrano esserci ben pochi dubbi. Anime Nere (ed. Marsilio), scritto a quattro mani da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, è la storia di questo incontro e dell’evoluzione che scaturirà nella vita di entrambe.
Delle molte ambiguità, inquietudini e zone d’ombra. E di una duplice conversione al cattolicesimo, nel solco della focolarina Chiara Lubich. Una delle tante persone della cui buona fede si servirono in modo cinico. Qualcosa del genere accadde infatti anche al vescovo Giuseppe Placido Nicolini di Assisi, uno che gli ebrei li aveva messi in salvo. E che per questo suo impegno disinteressato, al pari di altri coraggiosi preti che si erano spesi in quella causa, sarà poi fatto “Giusto tra le Nazioni”.
Una vicenda complessa e inquietante, in un’Italia del dopoguerra che appare fortemente compromessa. Anche a livello di giustizia. Soprattutto a livello di giustizia. Raccontano infatti le autrici: “Nella ricostruzione di questa vicenda abbiamo trovato molte lacune, molti buchi neri. Ne abbiamo colmati solo alcuni”. Per il resto, spiegano, “abbiamo dovuto misurarci con assenze documentarie che corrispondono a ciò che ha permesso ai giudici di assolvere Elena in base alle dichiarazioni non provate di uno sgherro italiano di Kappler”.

Leggi

Distinzioni necessarie
Se un candidato sindaco di una grande città affermasse di non voler distinguere tra criminali e forze dell’ordine, oppure tra mafia e antimafia susciterebbe un’indignazione unanime: persino i criminali e i mafiosi si affretterebbero a prendere le distanze da una dichiarazione così strampalata. In un paese democratico dichiarare di non voler distinguere tra fascisti e antifascisti non dovrebbe suscitare lo stesso unanime sconcerto? “Fascisti o antifascisti” non è come dire “milanisti o interisti” (la città in questione è Milano), “amanti del mare o della montagna”, o magari “cristiani, ebrei, musulmani o atei”, tutte distinzioni che giustamente chi aspira a raccogliere i voti del maggior numero possibile di elettori non può e non deve fare (o, per lo meno, deve dichiarare di non voler fare). Com’è possibile presentarsi ad un’elezione democratica sperando di essere democraticamente eletti per guidare democraticamente una città e al contempo dichiarare di non voler distinguere tra chi è a favore e chi è contro la democrazia?
Anna Segre
Inni alla vita
I nostri Maestri sono soliti definire la Torah con l’espressione “Torat Chaiim – La Torah di vita”. In essa infatti tutte le mizvot contenute non sono altro che all’insegna di una buona vita, piena di salute e soddisfazione e priva di preoccupazioni e affanni.
“Ve nishmartem meod le nafshotekhem – Sarete molto attenti alle vostre persone” (Devarìm 4;15) questo è uno degli imperativi più forti che il Signore D-o da al popolo d’Israele nella Torah.
La nostra parashà è quella che contiene in assoluto il maggior numero di mitzwòt e fra di esse, la maggior parte inneggiano alla vita.
Rav Alberto Sermoneta
Leggi
Pagine Ebraiche 24, l'Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'UCEI sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Le testate giornalistiche non sono il luogo idoneo per la definizione della Legge ebraica, ma costituiscono uno strumento di conoscenza di diverse problematiche e di diverse sensibilità. L’Assemblea dei rabbini italiani e i suoi singoli componenti sono gli unici titolati a esprimere risoluzioni normative ufficialmente riconosciute. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo comunicazione@ucei.it Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: comunicazione@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio "cancella" o "modifica". © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.