La prima sorpresa è trovare sul cellulare di Veit Heinichen la data ebraica. Quando lo appoggia sul tavolo, lo schermo lampeggia e ci ricorda che è il 3 Sivan 5782, un 2 giugno rovente di sole in una Trieste presa d’assalto dai turisti. È un richiamo alla durata della Storia, spiega lo scrittore che proprio del passato, dei suoi crimini e del loro micidiale riverbero sul presente ha fatto l’asse portante di una serie di noir ambientati in città che da decenni scalano le classifiche di tutt’Europa. Il luogo perfetto per parlare con lui del suo ultimo romanzo, Lontani Parenti, undicesima inchiesta del commissario Proteo Laurenti che torna in modo toccante sugli anni dell’occupazione nazista di Trieste e sulla tragedia della Risiera di San Sabba, è quello in cui ci troviamo: il Caffè Malabar con i tavolini bene allineati sotto gli ombrelloni a fianco dell’aiuola attorno a cui ruota il traffico della centralissima piazza San Giovanni. È uno dei tanti luoghi resi famosi dai suoi libri, insieme a certe trattorie e scorci del Carso, e ormai una tappa obbligata per il fiorente turismo che lungo le vie e le piazze insegue le tracce del suo indimenticabile protagonista, un commissario di mezz’età di origini salernitane che poco o nulla ha in comune con i detective dal fascino cupo e pericoloso che di solito popolano il genere noir. Trieste è una città letteraria come annunciano le statue di Italo Svevo, Umberto Saba e James Joyce disseminate fra le vie della città – di recente è apparso anche Gabriele D’Annunzio, ma è tutta un’altra storia e molto più discussa. E la sua identità di frontiera, secondo la definizione di Claudio Magris, è ormai un mito consolidato nell’immaginario collettivo quanto le raffiche di bora. Immaginare che la sua storia e i suoi risvolti più cocenti potessero diventare oggetto d’interesse al punto da muovere le vendite e richiamare frotte di visitatori in quest’angolo remoto d’Italia sembrava però una scommessa fallita in partenza. Ci voleva un autore tedesco innamorato di Trieste, dove vive da quasi trent’anni e che ha imparato a conoscere meglio di tanti locali. Ci voleva la formula del noir, l’unico genere che mancava al suo variegato panorama, per raccontare l’intrico di trame e traffici che si dipana dietro le composte facciate borghesi. E a guardare bene, proprio qui ci guida la data ebraica e il suo rimando al senso della Storia. Veit Heinichen, come succede che uno straniero finisce a raccontare una città chiave nella storia d’Italia? Le lunghe ombre della morte (2006) torna sulla morte del collezionista Diego De Henriquez e rintraccia nei suoi diari le origini delle trame di Gladio. I morti del Carso (2011) si inoltra sul terreno delicato delle foibe. Lontani Parenti porta invece in scena un serial killer con la balestra e rievoca il periodo dell’occupazione nazista.
Sono cresciuto in Germania, dove negli anni Sessanta gran parte dell’apparato pubblico era composto nei suoi ranghi più elevati da ex nazisti e certi silenzi dominavano la scena. Di certe questioni è stato a lungo difficile parlare. I nostri genitori erano usciti da sistemi totalitari e quand’ero ragazzo in generale si parlava degli ebrei solo se l’argomento veniva evocato. “Si sono trasferiti”, si diceva. È il genere di situazione in cui s’impara a fare domande e ad ascoltare, anche e soprattutto, quello che non viene detto. Quando mi sono trasferito in Italia, ho visto ripetersi un’altra volta quella situazione e anche per questo sono stato in grado di riconoscerla. La Germania è però uno dei pochi paesi in Europa ad aver elaborato una coscienza dei crimini del Terzo Reich.
L’educazione di base senz’altro c’è e c’è stata. A dieci, undici anni, a scuola dovevamo tutti vedere alcuni film in bianco e nero. Uno riguardava la liberazione di Auschwitz e ancor oggi quelle immagini sono impresse nella mia testa. È stato allora uno choc non indifferente ma al tempo dell’università ho realizzato che, essendo nato 12 anni dopo la fine della guerra, non potevo personalmente avere colpa di quanto accaduto. Avevo però una responsabilità e avevo l’obbligo di fare resistenza ed evitare che il passato si ripetesse o fosse dimenticato. I meccanismi del non voler sapere sono quelli che hanno permesso agli aguzzini di perpetrare i loro crimini. E siamo sempre parte attiva, anche se voltiamo le spalle a ciò che succede. Il suo ultimo libro torna spesso sul tema della persistenza del passato. “Il passato non è mai passato. La violenza del passato continua a generare violenza”, scrive. “Qui tutti sono contro tutti e anche se ultimamente sembrava che la situazione si fosse calmata la pace è solo apparente. Il passato ritorna sempre”.
Quando lavoravo nella casa editrice Fisher avevamo creato la “Collana nera”, denominata così dal colore della copertina. Si occupava dell’Olocausto e la dicitura che avevo scelto di usare era “Il passato che non passa mai”. Non è un’affermazione superata, purtroppo. Il passato che torna è anche un modo di non riflettere e basta guardare al palcoscenico della politica per rendersene conto.
Veit Heinichen è nato nel 1957 a Villingen-Schwenningen, nel Land tedesco del Baden-Württemberg, vicino ai confini con la Francia e la Svizzera. Dopo studi di economia a Stoccarda, lavora nella direzione generale della Daimler-Benz. Poi diventa libraio e quindi lavora in diverse case editrici indipendenti prima a Zurigo e a Francoforte. Nel 1994 è cofondatore a Berlino dell’editrice Berlin Verlag, che dirige per cinque anni. Nel 1997 si trasferisce a Trieste, dov’era arrivato la prima volta poco più che ventenne restandone incantato. I suoi romanzi noir hanno come protagonista il commissario Proteo Laurenti, un cinquantenne flemmatico e testardo, salernitano d’origine e triestino d’adozione come il suo autore, ormai giunto alla sua undicesima indagine. A differenza di tanti poliziotti e investigatori che popolano il mondo dei noir e dei gialli, Laurenti non ha tragedie alle spalle. Anzi, è felicemente sposato e le sue preoccupazioni riguardo i figli sono relativamente poco romanzesche – un pugno di amicizie discutibili, una figlia che aspira al titolo di Miss Italia, un matrimonio inaspettato. È una normalità accanto a cui le trame criminali che si svolgono dietro le austere facciate di banche, assicurazioni e spedizionari risultano ancora più cupe e violente. Fra i suoi libri, tutti editi in Italia da e/o, I morti del Carso (2003) che affronta il nodo delle foibe e da cui in Germania è stato tratto un film per la tv, Morte in lista d’attesa (2004) in cui un delitto ha luogo durante il vertice tra il cancelliere tedesco e Berlusconi, Le lunghe ombre della morte (2006) che trae spunto dal caso del collezionista triestino Diego De Henriquez, morto in circostanze oscure nel rogo del suo magazzino e Danza macabra (2008) in cui l’indagine s’inoltra nel business fiorente della spazzatura.
I miei bisnonni abitavano già a Servola. E forse anche i loro bisnonni. Il rione sulla collina è sempre stato il forno di Trieste. Generazioni di donne hanno rifornito gli abitanti della città trasportando sulla testa pesanti ceste di pane fresco. Borghesi, imprenditori, banchieri, ammiragli. Un tempo nemmeno le famiglie ricche come quelle dei commercianti o degli armatori avevano il forno in casa. Ogni notte nei vicoli di Servola si sentiva il profumo fragrante del pane. Perfino dopo che i fascisti ampliarono la ferriera, all’alba il profumo del pane copriva quello della fuliggine che usciva dalle ciminiere colorando di rosso scuro il cielo. La situazione peggiorò con la caduta di Mussolini, quando l’8 settembre 1943 l’Italia annunciò l’armistizio con gli Alleati e passò dalla loro parte. I tedeschi occuparono immediatamente la città e le zone limitrofe. Su di noi gravavano ancora le imposizioni con cui i fascisti volevano renderci diversi da ciò che eravamo. Esseri umani. Molti erano stati mandati al confino in altre regioni. In Abruzzo, in Sicilia oppure in Piemonte, ad Alessandria. Al nostro posto sarebbero arrivati degli italiani del sud.
La fortuna mia e della mia famiglia è stata che, pur essendo di origine slovena, tra di noi parlavamo perlopiù in italiano. Tranne mia nonna. I nazisti presero in un attimo il comando di Trieste, dovevano averlo programmato da parecchio. Poterono avvalersi delle strutture dei fascisti. Gli uomini si ritrovarono di fronte a una scelta: arruolarsi nella Wehrmacht o essere deportati. Perciò finivano nella Organisation Todt per costruire le fortificazioni e le vie di comunicazione necessarie o venivano spediti ai lavori forzati nel Reich. Nella fortuna, mio padre ebbe sfortuna. Era operaio alla ferriera, una delle categorie più richieste. Ghisa e acciaio erano essenziali per lo sforzo bellico, come si diceva allora. Sarebbe stato al sicuro, ma Giovanni non sopportava i fascisti e ancora meno i nazisti. Gli operai erano quasi tutti comunisti.
Sai, Nora, la Risiera di San Sabba ai piedi della collina era un vecchio stabilimento in mattoni rossi con molti piani. All’inizio i tedeschi lo trasformarono in un campo di prigionia provvisorio per gli ebrei di Trieste e dell’intera regione, poi stipati sui carri bestiame e mandati a morire ad Auschwitz. Quando i lager di Bełżec, Sobibór e Treblinka non servirono più perché tutti i prigionieri erano stati sterminati, i nazisti trasferirono i loro uomini a Trieste. Oltre ottanta specialisti tedeschi e non so più quanti militari ucraini. Un branco di macellai assassini. In un batter d’occhio trasformarono l’essiccatoio in un forno crematorio e usarono la vecchia ciminiera della fabbrica. A seconda di come tirava il vento il fumo saliva fino a noi in paese. Un fumo scuro, qualche volta rosa. E quell’odore. Tremendo.
Il progetto EHRI European Holocaust Research Infrastructure ha intrapreso un percorso che condurrà nei prossimi anni alla creazione di un’infrastruttura di ricerca permanente, finanziata dai governi che aderiscono all’iniziativa. Stiamo lavorando per fare la differenza: non più un progetto a scadenza, ma un impegno programmatico governativo che individua nello sviluppo di questa diffusa rete di archivi uno strumento essenziale anche dal punto di vista scientifico.
Dunque andremo a votare il 25 settembre, vigilia di Rosh Hashanà. Chissà se il nuovo anno 5783 ci regalerà un nuovo parlamento buono e dolce come il miele oppure un parlamento adatto a farci sentire in modo ancora più intenso l’atmosfera dei giorni penitenziali?
“Fragranti pini, pini odorosi, / il loro profumo è sano e possente / e chi torna dalla loro solitudine / qui non è più sofferente. Perché in questa landa pietrosa / tutto è bello e reale, / essere, vivere, lottare / e sentirsi sano e gioviale. Pini, amici fragranti, forti, / del Carso sperduto compagni silenti, / dalla mia solitudine io vi saluto, / colmi di gravi, malinconici incanti!”.
Questa poesia del poeta carsolino Srečko Kosovel – tradotto qui dallo sloveno da Michele Obit – si chiama “Pesem s Krasa” (Canto carsico)
“Il mio nome è Ersilia Rabello, nata a Livorno il 15 agosto 1936: i miei genitori erano Hassan Renata, nata il 3/9/1903, e Rabello Renzo nato il 14/7/1890. All’epoca delle persecuzioni nazifasciste vivevo in quello che oggi è il Museo Ebraico della Yeshivà Marini, in via Micali 21 a Livorno, anche sede dell’omonima sinagoga costruita intorno al 1863...".