Quel fumo acre dalla Risiera
I miei bisnonni abitavano già a Servola. E forse anche i loro bisnonni. Il rione sulla collina è sempre stato il forno di Trieste. Generazioni di donne hanno rifornito gli abitanti della città trasportando sulla testa pesanti ceste di pane fresco. Borghesi, imprenditori, banchieri, ammiragli. Un tempo nemmeno le famiglie ricche come quelle dei commercianti o degli armatori avevano il forno in casa. Ogni notte nei vicoli di Servola si sentiva il profumo fragrante del pane. Perfino dopo che i fascisti ampliarono la ferriera, all’alba il profumo del pane copriva quello della fuliggine che usciva dalle ciminiere colorando di rosso scuro il cielo. La situazione peggiorò con la caduta di Mussolini, quando l’8 settembre 1943 l’Italia annunciò l’armistizio con gli Alleati e passò dalla loro parte. I tedeschi occuparono immediatamente la città e le zone limitrofe. Su di noi gravavano ancora le imposizioni con cui i fascisti volevano renderci diversi da ciò che eravamo. Esseri umani. Molti erano stati mandati al confino in altre regioni. In Abruzzo, in Sicilia oppure in Piemonte, ad Alessandria. Al nostro posto sarebbero arrivati degli italiani del sud.
La fortuna mia e della mia famiglia è stata che, pur essendo di origine slovena, tra di noi parlavamo perlopiù in italiano. Tranne mia nonna. I nazisti presero in un attimo il comando di Trieste, dovevano averlo programmato da parecchio. Poterono avvalersi delle strutture dei fascisti. Gli uomini si ritrovarono di fronte a una scelta: arruolarsi nella Wehrmacht o essere deportati. Perciò finivano nella Organisation Todt per costruire le fortificazioni e le vie di comunicazione necessarie o venivano spediti ai lavori forzati nel Reich. Nella fortuna, mio padre ebbe sfortuna. Era operaio alla ferriera, una delle categorie più richieste. Ghisa e acciaio erano essenziali per lo sforzo bellico, come si diceva allora. Sarebbe stato al sicuro, ma Giovanni non sopportava i fascisti e ancora meno i nazisti. Gli operai erano quasi tutti comunisti.
Sai, Nora, la Risiera di San Sabba ai piedi della collina era un vecchio stabilimento in mattoni rossi con molti piani. All’inizio i tedeschi lo trasformarono in un campo di prigionia provvisorio per gli ebrei di Trieste e dell’intera regione, poi stipati sui carri bestiame e mandati a morire ad Auschwitz. Quando i lager di Bełżec, Sobibór e Treblinka non servirono più perché tutti i prigionieri erano stati sterminati, i nazisti trasferirono i loro uomini a Trieste. Oltre ottanta specialisti tedeschi e non so più quanti militari ucraini. Un branco di macellai assassini. In un batter d’occhio trasformarono l’essiccatoio in un forno crematorio e usarono la vecchia ciminiera della fabbrica. A seconda di come tirava il vento il fumo saliva fino a noi in paese. Un fumo scuro, qualche volta rosa. E quell’odore. Tremendo.
Poco prima dagli enormi altoparlanti risuonava sempre musica a tutto volume. I cani da guardia venivano aizzati ad abbaiare. I motori rombavano rabbiosi. Quel fracasso infernale doveva sovrastare le urla delle vittime. In seguito abbiamo saputo che si trattava di autobus appositamente modificati a Vienna per essere usati come camere a gas, nei quali venivano uccisi quelli che non erano stati fucilati o picchiati a morte. Non solo ebrei, la maggior parte di loro non c’era già più. Partigiani, soprattutto. E chiunque non andasse a genio ai nazisti o fosse stato denunciato.
Quando domandavo cosa stesse succedendo capivo dalle facce afflitte che doveva essere qualcosa di raccapricciante. Tutti avevamo il terrore di essere i prossimi. Ognuno di noi conosceva qualcuno che all’improvviso non era più tornato a casa. I familiari che si rivolgevano alle autorità per avere notizie non venivano ricevuti e dovevano ringraziare di non essere arrestati anche loro. Solo dai racconti dei testimoni scoprimmo che fine aveva fatto la nostra gente.
Mio padre non fu rinchiuso nella Risiera, ma in carcere. Al Coroneo, dietro al tribunale. Lo avevano accusato di essere uno sporco terrorista comunista. Mia madre scendeva ogni giorno in città e chiedeva agli ufficiali di liberarlo. Non lo rivide mai più. Gli lasciava sempre anche qualcosa da mangiare, non abbiamo mai saputo se lo abbia ricevuto. Poi sentimmo dei prigionieri portati a Opicina. I nazisti fucilarono mio padre insieme ad altri settantuno ostaggi. Senza processo. Senza prove. Assassinati a sangue freddo. Aveva quarantaquattro anni. E lo abbiamo saputo solo perché qualcuno lo aveva visto per caso. Il giorno seguente il fumo acre si alzò per la prima volta dalla Risiera. E non smise più. Da tanto ormai Servola non profumava di pane. La farina, come tutti gli altri generi alimentari, era merce rara. Avevano requisito tutto. Ora si sentiva solo l’odore della morte, Nora. L’odore della morte. Tre settimane dopo ci fu una seconda strage, in via Ghega. Chi abitava nelle vicinanze fu costretto a guardare i cadaveri dei cinquantuno prigionieri impiccati a palazzo Rittmeyer. Alcuni addirittura alle finestre della facciata. Anche loro erano stati prelevati dal Coroneo. Uomini, donne, adolescenti. Tutti dovevano vedere cosa succedeva a chi si opponeva ai nazisti. E andò avanti così. La sciagura non aveva fine. Appena due mesi dopo che mio padre era stato ucciso la nostra vecchia casa fu colpita da una bomba degli Alleati, destinata alla ferriera o al porto. Io ero a scuola, e mia madre era fuori per delle commissioni. La nonna morì sotto le macerie. Non usciva più dal cortile da anni, da quando per strada era stata picchiata dai fascisti perché non parlava bene l’italiano. Non sapeva nemmeno che esisteva un rifugio. Casa nostra era così bella. Dietro il muro a secco c’era l’orto coltivato dalla mamma dove crescevano anche le viti. Nel giro di un attimo ci ritrovammo senza più un tetto sopra la testa, solo poche delle nostre cose si erano salvate. Ci assegnarono una stanza a San Giacomo. Era un popoloso quartiere operaio, completamente diverso da dove vivevamo prima. Alti palazzoni pieni di gente in mezzo alla città e intorno neanche un albero. Sia la cucina che il bagno erano in comune. Mancava tutto. Tre piani sotto di noi viveva la famiglia Rota. Mario con i genitori e la moglie Federica. Erano giovani, sposati da poco. Ma ti hanno avuta solo vent’anni dopo, Nora. Hanno aiutato me e mia madre per quanto era possibile. Anche quando Mario fu arrestato durante un rastrellamento. Lo internarono alla Risiera, dove venne picchiato e torturato. E minacciato di essere ucciso. Avrebbe salvato la pelle solo se faceva i nomi dei compagni, gli dicevano. Li chiamavano “gli altri terroristi”. La donna che faceva da interprete era un mostro, si comportava peggio dei tedeschi e degli ucraini. E sì che era triestina. Una di noi. Eppure era la più spietata di tutti. Si diceva si fosse arricchita con gli averi degli ebrei. Mario però non parlò. Allora, dato che era giovane e forte, i nazisti lo costrinsero a lavorare per loro. Doveva pulire il forno crematorio. Portare via i resti dentro i sacchi per il cemento. Ceneri, frammenti di ossa, denti. Mentre li trasportava fino al mare per caricarli su una piccola barca era sorvegliato a vista dalle guardie con i cani e i fucili spianati. Sapeva che bastava un niente perché il giorno dopo qualcun altro trasportasse lui. La barca buttava i sacchi in mare, non lontano dalla costa. Alcuni furono trascinati di nuovo a riva e recuperati dagli Alleati alla fine della guerra. Si dice che in seguito le vittime venissero invece sepolte nella Risiera stessa, come monito.
[…] La vecchia fabbrica in mattoni rossi non era enorme, ma i nazisti riuscirono a stiparvi fino a ventimila prigionieri. E quando venivano torturati tutti sentivano le urla, sempre che non fossero costretti ad assistere alle sevizie. Uccisi a colpi di mazza o di martello e a volte gettati nel forno ancora vivi. I tedeschi smantellarono il campo gli ultimi giorni di aprile del 1945. Il 29 Mario e tutti gli altri furono rilasciati. Non ci crederai, ma il comandante volle stringere la mano a ognuno di loro. Forse quel maledetto assassino sperava che così avrebbe lasciato un ricordo migliore di sé. Mario, e non solo lui, se avesse potuto lo avrebbe ucciso. Ma erano circondati da soldati armati. Prima di essere liberati dovettero trascinare tutte le carte al forno crematorio e bruciare i documenti. I nazisti distrussero ogni prova. Sapevano bene cosa avevano fatto, e non lasciarono niente che potesse testimoniarlo. Per questo ancora oggi non si conosce il numero esatto delle vittime. […]
Veit Heinichen, Lontani Parenti, edizioni e/o
(22 luglio 2022)