Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui  20 Ottobre 2022 - 25 Tishrì 5783

 FESTA DEL CINEMA DI ROMA - IL GIORNO DI HOMETOWN

Polanski e Horowitz, ritorno a Cracovia
"Insieme a casa, per non dimenticare"

Un regista Premio Oscar: Roman Polanski. E un grande fotografo: Ryszard Horowitz. Cresciuti entrambi a Cracovia e segnati entrambi, negli anni dell’infanzia, dalla persecuzione nazista. Nascosto da una famiglia cattolica il primo, sopravvissuto ad Auschwitz il secondo. Uno dei più giovani ebrei polacchi a uscirne vivo grazie al “Giusto tra le Nazioni” Oskar Schindler che lo inserì, ad appena cinque anni, nella sua lista.
Un passato che tornano ad attraversare, insieme a luoghi e spazi, in “Hometown”. Prodotto da Krk Film con Èliseo entertainment di Luca Barbareschi, il documentario di Mateusz Kudla & Anna Kokoszka – Romer sarà oggi protagonista alla Festa del Cinema di Roma. L’omaggio a due artisti straordinari che le circostanze di vita e carriera hanno portato lontano dalla Polonia. Come questo lavoro attesta il segno delle radici resta però inestinguibile col suo carico di luci e ombre, rimozione e continuità. “Roman e io non abbiamo mai parlato di questi argomenti. Finalmente abbiamo l’opportunità di rinfrescarci la memoria e di renderci conto che non abbiamo dimenticato, che tutto si è fissato nelle nostre menti” afferma Horowitz in uno dei passaggi introduttivi del loro dialogo, interamente in polacco, mentre passeggiano per le strade del centro storico di Cracovia. Molte le tappe. E molte le sorprese. “È bello qui”. “Sì, è carino”. “Ma è un concetto completamente diverso”. “Sembra Disneyland”. “Hai ragione. Ti saresti mai aspettato di vedere Cracovia così?”.
Davanti alla porta dell’appartamento che fu di sua nonna Polanski indugia. C’è la curiosità di varcarne la soglia, di vedere cosa è rimasto e cosa no. Ma alla fine sceglie di rinunciare. “I ricordi sono terribili, lo devo ammettere. Non li voglio cancellare, voglio che rimangano nella mia memoria così come sono. Non li voglio deformare”, confida a Horowitz. È il ricordo che schiude la memoria della guerra, della persecuzione, del ghetto. È il periodo cui risale anche la loro conoscenza e amicizia, rimasta salda negli anni. C’è una forte complicità d’altronde in questo loro camminare a ritroso. Gli sguardi, le parole, i dialoghi. L’uso talvolta dell’ironia come arma, come scudo per proteggersi dal flusso di situazioni e persone che tornano alla mente.
Ne è valsa la pena. È stato importante farlo, convengono Polanski e Horowitz. 

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 LA CONFERENZA DI DINA PORAT A ROMA 

Memoria, una prospettiva globale

Cambiamenti, tendenze e processi. Una prospettiva globale quella tracciata da Dina Porat, già direttrice dell’Ufficio ricerca dello Yad Vashem e fondatrice del Kantor Center for the Study of Contemporary European Jewry, a Roma per parlare di “discorso scientifico e divulgativo” della Shoah al tempo presente e nelle sue molteplici declinazioni. Non è per tutti la stessa Memoria. Diverso è infatti il modo di relazionarsi con quel passato di un cittadino europeo rispetto a un americano, di un cittadino dell’Europa occidentale rispetto a uno dell’Europa orientale, di un arabo rispetto a un israeliano. E anche nella stessa Israele il quadro si presenta articolato e dinamico. Di questo e di molto altro ha disquisito la professoressa Porat, ospite dell’Ambasciata d’Israele in Italia e della Fondazione Museo della Shoah (nella cui sede si è svolto l’evento).
“Abbiamo il dovere di trasmettere la Shoah così come è accaduta”, il messaggio che ha caratterizzato l’esposizione di Porat; più importante ancora del mezzo – libri, conferenze, social network – è cosa si racconta. “È il contenuto che fa la differenza: l’importante è che il risultato finale rispecchi i fatti”. La sua lezione si è aperta con un approfondimento sulla realtà d’Israele, partendo dalla definizione di “sopravvissuto”. Una categoria oggi dal significato più esteso rispetto a un tempo “includendo, a seguito delle pressioni di alcuni gruppi, ebrei originari dell’Unione Sovietica e del Nord Africa”. L’idea di Porat è che due giornate di memoria, quella internazionale del 27 gennaio e quella israeliana per Yom haShoah, “non siano un bene”. Anche alla luce di varie questioni aperte. Come l’approccio dei giovani, “spesso protagonisti di cerimonie alternative rispetto a quelle istituzionali”. Nel mosaico Israele la Memoria è avvertita in tanti modi. E non è solo una questione di prima, seconda e terza generazione. "Per gran parte degli haredim, ad esempio, la Shoah è una parte della storia ebraica senza una sua specificità. E quindi in genere, quando suona la sirena di Yom haShoah, non interrompono le loro attività”. C’è poi tra tante anche la prospettiva araba. “L’opinione più diffusa – ha detto Porat – è il concetto che si potrebbe riassumere con ‘Siamo noi le vittime, non loro’. Anche se qualcosa, per la verità, sta cambiando”. E non nella sola Israele. “Gli Accordi di Abramo stanno avviando una trasformazione di cui si era comunque colta qualche traccia anche in anni precedenti. Il numero di delegazioni arabe recatesi quest’anno ad Auschwitz è stato notevole. Più si stringono rapporti, più si realizza questa trasformazione”. Al riguardo Porat si è detta “sbalordita” dal fatto che il Bahrein abbia adottato la definizione di antisemitismo dell’Ihra. 

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 UNA TARGA E UN CONVEGNO

Siracusa ebraica, riscoprendo antiche tracce

A Siracusa esiste un mikveh – bagno rituale ebraico – riconosciuto come tale dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e ora parte di un itinerario culturale europeo. Ha una storia antica ed è stato scoperto oltre trent’anni fa dalla marchesa Amalia Danieli Di Bagni mentre ristrutturava il proprio residence in via Allagona 52. Qui, una ventina di metri sotto terra, trova posto questa secolare quanto nascosta testimonianza della presenza ebraica in città. Un sito che secondo gli esperti è tra i bagni rituali più antichi d’Europa. “È anche l’unico riconosciuto secondo i dati in possesso del rabbinato italiano” ribadisce a Pagine Ebraiche il vicepresidente UCEI Giulio Disegni, referente per il Meridione. Assieme a una delegazione, Disegni ha incontrato in queste ore l’arcivescovo Francesco Lomanto per mettere un punto su una polemica emersa localmente. “C’è chi sostiene che ci sia un mikveh sotto la chiesa di San Filippo Apostolo, ma così non è. Abbiamo spiegato all’arcivescovo, con l’aiuto del rabbino capo di Napoli Cesare Moscati, competente per territorio, che quel luogo non ha le caratteristiche per essere un sito ebraico. Si tratta di un pozzo realizzato sotto una chiesa, come emerge dalla documentazione storica e archivistica”. Ad evitare ulteriori confusioni da oggi il mikveh di via Allagona 52 può contare sulla targa apposta in mattinata dall’AEPJ, l’Associazione Europea per la valorizzazione e la conservazione del patrimonio ebraico. Per spiegare al grande pubblico quale sia il patrimonio ebraico in città – e quale no – è stato organizzato anche un convegno intitolato “I tesori della Siracusa ebraica” in corso a Palazzo Vermexio. Ad intervenire il rabbino Moscati, l'archeologo israeliano Dan Bahat, l'architetto David Cassuto ed Amalia Danieli Di Bagni. “Vogliamo spiegare con chiarezza la storia e i luoghi della Siracusa ebraica” sottolinea a Pagine Ebraiche Nicolò Bucaria, autore di diversi scritti scientifici sul legame tra ebraismo e Sicilia e moderatore del convegno. 

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