Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui   16 Novembre 2022 - 22 Cheshvan 5783

LA SCOPERTA RESA NOTA DAGLI UFFIZI

Un pittore ebreo fiorentino nella corte del Seicento
"Un caso unico nella storia dell'arte”

C’era un pittore ebreo alla corte dei Medici nel Seicento: Jona Ostiglio.
“Un caso unico nella storia dell’arte” rendono noto le Gallerie degli Uffizi nel comunicare la scoperta compiuta dall’ebraista Piergabriele Mancuso e dalla storica dell’arte e funzionaria del museo Maria Sframeli. Artista abile e versatile, Ostiglio fu “capace di acquistare importanti commissioni dalla dinastia regnante e da potenti famiglie fiorentine come i Mannelli, stimato al punto da riuscire ad entrare a far parte, nel 1680, della prestigiosissima Accademia delle Arti e del Disegno”. Restandone poi di fatto “l’unico membro ebreo fino allo scorso secolo”.
A evidenziare l’importanza della scoperta il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “Malgrado i limiti imposti dalla Chiesa e nonostante l’Inquisizione, nel Seicento i sovrani fiorentini riuscirono a salvare la vita e le ricerche di Galileo. Ora apprendiamo che a un ebreo era permesso esercitare la pittura, era concesso l’onore di far parte dell’Accademia patrocinata dagli stessi granduchi e di ricevere incarichi dalle famiglie nobili più in vista. Certamente si tratta di un’acquisizione storica importantissima”.
La scoperta è maturata nell’ambito di un confronto tra Mancuso e Sframeli sulle vicende della Comunità ebraica locale. “È stata lei – racconta Mancuso – a indirizzarmi verso una serie di opere e documenti sconosciuti che attestano l’attività nella Firenze granducale del pittore ebreo Jona Ostiglio, al quale si fa brevemente riferimento per la prima volta in un articolo del 1907 a firma del rabbino, biblista e orientalista Umberto Cassuto”.

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DOPO L'ATTENTATO TERRORISTICO AD ARIEL

Tamir, Michael e Motti
nuove vittime dell'odio

Con l'operazione Breaking the Wave (Rompere le onde) in Cisgiordania, esercito e intelligence israeliani erano riusciti a ridurre il livello degli attacchi terroristici negli ultimi mesi. Dopo l'ondata di violenza tra marzo e aprile, la pressione portata dalle forze di sicurezza sulle cellule del terrorismo palestinese aveva raggiunto il risultato di calmare per quanto possibile le acque. Salvo alcuni disordini, spiegava negli scorsi giorni un alto funzionario al sito ynet, la situazione in Cisgiordania appariva sempre più sotto controllo. Fino all'attacco ad Ariel di ieri, che ha lasciato sul terreno tre vittime - Tamir Avihai, 50 anni, Michael Ladygin, 36 anni, e Motti Ashkenazi, 59 anni - e tre feriti. A compierlo, un diciottenne palestinese senza precedenti e in possesso di un permesso di lavoro per accedere all'area industriale di Ariel. Qui ha iniziato la sua scia di violenza, che si è protratta per venticinque minuti prima di venire eliminato dall'intervento di alcuni soldati e civili armati. Troppo il tempo in cui ha potuto agire liberamente, scrivono gli analisti. Ma ora la preoccupazione è soprattutto per eventuali emulazioni. “Si può presumere che molti loderanno sui social network (principalmente Tik tok) e glorificheranno questa follia omicida come atto di supremo eroismo. - spiega l'analista militare di Yedioth Ahronoth  - Di qui il grande pericolo dell'attentato, che molto probabilmente può servire da ispirazione per ulteriori attacchi omicidi da parte di giovani palestinesi che cercheranno di conquistare la stessa 'gloria di martire'. È così che potrebbe essere erosa la deterrenza raggiunta dall'esercito, dallo Shin Bet, dalla polizia di frontiera - e anche dai meccanismi di sicurezza palestinesi - in molti mesi di combattimenti e contromisure sotto il nome in codice di 'Breaking the Wave'".

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L'AMBASCIATORE BAR HA PRESENTATO LE CREDENZIALI AL PRESIDENTE MATTARELLA

"Italia-Israele, legame forte"

Il nuovo ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar ha presentato le Lettere Credenziali al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Diplomatico di lungo corso con molti incarichi di rilievo svolti al servizio di Gerusalemme – tra i più recenti e delicati la preparazione della visita del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu – si trova in Italia da inizio settembre ed è il successore di Dror Eydar.
“Alla fase protocollare – riferisce l’ambasciata – è seguito un breve colloquio, nel corso del quale l’ambasciatore Bar ha evidenziato le eccellenti relazioni tra Italia e Israele, il forte legame che unisce i due Stati e la necessità di lavorare insieme per rafforzare ulteriormente la cooperazione bilaterale nei settori dell’acqua, energia e innovazione”.
L’ambasciatore anche ha ringraziato il Presidente Mattarella “per le parole sull’attacco terroristico al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché”.

LA DUE GIORNI DI CONVEGNO ALL'ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO

“Nove ottobre 1982, una ferita
per tutto l’ebraismo italiano”

Si è da poco conclusa una conferenza in due giornate sull’attentato al Tempio Maggiore di Roma all’Archivio Centrale dello Stato. Organizzata dalla Comunità ebraica romana, ha visto intervenire tra gli altri Gadiel Gaj Taché. A quarant’anni dall’attacco palestinese in cui perse la vita il fratellino Stefano di due anni appena e in cui lui stesso fu ferito, con l’occasione del convegno è stato condiviso non soltanto il ricordo dei fatti, ma sono state anche affrontate questioni come la loro elaborazione, i cambiamenti interni alla Comunità, le domande che restano aperte. 
Nel portare il saluto della Comunità ebraica il vicepresidente Ruben Della Rocca ha ringraziato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per la sua partecipazione alla prima giornata di lavori, ma anche per gli arresti delle scorse ore che hanno smantellato una cellula neonazista con radici in Campania. Una iniziativa nel segno “della prevenzione: ciò che quel giorno è mancato; c’è stata una grande falla, anche a livello politico”. Gli ebrei, ha proseguito Della Rocca, “sono stati abbandonati, se non addirittura venduti: per chi, per cosa e per come a 40 anni di distanza non lo sappiamo ancora”.
“L’attentato ha scosso l’intero ebraismo italiano. Le istituzioni fino a quel momento erano assenti, anche a livello di sicurezza. Dopo quel fatto i rapporti sono migliorati moltissimo e molto intensa è oggi la collaborazione su questo fronte” ha tra gli altri rimarcato Milo Hasbani, vicepresidente UCEI, nel panel inaugurale della seconda giornata su “aspetti del clima politico in Italia e il mondo arabo”. 

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TRA LE PROTAGONISTE DEL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Mirjam Viterbi Ben Horin (1933-2022)

Ha concluso la sua vita terrena a Gerusalemme Mirjam Viterbi Ben Horin, grande protagonista del dialogo ebraico-cristiano e moglie del diplomatico israeliano Nathan Ben Horin (1921-2017) che fu tra gli artefici della svolta nei rapporti tra Stato ebraico e Santa Sede. Nata a Padova nel 1933, fu impegnata sin dai primi Colloqui di Camaldoli e in altre iniziative dedicate all’incontro e all’approfondimento. Uno slancio innescato anche dalla propria vicenda familiare. All’epoca delle persecuzioni nazifasciste trovò infatti rifugio ad Assisi, grazie all’aiuto offerto dal vescovo Nicolini e da altri esponenti del clero che si prodigarono per la sua famiglia e per altre centinaia di ebrei braccati. “Ci fornirono anche di carte d’identità false, dove risultavamo originari di Lecce. All’inizio, ancora con i documenti veri, si alloggiò per un mese in un piccolo albergo, l’Albergo del Sole, e successivamente in una casa privata; qui avevamo due camere, di cui una era la stanza da pranzo, il luogo dove praticamente si viveva gran parte della giornata” raccontava a proposito di quei giorni, da cui sarebbe scaturita anche una piccola opera di fantasia: la storia dei gemelli Clara e Marino abitanti del castelletto nato da un sogno e, allo sfaldarsi dello stesso, caduto sulla terra. Il rifugio, raccontavamo su Pagine Ebraiche in occasione della sua pubblicazione, avvenuta nel 2020, “di una bambina ebrea italiana perseguitata dal nazifascismo che immagina una storia, la scrive e la disegna per isolarsi dalle brutture del mondo”. 

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LA CERIMONIA AL CIMITERO ALLEATO NEL RAVENNATE

Gli eroi della Brigata Ebraica,
a Piangipane per non dimenticare

“Ricordare oggi la Brigata Ebraica in un’Italia che spesso dimentica, o tende a dimenticare, non è solo un impegno, o una ricorrenza, ma è un dovere che abbiamo come ebrei italiani e prima ancora come cittadini di questo Paese”. Così il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni nel suo intervento, letto nelle scorse ore dal Consigliere UCEI David Menasci, in occasione della cerimonia al cimitero alleato di Piangipane (Ravenna) per celebrare la memoria e l'eroismo della Brigata Ebraica. Un'iniziativa promossa dalla Comunità ebraica di Ferrara, rappresentata dal rabbino capo rav Luciano Meir Caro e dal presidente Fortunato Arbib, che assieme alle istituzioni civili e militari hanno ricordato il ruolo dei volontari ebrei arrivati dalla Palestina mandataria per liberare l'Italia dal nazifascismo.

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La rubrica “Opinioni a confronto” raccoglie interventi di singoli autori ed è pubblicata a cura della redazione, sulla base delle linee guida indicate dall’editore e nell’ambito delle competenze della direzione giornalistica e della direzione editoriale. 
È compito dell'UCEI incoraggiare la conoscenza delle realtà ebraiche e favorire un ampio ed equilibrato confronto sui diversi temi di interesse per l’ebraismo italiano: i commenti che appaiono in questa rubrica non possono in alcun modo essere intesi come una presa di posizione ufficiale dell’ebraismo italiano o dei suoi organi di rappresentanza, ma solo come la autonoma espressione del pensiero di chi li firma.

Nel negozio della storia   

Se il fascino per parole e immagini è ancora capace di far risuonare echi, come sosteneva il grande storico tedesco-americano George Mosse, ciò non significa che il passato torni, nel 2022, nuovamente di attualità, ma che quelle suggestioni sono ancora capaci di formare opinione pubblica e convinzione politica. E dunque la risposta non può che essere tornare a ripercorre le storie di chi già una volta ha messo in atto azioni di creatività culturale, per replicare al presente attraverso un progetto di futuro che parli "al" e "del" tempo presente. Nel negozio della storia non ci sono le ricette di sicuro successo, ma ci sono le pratiche che raccontano la volontà di donne e uomini a non subire il loro presente per dare al futuro una possibilità diversa.
Quelle storie sono una grande risorsa per pensare, per creare, non per "ripetere". (29/10/2022)

David Bidussa

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Oltremare - Vitamine   

Presto l'arancio sarà di nuovo tutto decorato, e così rimarrà per diverse settimane, con ciascun arancio delicatamente chiuso in un sacchetto tenuto fermo con un fiocchetto al suo ramo. Niente angioletti nel punto più alto, intendiamoci, e decorazione con tutta evidenza per scopi pratici, verde su verde e quindi non troppo festiva, ma che comunque nei fatti infiocchetta tutto l'albero dalla base fino in cima. Albero che non ha neanche la più vaghissima somiglianza con un pino, con tutti i rametti fitti fitti che usano ad altre latitudini: questo invece è fra tutti gli alberi da frutto del giardino forse il più anarchico, quanto a crescita dei rami, sparati verso l'alto e poi solo un po' arcuati dal peso delle arance vicino alla maturazione. Le arance, appunto, o meglio la loro incolumità davanti alle mosche golose di frutta, sono il motivo dell'infiocchettamento progressivo che avviene ogni anno fra ottobre e novembre, altrimenti possiamo dire addio alle spremute fatte staccando un frutto dal ramo e spremendo direttamente, pochi secondi da albero a bicchiere.
C'è un passaggio nel libro lI mio nome è Asher Lev di Haim Potok in cui Asher descrive come suo padre preparava ogni mattina il succo d'arancia, e quando una mattina Asher bambino gli fa troppe domande risponde di bere, che le vitamine volano via se non si beve appena spremuto. Di tutti i libri di Chaim Potok, di tutti i suoi personaggi così alieni ma così vicini a noi, ebrei italiani, questo passaggio letto credo ben prima del mio bat mizva, mi è restato in mente in modo cristallino. E non perché rappresentasse un modo tipico degli adulti di svicolarsi da una domanda specifica o dalla generale curiosità dei bambini (lo è di certo), ma perché in quella breve frase il papà di Asher, con tutta la sua genealogia di rabbini e la barba e i vestiti e il comportamento da ebreo religioso, esprimeva non un insegnamento di Torah, ma una legge di natura cui tutti, anche noi ragazzini cresciuti in famiglie e scuole ebraiche non particolarmente religiose, sottostiamo. La vitamina C vola via per Asher, come per me. 
Quando arriva l'inverno e le arance sono mature e ne stacchiamo due o tre ogni mattina per farci colazione, il mio pensiero torna sempre a quel passaggio di Asher Lev, che mi ricorda che comportarsi in modo sano e sensato è una regola per la quale non si deve nemmeno scomodare un Gaon di qualche perduto shtetl o un Chacham con albero genealogico che lo collega direttamente a David haMelech. Poi di certo, a cercarla, ci sarà una discussione nel Talmud o altrove su quando e come bere un succo d'arancia. Ma il buon senso, a volte, anche per noi ebrei, è universale come le virtù delle vitamine. (7/11/2022)

Daniela Fubini

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Le parole di Nembròt   

A proposito dell’approccio di Dante nei confronti della lingua ebraica, ci siamo soffermati sulle criptiche parole inserite nel XXXI Canto dell’Inferno, nella profonda e tenebrosa fossa che separa le dieci bolge dei traditori di chi non si fida dalle quattro zone dei traditori di chi si fida: Raphèl maì amècche zabì almi (67). A pronunciarle è Nembròt, il mostruoso gigante che avrebbe ideato la costruzione della torre di Babele, simbolo di superbia punito da Dio con la confusione delle lingue. E lo stesso Virgilio, come abbiamo ricordato, spiega che il senso della frase non può essere capito, dal momento che Nembròt continua, anche nell’Inferno, a scontare la punizione del suo peccato: egli non può comprendere nessuna lingua con cui ci si rivolge a lui, e il suo linguaggio non può essere capito da nessuno.
Se, però, quelle parole non possono essere capite, ciò non vuol dire che non significhino nulla, ma solo che il loro senso non può essere compreso. Dante, quasi sette secoli prima che nascesse la semiotica - la scienza dei segni - già dà un esempio specifico, di alta suggestione poetica, della scissione tra significante e significato. E non a caso il grande Umberto Eco, uno dei massimi maestri del mondo di semiotica, ha fatto reiteratamente riferimento alla Commedia. Il segno, spiegò, è qualsiasi cosa che rimanda a un’altra cosa. È un segno l’impronta di un animale sulla terra, così come il poema sacro è un insieme di segni.
L’esigenza che ogni parola abbia un senso preciso (linguistico, ma anche morale e religioso), com’è noto, è costante e dominante nel poema, dove niente è lasciato al caso. Ogni significante rinvia a un preciso significato. E, quando non si capisce cosa Dante voglia dire, si tratta di una precisa scelta del poeta, che lancia una sorta di sfida al lettore (un concetto che fu sottolineato da mio padre, Bruno Lucrezi).
Nel verso in questione, il senso non si capisce, ed è chiaramente spiegato il motivo per cui ciò accade. Tuttavia, nonostante le chiare parole di Virgilio, che sembrano invitare a non perdere tempo a decifrare le parole di Nembròt, il cui messaggio deve restare sigillato, la critica dantesca, inevitabilmente, si è, da sempre, impegnata a sciogliere l’enigma, cercando di svelare l’arcano. E un notevole numero di esegeti (non tutti), in particolare, ha affrontato tale lavoro partendo dal presupposto che le parole del gigante siano parole ebraiche, dal momento che era l’ebraico (anzi, per la precisione, come abbiamo chiarito le scorse puntate: la lingua che poi sarebbe rimasta del solo popolo ebraico, e che perciò sarebbe poi stata chiamata così): l’idioma primigenio dell’umanità, da Adamo alla torre di Babele, e quindi anche l’idioma parlato da Nembròt.
Un ebraico che non si può capire, dunque, ma sul cui significato nascosto sono state comunque – nonostante l’ammonimento di Virgilio – avanzate diverse ipotesi. Esse sono state formulate, in genere, modificando in parte o integrando le parole del verso 67, sulla base della convinzione che Dante abbia volutamente “scompaginato la carte”, dando dei segni al lettore, ma dei segni confusi, ingannevoli, così come la Torre di Babele avrebbe generato confusione e inganno.
Ho studiato l’ebraico, ma - avendo intrapreso tale studio in età già alquanto avanzata -, purtroppo, con scarsi risultati, per cui non mi sento di giudicare la verosimiglianza dei diversi tentativi di interpretazione del verso misterioso che sono stati avanzati. Mi limito a ricordare alcune di queste proposte: “Lascia, o Dio! Perché annientare la mia potenza nel mio mondo?” (Servi); “Giganti! Che è questo? Gente lambisce, tocca, la dimora santa” (Chiavacci Leonardi); “Giganti, che? Gente che rasenta l’abitacolo segreto della bellezza” (Guerri). Queste ipotesi sono frutto, come è stato detto, di “ingegnosa erudizione”, ma anche “dei piaceri per così dire ‘sportivi’” che versi come questi offrono ai lettori (Mattalia).
Foscolo condannò tali inutili sforzi, attribuendo ai “dottissimi che professano di fare da traduttori” di Nembròt la sua stessa superbia, e sentenziando che essi meriterebbero, addirittura, la sua stessa pena. Io non condividerei tanta severità. È vero che “i dottissimi” disobbediscono, in un certo senso, a Virgilio, ma credo che lo stesso Dante lo desiderasse, e si compiacesse, probabilmente, di immaginare in quanti sarebbero caduti nella sua ‘trappola’, e come ne sarebbero usciti. E poi, la voce di Virgilio non è una voce divina, e a Dante, spesso, piace la disobbedienza. Tante volte disubbidì ai potenti del suo tempo, a partire dalla stessa Chiesa.
Io, però - soprattutto per la mia scarsa competenza linguistica -, ubbidisco, non mi azzardo a proporre improbabili ‘traduzioni’, e concludo la mia riflessione con due considerazioni.
La prima è che, sottoposte al vaglio di una disamina fonetica, quelle di Nembròt appaiono chiaramente parole ebraiche. O meglio, è ebraico il significante.
Quanto al significato, esso è chiuso in una sorta di labirinto, volutamente costruito da Dante, che ha inteso dare al lettore una dimostrazione pratica di cosa significhi la confusione delle lingue: cercare di capire, e non riuscirci.
Ma sullo ‘scherzo’ di Dante c’è ancora da dire, alla luce dei primi versi del VII canto del Paradiso. Ne parleremo la prossima puntata. (11/11/2022)

Francesco Lucrezi

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