La storia si affaccia per caso su internet. È una lettera intitolata “Convertire gli Indiani Inca in Perù” che porta la firma del rabbino Myron Zuber di Monsey, una comunità hasidica nello Stato di New York. È il 2003 e nel suo appartamento di Buenos Aires la giornalista Graciela Mochkofsky s’incuriosisce. Si tratta di un lungo appello per raccogliere fondi a sostegno di un certo Segundo Villanueva che nel nord Perù si è convertito all’ebraismo, ha riunito attorno a sé un centinaio di persone e con loro è emigrato in Israele. Il testo trabocca di esagerazioni e imprecisioni (tanto per cominciare, gli Indiani Inca non esistono) ma l’istinto dice a Mochkovfsky che vale la pena approfondire. Telefona al numero a fondo pagina e si trova a parlare con la vedova del rabbino. È una delle donne convertite da Villanueva e le dà suo recapito. Qualche settimana dopo la giornalista è in Israele, dove incontra la famiglia di Segundo. Quella che segue è un’inchiesta che per 15 anni la vede attraversare il mondo, studiare l’ebraico e l’ebraismo, inseguendo la saga di Villanueva. Il reportage ora è un libro, di cui negli Stati Uniti si è molto parlato, dal titolo The prophet of the Andes: an unlikely journey to the Promised Land (Il profeta delle Ande: un improbabile viaggio verso la Terra Promessa).
In un racconto appassionante e carico di umanità, quasi 300 pagine ricche di fonti e interviste, torna a noi la traiettoria straordinaria di un paesano, un mestizo (come in America latina chiamano chi all’ascendenza europea unisce quella indigena), un cattolico che in un remoto villaggio sulle Ande a metà Novecento approda all’ebraismo, mette insieme un gruppo che prende il nome Bnei Moshe e con loro si converte e fa l’alyah. È un percorso che intreccia molti temi complessi: il significato di essere ebrei, il rapporto con la Bibbia, le relazioni con il mondo ebraico, le dinamiche della società israeliana. E a colpire il lettore italiano è l’incredibile risonanza fra questa storia e un’altra ben più nota conversione spontanea di gruppo – quella che negli anni Trenta vede protagonisti Donato Manduzio e gli ebrei di Sannicandro Garganico. Ognuna è un percorso a sé, con le sue caratteristiche e problematiche. Ma a leggerle in parallelo, le due vicende illuminano di una luce viva l’arcipelago in costante mutamento dell’ebraismo nel mondo, come da New York, dove oggi dirige la facoltà di Giornalismo della CUNY, racconta con un entusiasmo contagioso Graciela Mochkovsky in quest’intervista con Pagine Ebraiche.
C’è una bella simmetria fra il suo reportage e la traiettoria di Segundo Villanueva. Per lui tutto inizia con una Bibbia trovata nel baule di suo padre, per lei è invece un post su internet. E in entrambi i casi, una scoperta fortuita innesca una lunga e complessa ricerca. Quali sono state le sue motivazioni?
Non vorrei mai paragonarmi a Segundo, che ha fatto qualcosa di così unico e straordinario e non appartengo a questa storia. Ci sono però delle ragioni personali di cui parlo nella prefazione. Ho incontrato la sua vicenda dopo aver scritto il mio primo libro sull’editore ebreo argentino Jacobo Timerman, mentre stavo approfondendo l’esperienza ebraica in America Latina. Mio padre è ebreo e la sua famiglia è emigrata in Argentina dall’Est Europa agli inizi del XX secolo. Mia madre, di origini uruguyane, è cattolica e così sono stata educata. L’ebraismo è stato però sempre una parte importante della mia identità. Sono cresciuta con la famiglia di mio padre, con i nonni e i cugini, e quando mia nonna parlava di “nosostros”, noi ebrei, mi sono sempre sentita un po’ esclusa.
Inoltre l’Argentina è stata a lungo la terza comunità ebraica più numerosa del mondo dopo Israele e gli Stati Uniti. Lì il mio cognome suona molto ebraico e la gente ha sempre dato per scontato che lo fossi. Questo libro è stato anche un modo per capire meglio la mia stessa identità. A parte questo, il percorso di Segundo è appassionante, misterioso, ricco di colpi di scena. E quando scrivo un libro la mia regola è scegliere una storia così.
Daniela Gross
(Nell’immagine: Segundo Villanueva, al centro, con due amici nella città di Cajamarca sulle Ande)
Segundo Villanueva ha 21 anni quando nel 1948 trova una Bibbia in un baule. È la sola eredità che gli resta del padre, un campesino assassinato da un vicino. Inizia a leggere e con sorpresa in quelle pagine si sente a casa. “Era il mondo di suo padre, – scrive Mochkofsky – […] pieno di asini e capre, agnello arrostito, mammelle e latte, raccolti riusciti o rovinati. La gente lì architettava gli stessi piani meschini, si trovava nelle stesse situazioni assurde”.
Quando passa al Nuovo Testamento, che già crede di conoscere, scopre che il tono è assai diverso e che i contenuti spesso si contraddicono, talvolta sfidando il senso comune. Prende così le mosse una ricerca che coinvolge familiari, amici e vicini e si intreccia con l’arrivo in Perù dei missionari protestanti che portano lo studio della Bibbia nella pratica di tanti.
(Nell'immagine: Agustín Araujo, commesso viaggiatore e leader degli ebrei di Cajamarca, 2004)
Quella degli ebrei di Sannicandro Garganico è una storia che ha fatto il giro il mondo. Nel settembre 1947 finisce sulla rivista americana Time e negli anni torna con regolarità sui media, spesso con toni urlati che dispiacciono alla comunità. La loro è d’altronde un’esperienza unica in Europa, che Pagine Ebraiche aveva ricostruito in tutta la sua complessità nel dossier al centro del suo primo numero.
Come cinquant’anni dopo accadrà in Perù, anche qui tutto inizia con un uomo, Donato Manduzio, che a seguito di una visione si accosta alla lettura della Bibbia e ne rimane profondamente colpito. È il 1930, ha 45 anni, è un calzolaio, un invalido di guerra. Con fervore approfondisce i contenuti del testo e inizia a diffondere quella religione fra chi gli è più vicino. Il gruppo elimina dalle case le immagini, celebra il Sabato e le feste, studia la Bibbia e impartisce nomi ebraici ai nuovi nati.
(Nell’immagine: un gruppo di ebrei di Sannicandro con Enzo Sereni, con gli occhiali, 1943)
Esperienze come quelle di Segundo o Donato Manduzio sono diventate impensabili, oggi che Internet ha annullato le distanze e messo in circolazione una mole di materiali, lezioni, riferimenti. Di fatto negli ultimi trent’anni la Rete ha alimentato in Africa un sorprendente fenomeno di avvicinamento alle tematiche ebraiche. I primi “ebrei di internet”, come li definisce lo William Miles della Boston Northeastern University, sono quelli della Nigeria.
Se i precursori si sono affidati ai contatti casuali e a qualche libro, il web ha impresso al processo un’accelerazione vertiginosa che non ha solo migliorato le conoscenze ma moltiplicato i contatti e offerto possibilità di dialogo con il resto del mondo. Il risultato è una presenza stimata di circa 3 mila persone, fra cui tanti giovani, che si considerano ebree, osservano il Sabato, celebrano le feste e seguono le usanze tradizionali.
(Nell'immagine: il documentario Re-emerging: The Jews of Nigeria)
Ha concluso la sua vita terrena Bruno Di Porto, professore di storia contemporanea e grande studioso dell’ebraismo italiano, in particolare negli ultimi due secoli. Sopravvissuto bambino alla persecuzione nazifascista, aveva studiato al liceo romano Tasso e si era laureato in Lettere e Filosofia con una tesi sulle minoranze religiose nel Risorgimento. Di Porto ha insegnato all’Università di Pisa fino al pensionamento ed era l’anima della pubblicazione “Hazman Veharaion – Il Tempo e L’Idea” nata trent’anni fa per favorire la conoscenza e il dibattito attorno a temi ebraici. Faceva inoltre parte del comitato scientifico della Rassegna Mensile di Israel.
Numerosi i suoi interessi, tra cui la storia del giornalismo, la storia del movimento democratico e repubblicano e le vicende dell’Italia risorgimentale, affrontati in un numero significativo di saggi e opere che restano l’eredità viva di un intellettuale dalla poliedrica e preziosa produzione. Tra i suoi scritti più recenti il saggio “Il movimento di Riforma nel contesto dell’ebraismo contemporaneo. La presenza in Italia”, pubblicato da Angelo Pontecorboli Editore.
L'INTERVENTO DEL PRESIDENTE DEL WORLD JEWISH CONGRESS
Antisemitismo nei campus, agire per fare la differenza
Segnali allarmanti, in tema di antisemitismo, negli ambienti universitari americani. Vi proponiamo di seguito una riflessione sull’argomento del presidente del World Jewish Congress Ronald Lauder, pubblicata sul New York Post:
Innumerevoli famiglie ebraiche hanno accolto i loro figli a casa dall’università in questo periodo di vacanze, offrendo a decine di migliaia di persone un rifugio da quello che è diventato un comportamento terribilmente normale nei loro campus americani: l’antisemitismo. Non è un segreto che l’odio per gli ebrei sia esploso online e nelle strade negli ultimi anni. Ma si è radicato anche nei nostri campus universitari, facendo sentire innumerevoli studenti non graditi e non sicuri.
In questi giorni tra parenti e amici, gli studenti ebrei sono lontani dalle scritte “Uccidete gli ebrei” che hanno trovato sulle porte di alcuni campus. Non sono costretti a nascondere le loro collanine con la stella di David o devono fare un percorso tortuoso per arrivare a lezione. Non devono mettere in discussione il fatto di indossare una felpa di Hillel o nascondere di aver studiato in Israele.
Secondo l’Anti-Defamation League, nel 2021 gli incidenti antisemiti hanno toccato nuovi massimi storici. In particolare nei campus universitari, l’ADL ha registrato un numero record di insulti contro gli studenti ebrei, compresi epiteti e sputi.
Molto è stato scritto sull’ondata crescente di antisemitismo e, a questo punto, non passa quasi un giorno senza che si verifichi un nuovo incidente o arrivi una nuova segnalazione.
Ma l’ondata di antisemitismo che si sta verificando nei campus richiede un livello di preoccupazione più profonda. Questi episodi non sono solo volgarità sporadiche, ma segni di un odio istituzionale nei confronti degli ebrei.
Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress
“E farai per me un atto di vera bontà, non seppellirmi – per favore – in Egitto” (Bereshìt 47;29). Con la nostra parashà si conclude il primo libro di Torà, ma anche la vita e la storia dei nostri patriarchi, compreso Josef e i suoi fratelli.
Dopo venti anni di lontananza, finalmente Giacobbe rivede il suo amato figlio Giuseppe, il quale prima di morire gli farà conoscere i suoi due figli, prosecutori della sua famiglia. Giacobbe inoltre fa giurare solennemente a Giuseppe di non seppellirlo in Egitto, ma di portarlo nella Terra di Cana’an.