LA CERIMONIA ALLA FARNESINA

Giuseppe Castruccio, un console tra i "Giusti"

Giuseppe Castruccio sapeva giocare bene a pallone. Tanto da guadagnarsi una presenza tra i titolari nel Genoa che a inizio Novecento dominava la scena calcistica nazionale, vincendo titoli in sequenza. Il meglio di sé lo darà però alcuni anni dopo. Quando, abbracciata con successo la carriera diplomatica, si trovò ad agire in una Salonicco diventata inferno per le decine di migliaia di ebrei che vi abitavano.
In qualità di console generale d’Italia, l’ex calciatore di belle speranze diventato nel frattempo eroico uomo delle istituzioni fece il massimo per salvare singoli e famiglie in pericolo. In particolare si prodigò affinché gli ebrei italiani presenti nella zona occupata da forze militari di Roma non fossero trasferiti in quella tedesca e da lì ai campi della morte, e affinché quelli nella zona tedesca tornassero nella parte italiana. Suo tra gli altri il merito del trasferimento di 281 ebrei dal ghetto “Baron Hirsch” con un piano clandestino ad alto rischio: travestiti da soldati italiani, vennero fatti salire su treni diretti ad Atene e Larissa. Altre azioni salvifiche ancora gli sono state attribuite, restituendoci l’immagine di un uomo capace di agire a difesa dei più alti valori di solidarietà e fratellanza.
Gesti che nel loro insieme hanno portato all’iscrizione del suo nome tra i “Giusti tra le Nazioni” onorati dallo Yad Vashem, il solenne omaggio dello Stato d’Israele a chi non restò indifferente e agì a rischio della vita. “L’esempio dei Giusti è una candela che illumina e guida. Possano le azioni di Giuseppe Castruccio essere una bussola capace di orientarci tra il bene e il male. Che la sua eredità morale ci guidi e incoraggi a fare la differenza, ad avere abbastanza coraggio per sentire compassione nei confronti di quanti hanno bisogno del nostro aiuto” la riflessione posta dall’ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar nel corso della cerimonia di conferimento dell’onorificenza svoltasi quest’oggi alla Farnesina, la sede del ministero degli Esteri. 

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LA SCOMPARSA DI UN PROTAGONISTA DELLA LOTTA PARTIGIANA

Enrico Loewenthal (1926-2023)

“La storia che racconto è la storia della mia vita, o meglio di alcuni anni della mia vita e di alcuni avvenimenti di cui sono stato testimone. Anni duri, di silenzioso dolore da un lato e di roboante arroganza dall’altro…”.
Scriveva così Enrico Loewenthal, protagonista della lotta partigiana nel Nord Italia dove fu attivo con ruoli apicali e di grande responsabilità, scomparso nelle scorse ore all’età di 97 anni.
Nato a Torino nel 1926, figlio di Edoardo e Ida Falco, il giovane Enrico aveva frequentato prima la scuola tedesca e poi il liceo d’Azeglio, venendone espulso nel ’38 con la promulgazione delle leggi razziste. A 17 anni, dopo l’otto settembre, la scelta di prendere parte alla Resistenza. Molte le azioni che resteranno nella storia di quegli anni, tra cui la liberazione della città di Aosta. Enrico, in quei mesi eroici, era il partigiano Ico. Nome evocato anche nella sua autobiografia “Mani in alto, bitte. Memorie di Ico, partigiano, ebreo”, con all’interno anche un contributo della figlia Elena nota scrittrice e traduttrice (oltre che attuale direttrice del Circolo dei Lettori di Torino). “Questa di mio padre – la sua riflessione – è la pasta del passato che abbiamo dentro di noi. Questo ha attraversato la generazione prima della mia, quella che mi ha messo al mondo. Questo era mio padre a sedici, diciassette, diciotto anni: un partigiano ebreo per le montagne, che per sua e nostra fortuna conosceva le lingue ed era dotato di quella prontezza di riflessi indispensabile per sopravvivere nella sequela di situazioni in cui si è trovato”.

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TORAH

Rapportarsi con il prossimo

Anche questo Shabbat leggeremo due parashot: nella prima, quella di Acharè mot, si legge, descritta in modo minuzioso, la cerimonia che il Sommo Sacerdote compiva il giorno di Kippur e che culminava con il suo ingresso nel Qodesh ha Qodashim – il Santo dei Santi, cioè la parte più interna del Tempio di Gerusalemme. La seconda parashà, Qedoshim, tratta di tutte le regole ampliate e spiegate che si trovano negli “Aseret ha Dibberot – i Dieci Comandamenti”, soprattutto quelle che riguardano il rapporto fra uomo e uomo. I nostri Maestri deducono che questa parashà sia stata dettata sul Monte Sinai, contemporaneamente ai Dieci Comandamenti, poiché troviamo proprio al suo inizio le parole “…kol ‘adat benè Israel”. 

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Venezia

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