Tradurre è mediare fra le culture

Vigliani “Non mi lasciavano lavorare sui testi per renderli belli, al liceo, volevano solo verificare che avessi capito la grammatica. Era terribilmente frustrante consegnare traduzioni che per me suonavano male”. Il gusto per la lingua lo sfogava traducendo per se stessa, dal francese, testi di Chateaubriand o di Flaubert. Sorprende sentirlo raccontare da una traduttrice che è molto nota per il suo lavoro su grandi autori, sia classici che contemporanei, ma dal tedesco, e che è anche germanista e saggista. E che il 26 maggio riceverà dai Ministeri italiani per gli Affari esteri e per i Beni e le attività culturali e da quello per gli Affari Culturali e i Media della Repubblica Federale di Germania oltre che da Goethe-Institut e Centro per il libro e la lettura il prestigioso Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria 2016 per Forse Esther di Katja Petrowskaja (Adelphi) di cui Pagine Ebraiche ha scritto lo scorso anno. Un riconoscimento al ruolo dei traduttori come mediatori fra le culture. Alla traduzione, però, Ada Vigliani è arrivata in maniera casuale. Durante gli studi in filosofia e letteratura tedesca fra Torino e Salisburgo, conclusi con una tesi sull’etica in Musil si era riavvicinata a una lingua appresa bambina. E alla traduzione l’ha avvicinata un professore, con la proposta di provare a tradurre Shopenhauer, per i Meridiani. Da allora non si è più fermata. “Una cosa che per me conta davvero molto è la qualità del libro che traduco: lavorare su testi scritti bene può fare la differenza, e se l’autore è bravo le traduzioni vengono meglio”. Grandi autori – da Shopenhauer a Goethe, da Zweig a Canetti – e scrittori contemporanei, che affronta con un rigore sereno e con un pizzico di ironia: “Tradurre è un po’ come ballare… se hai un buon ballerino ti fai guidare. Non puoi prevaricare il tuo autore, così come non puoi fare la parte del cavaliere: devi essere capace di ascoltarlo e capirlo, per poterlo seguire”. Tradurre i classici è difficile, ma ci sono regole chiare, e una struttura, al contrario della letteratura contemporanea, che può riservare delle sorprese e che “a volte non sai da che parte prendere”, ma lascia al traduttore la possibilità di confrontarsi con l’autore. “Ma non subito: la prima stesura la faccio da sola, non voglio rischiare di farmi condizionare. Ma, poi, trovo molto interessante il confronto con i traduttori che stanno lavorando sullo stesso testo in altre lingue. Ma soprattutto bisogna saper scrivere bene, e nulla serve se non si è grandi lettori e se non si conosce benissimo la propria lingua, che bisogna amare profondamente”.

da Pagine Ebraiche, maggio 2016

(12 maggio 2016)