sostegno…

Dinanzi alla virulenza di una persecuzione che porta una madre ad affidare il suo neonato alle acque del Nilo, la figlia del Faraone raccoglie il cesto e intuisce che si tratta di un bambino ebreo. Per allattarlo sceglie una balia ebrea che, casualmente, è la vera madre, ma è lei stessa – figlia del Faraone – a dargli il nome: “…e lo chiamò Moshè perché è stato tratto fuori dalle acque” (Shemòt; 2,10). L’atto della figlia del Faraone è fatto di coraggio, di generosità e misericordia incondizionati. È per questo gesto che smetterà di essere la figlia del Faraone e diverrà BatYà, la figlia dell’Eterno. Dalla forza interiore con cui la figlia del Faraone salva Moshè dalla morte si origina la forza della personalità di Moshè. In nessun momento della sua vita Moshè verrà meno al messaggio di quel gesto.
Il nome Moshè, secondo quanto ci dice il testo della Torà, si riferisce al fatto che “…è stato tratto fuori dall’acqua…”, ma se così fosse avrebbe dovuto chiamarlo “mashui” (in forma passiva) e non “moshè” che significa piuttosto “colui che tira fuori” (dall’acqua) nella forma attiva. Nel rapporto tra Moshè e BatYà, chi aiuta chi? La grandezza di BatYà sta nel comprendere che, se nell’immediato è lei a tirare fuori Moshè da una situazione di emergente difficoltà, alla lunga sarà Moshè a tirar fuori lei dall’Egitto, paradigma di una condizione di affogamento permanente. Al di la di quella che è una visione contabile di chi aiuta di più nei rapporti interpersonali, si può dedurre da questa storia che chi crede di aiutare il prossimo è spesso il vero destinatario dell’aiuto. Così come coloro che portano l’Arca sono in realtà trasportati da questa, nessuno di noi può uscire dall’Egitto senza sostenere ed essere sostenuto dagli altri.

Roberto Della Rocca, rabbino

(24 gennaio 2017)