STORIA Antifascisti sconfitti, la sorte amara di Giustizia e Libertà

Quale antifascismoMarco Bresciani / QUALE ANTIFASCISMO? STORIA DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ / Carocci

Il nome veniva dal rovesciamento di quello del gruppo anarchico fondato a Napoli nel 1865 da Michail A. Bakunin: «Libertà e Giustizia». La nascita è databile all’agosto del 1929, quando giunsero a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti, evasi dal confino di Lipari. Ad accoglierli trovarono Gaetano Salvemini, Alberto Cianca e Alberto Tarchiani. A loro si sarebbero nel tempo aggiunti Umberto Calosso, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Augusto Monti, Silvio Trentin, Vittorio Foa, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Andrea Caffi, Michele Giva, Max Ascoli, Franco Venturi e molti altri. Nessun gruppo o partito dell’epoca ebbe una concentrazione di cervelli di pari livello, sottolinea Marco Bresciani nelle pagine iniziali del saggio Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà, pubblicato da Carocci. Fondamentale fu per GL la generazione che si era formata all’inizio del Novecento, tutti grandi lettori de «La Voce», la rivista che Giuseppe Prezzolini fondò nel 1908. Le biografie politiche dei giellisti, scrive Bresciani, «erano accostabili, per certi versi e almeno per un tratto, a quelle di non pochi fascisti della prim’ora: la lontana ascendenza, o comunque la lealtà all’album di famiglia mazziniano; l’adesione al mito di una nuova rivoluzione nazionale; la passione interventista militante; l’avversione per il massimalismo socialista e la rivendicazione combattentistica postbellica». Fondamentale fu per tutti loro l’avversione all’esperienza di governo del liberale Giovanni Giolitti. La cultura di inizio Novecento, sostiene Bresciani, «trovò nell’antigiolittismo un comune denominatore (negativo)». Sotto la pressione dell’esperimento giolittiano di nazionalizzazione e insieme di democratizzazione del Paese, «si aprì una faglia profonda tra la classe dirigente liberale e classe intellettuale, che l’interventismo prima, il fascismo e l’antifascismo poi, in vario modo avrebbero cercato di ricomporre». La cultura antigiolittiana, con tutti i suoi strascichi, «fu il terreno d’incubazione dell’uno come dell’altro, depositando e accumulando molti dei materiali più innovativi — ed esplosivi — del nuovo secolo». La «virulenta critica antigiolittiana» e la «bruciante passione interventista» lasciarono nell’opinione pubblica «tracce ambigue (se non torbide), che riaffiorarono nella campagna per il rinnovamento della politica nazionale postbellica». Del resto ancora nel 1958 Salvemini ricordava che, nel 1922, ai tempi della marcia su Roma, tra Mussolini e Giolitti avrebbe scelto il primo. E non era l’unico. Ernesto Rossi aveva collaborato al «Popolo d’Italia», il quotidiano del movimento fascista, dal 1919 al 1922. Silvio Trentin, nei 1919, guardava a Mussolini come «artefice sicuro della rinascita» nazionale. Nicola Chiaromonte — come scrisse poi nel libro Il tarlo della coscienza (il Mulino) — fu in una fase iniziale attratto dalla figura di Mussolini. Identiche suggestioni ebbe Ferruccio Pani. Augusto Monti si spinse ad apprezzare le «buone intenzioni» mussoliniane. Anche coloro che sarebbero poi approdati ad una «versione intransigente di antifascismo» — è il caso di Rossi e Ascoli — furono a lungo esposti alla tentazione di guardare al fascismo come «rivolta generazionale». Paradossalmente la storia di GL e quella del fascismo, quantomeno nella sua fase iniziale, sono «indissolubilmente intrecciate»: ed è proprio su questo «comune terreno» che si possono «meglio comprendere le ragioni della loro contrapposizione». Dopo questa infatuazione iniziale, i giellisti adottarono la tesi di Piero Gobetti che identificava nel fascismo «d’autobiografia della nazione». Ma — come fece osservare uno di loro, Nicola Chiaromonte — si trovarono in contraddizione con la tesi gobettiana quando nell’ottobre del 1929 Rosselli, Lussu, Rossi e Tarchiani appoggiarono, nell’ottica del tirannicidio, l’attentato di Fernando De Rosa al principe Umberto. La difficile condizione di «fuorusciti» alimentò tra loro polemiche virulente. La collaborazione di GL con gli altri avversari del regime fascista — come è ben documentato nella Storia della Concentrazione antifascista di Santi Fedele (Feltrinelli) — suscitò le perplessità di Salvemini, emigrato a Boston, che raccomandava a Rosselli di lavorare piuttosto con i «giovani» e i «giovanissimi» rimasti a vivere sotto il regime. Ad un tempo i giellisti furono criticati da Togliatti, che su «Lo Stato Operaio» nel settembre del 1931 scriveva: «I quadri intermedi piccoloborghesi di Giustizia e Libertà non hanno più davanti a sé, oggi, altra prospettiva che quella di dare il cambio ai limoni spremuti del riformismo». E persino da Max Ascoli che, emigrato a New York, accusò i suoi amici di essere inclini «ad agire prima che a pensare» e di assomigliare (nei loro ragionamenti) ai fascisti. Anche Chiaromonte obiettò che il loro antifascismo stava diventando una sorta di «fascismo a rovescio». Analoghi rilievi vennero da Umberto Calosso. Rosselli, e Lussu, Salvemini e Trentin, Rossi e Ascoli, scrive Bresciani, «avevano faticato a decifrare la novità e la radicalità del fascismo nella strisciante guerra civile del 1919-22». Una cultura «impregnata di umori antigiolittiani, di ardori interventisti e di slanci combattentisti, non aveva loro consentito di mettere bene a fuoco il fenomeno. Anzi, i «cascami impolitici» di quella cultura li aveva spinti a «identificare ogni esito della crisi postbellica con la stagione di Giolitti o anche solo a sottovalutarne la significativa discontinuità». Alcuni di loro «avevano stentato a riconoscere l’effettiva minaccia incombente sulle istituzioni liberali e parlamentari». Altri si erano lasciati suggestionare dal «messaggio di rinnovamento radicale del movimento di Mussolini». Ma una volta che ebbero maturato un convincimento antifascista, presero il regime sul serio e furono — soprattutto Salvemini e Trentin — «più attrezzati a comprenderlo di quanto non lo fossero tanti socialisti, comunisti e liberali». Nell’aprile del 1934, però, Salvemini accusò Rosselli di essere sempre di più «un fuoruscito… vivente di sogni e di parole astratte». E, stimolato da questa lettera, nel novembre di quello stesso anno così Rosselli elencò e stigmatizzò gli errori degli antifascisti: «Presentare il fascismo come in procinto di cadere da un istante all’altro; esagerare l’importanza dei movimenti esistenti; impiegare un tono roboante, minaccioso; esagerare nelle critiche di dettaglio e nello scandalismo, anziché attaccare le fondamenta e guardare all’insieme; condurre le requisitorie su motivi prevalentemente sentimentali o sulle violenze del passato; assumere verso coloro che stanno ancora nel Paese il tono di una aristocrazia antifascista; aver l’aria di difendere la così detta democrazia prefascista o le pseudo-democrazie esistenti; negare alcunché si sia fatto di utile sotto il regime; contestare a Mussolini ogni qualità, oppure, con esagerazione opposta, risolvere il fascismo in Mussolini; non insistere abbastanza sull’elemento positivo dell’antifascismo». Si distingue già allora Calosso il quale — «con spirito di raro anticonformismo», scrive Bresciani, e «infrangendo ogni canonico schema di classe» — riconosce che il reclutamento fascista è stato «anche contadino e operaio fin dalle origini», sicché è impossibile negare «le radici popolari del fascismo». La parte del movimento rimasta in Italia nel frattempo fu devastata dalle delazioni e dalle due retate torinesi, quella dell’11 marzo 1934 e quella del 15 maggio 1935, che misero fuori combattimento Leone Ginzburg, Carlo Mussa Ivaldi, Carlo Levi, Sion Segre, Vittorio Foa, Massimo Mila, Michele Giva, Augusto Monti, Franco Antonicelli, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Piero Martinetti, Giulio Einaudi, Ludovico Geymonat. Ed è qui che arriva il momento dell’apertura ai comunisti. Per quel che riguarda il regime dell’Unione Sovietica, il più lucido appariva Andrea Caffi che già nel 1932 , dopo aver definito la rivoluzione d’Ottobre «un positivo, generale sollevamento delle masse popolari», considerava il regime staliniano «un grandioso meccanismo perla coercizione e lo sfruttamento degli individui», notava le sue «evidenti affinità con i mostruosi parti dell’epoca nostra» e metteva in guardia dall’Unione Sovietica che, invece di costituire «un contrappeso ai regimi di reazione capitalistica», stava diventando «un elemento di questa costellazione reazionaria». Nella Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi) Aldo Garosci nota come, invece, i giudizi del leader di Giustizia e Libertà dal 1934 in poi siano molto più generosi nei confronti dell’esperimento comunista. Bresciani attribuisce a Rosselli un corsivo redazionale comparso su «Giustizia e Libertà» (gennaio 1935) nel quale, in evidente polemica con Caffi e con Lionello Venturi, che aveva sottolineato le somiglianze tra i regimi fascista e comunista, è scritto: «Si possono combattere la dittatura russa e i suoi sistemi: non si deve però mai dimenticare che questa dittatura scaturisce dalla più grande rivoluzione del mondo moderno, si esercita su un Paese profondamente rinnovato e offre un vasto bilancio di opere per cui ogni parallelo tra dittatura russa e dittatura fascista è viziato alla base». La guerra civile spagnola, fin dagli inizi nel 1936, fu per Rosselli occasione per adottare quello che Bresciani definisce «un linguaggio insolitamente brutale, disponibile a giustificare qualsiasi violenza in chiave antifascista». Cosa che lo portò a scontri con Caffi, Lussu e Garosci. E, all’epoca dei processi staliniani, in Rossella continuava ad affiorare, secondo Bresciani, «l’intrico di tentennamenti e cedimenti verso l’esperimento sovietico e il regime staliniano». Nei suoi scritti «si registrava una sempre più netta identificazione di anticomunismo e fascismo». La condanna delle «pratiche terroristiche» di Stalin si fece sempre più «fioca». Rosselli fu ucciso, assieme al fratello Nello, nel bosco di Bagnoles-de-l’Orne da fascisti italiani e francesi, secondo modalità ben esposte da Mimmo Franzinelli in Il delitto Rosselli 9 giugno 1937: anatomia di un omicidio politico (Mondadori). Morì che aveva da poco dato alle stampe un lungo saggio dal titolo Per l’unificazione del proletariato italiano, nel quale proponeva una sorta di partito unico dell’antifascismo. Ma, nonostante molti incontri tra giellisti e comunisti del calibro di Giuseppe Berti, Eugenio Curiel, Ruggero Grieco, quel che accadde in Spagna nella seconda fase della guerra civile, in Unione Sovietica e soprattutto le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, resero poco concreta la prospettiva da lui indicata. Alla notizia dell’accordo tra Hitler e Stalin, Cianca e Garosci scrissero per il giornale del gruppo un editoriale dal titolo esplicito: Crisi di un ideale. Infine il Comitato direttivo di GL si disperse nel giugno del 1940, al momento in cui le truppe di Hitler fecero il loro ingresso nella capitale francese. Ma il lavoro di questo straordinario gruppo di attivisti antifascisti e intellettuali raffinati ebbe eco nel Manifesto di Ventotene (scritto da Spinelli, Rossi e Colorni al confino, tra l’inverno del 1941 e la primavera del 1942) e nel Partito d’Azione fondato a Roma, in clandestinità nella casa di Federico Comandini, il 4 giugno del 1942. Anche se, precisa Bresciani, la storia del Pd’A deve essere tenuta «ben distinIspiratore Lo storico Gaetano Salvemini (1873-1957), che insegnava all’Università di Firenze, era considerato un maestro da militanti antifascisti come Ernesto Rossi e Carlo Rosselli, insieme ai quali pubblicò il giornale «Non Mollare». In esilio a Parigi partecipò nel 1929 alla fondazione del movimento Giustizia e Libertà, guidato da Rosselli ta» da quella di Giustizia e Libertà. Dopodiché, constata lo storico, nel dopoguerra gli ex giellisti «si presentarono (e si sentirono) più come vinti che come vincitori». A un suo personaggio — Andrea Valenti identificabile con Leo Valiani — Carlo Levi, ne L’Orologio (Mondadori), fa dire: «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima». Sarebbe andata proprio così. Ma Levi lo aveva capito già nel 1950.

Paolo Mieli, Corriere della Sera, 3 maggio 2017