Le quattro Emilie

Sara Valentina Di Palma“Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte”, scrive Primo Levi nel capitolo iniziale di Se questo è un uomo, intitolato Il viaggio. Una bella analisi letteraria di questo passo è stata compiuta dal critico letterario, già curatore delle opere di Levi per Einaudi ed autore del recente saggio-biografia Primo Levi di fronte e di profilo, Marco Belpoliti, nella rubrica Idee di Moked l’11 dicembre 2016.
Quattro sono le Emilia Levi censite ne Il libro della memoria di Liliana Picciotto: due decedute in luogo e data ignoti e due assassinate ad Auschwitz; di queste ultime una in data ignota e l’altra, l’Emilia ricordata da Levi, il 26 febbraio 1944 al suo arrivo. Emilia era nata a Milano il 3 dicembre 1938 (ed era dunque di due anni più grande di come la ricorda Levi) da Aldo ed Elena Viterbo.
Era stata arrestata da italiani a Como il 4 dicembre, il giorno dopo il suo compleanno, su delazione pare del loro parrucchiere, il quale prima si era fatto lautamente pagare fingendo di adoperarsi per procurare alla famiglia documenti falsi necessari all’espatrio in Svizzera, poi aveva intascato la taglia sugli ebrei denunciati (di cinquemila lire per un uomo, e solitamente di tremila lire per una donna e mille lire per un bambino, ma se si denunciava un rabbino od un notabile si poteva arrivare anche a qualche decina di migliaia di lire), ed infine aveva depredato il loro appartamento.
Detenuta nel carcere di Como e deportata a Fossoli, Emilia partì da qui il 22 febbraio verso il campo di sterminio polacco, dove il padre fu immatricolato (n. 174518) e morì in luogo e data ignoti dopo il marzo 1945, mentre l’immatricolazione della madre non è certa, come ignoti sono luogo e data della sua morte.
Con Emilia ed i genitori, fu deportato anche il fratellino Italo Gustavo Davide, di sette anni più grande della sorella e con lei assassinato all’arrivo. Italo, di cui il CDEC conserva una bella foto in cui sorride in primo piano sul monopattino, aveva ricevuto questo nome perché nato il 4 novembre, anniversario della vittoria italiana nel Primo conflitto mondiale cui cui il padre Aldo, come molti altri ebrei italiani, aveva partecipato partendo volontario – su questo argomento, oltre alla mostra curata dal CDEC nel 2015 (1915-1918 Noi c’eravamo. Gli Ebrei italiani e la Grande Guerra), è da menzionare il recentissimo Moisè va alla guerra. Rabbini militari, soldati ebrei e comunità israelitiche nel primo conflitto mondiale (di Paolo Orsucci Granata, Salomone Belforte Editore 2017). Dopo Primo Levi, rammentano Emilia anche l’amica di infanzia Gisella Vita-Finzi, la quale conferma sostanzialmente le memorie di Primo Levi descrivendo la bambina come vivace, intelligente, determinata nonostante la giovane età (
G. Vita-Finzi, I Levi: una famiglia amica scomparsa nel nulla
, in “Bollettino della Comunità israelitica di Milano”, luglio-agosto 1989) e la cugina di Emilia, Giorgina Levi, scrittrice emigrata in Bolivia nel 1939, la quale scrivendo sulle pagine de
l’unità nel 1995 presume che Primo Levi non avesse citato Emilia nella prima edizione di Se questo è un uomo (De Silva 1947) perchè non la ricordava – e che la bambina gli fosse tornata in mente forse perché sollecitato dalle ricerche condotte dagli zii, inserendola quindi nella seconda edizione uscita per Einaudi nel 1958, a quel punto con l’errore sulla sua età al momento della deportazione.
Che cosa ci resta oggi di Emilia, e chi l’avrebbe ricordata se non fosse tornata in mente a Primo Levi? Emilia sopravvive solo nelle parole di chi la incontrò, nonostante sia stata erroneamente identificata con la bambina ritratta in secondo piano insieme ad Italo ed alla madre nella fotografia menzionata, mentre si tratta di Paola Vita Finzi, nata nel 1932 e quindi di un anno più grande dell’amichetto Italo – Paola compare anche in un’altra bella foto di villeggiatura in Liguria, insieme a
Graziella ed Alberto Morais (deportati ed assassinati), Gisella ed Emilio Vita Finzi.
Sui Morais ricordo le pagine di Aldo Zargani, bambino sopravvissuto nascosto, di cui Alberto e Graziella erano cugini: appare oggi folle che il padre Carlo avesse denunciato alle autorità il tradimento di un contrabbandiere che li stava portando verso la Svizzera, e fu quindi arrestato dai carabinieri italiani rinunciando alla possibilità di salvare almeno i bambini perché, ricorda Aldo, “la famiglia deve restare unita […] e si tratta in definitiva di passare, tutt’al più, qualche mese in un campo di internamento in Germania, paese civile”. Inviato a Birkenau con la famiglia, nonostante sapesse a quel punto che i suoi cari erano stati assassinati nelle camere a gas, lo zio di Aldo “chiedeva a tutti, continuava a chiedere, della moglie e dei suoi bambini. […] Sopravvisse, nel delirante rifiuto della realtà, sino a poco dopo la liberazione” (Aldo Zargani, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua 1938-1945, il Mulino 1995, pp. 193-194).
Che cosa provava Emilia nascosta? Che cosa avrebbe potuto raccontarci se fosse sopravvissuta? Sappiamo che circa il 90% dei bambini ebrei fu assassinato nella Shoah, ovvero circa un milione e mezzo di persone: uno sterminio, all’interno del genocidio dell’intero popolo ebraico, intenzionale e programmato, iniziato uccidendo le donne in stato di gravidanza e continuato nei ghetti facendo morire i bambini di fame, deportandoli nei campi di sterminio, assassinandoli in fucilazioni di massa, usandoli per esperimenti medici. A lungo dimenticati dalla storia, anche quando, pochissimi, sono sopravvissuti, sanno di aver vissuto qualcosa che “è come un proiettile conficcato in te, che non è mai stato estratto da alcuna operazione chirurgica. Ci sono molte prove della presenza di un piccolo pezzo di metallo in te, dovrebbe uscire ma non esce” – come mi ha raccontato in un’intervista Ruth
Klüger, nata a Vienna nel 1931 e sopravvissuta al ghetto di
Terezín a diversi lager tra cui Auschwitz.
Di alcuni bambini non sappiamo neppure il nome, come il celeberrimo Hurbinek ritratto ancora da Primo Levi ne
La tregua, o lo sappiamo solo grazie ad un caso, come per un altro bambino cui sono molto affezionata, a lungo conosciuto come Remi van Duinwijck.
Il bimbo arrivò nel nido per bambini ebrei situato
di fronte allo Hollandsche Schouwburg (il teatro di
Amstedam nel quartiere ebraico e principale centro di raccolta per le deportazioni) nell’ottobre 1942, e fu chiamato così dal protagonista del celebre libro di Hector Malot Senza famiglia, mentre ricevette il cognome dalla strada in cui venne trovato, dopo che era stato abbandonato davanti alla casa della famiglia De Bunt su Duinwijckweg 1 a Bloemendaal.
La famiglia De Bunt avrebbe voluto tenerlo ma le fu impedito; dichiarato ebreo (come tutti i bambini trovatelli secondo un decreto del 15 gennaio 1943, in modo che nessun ebreo potesse sfuggire alla persecuzione), nell’aprile del 1943 a poco più di un anno di età venne deportato a Westerbork insieme ad un orso di peluche regalatogli dalle guardie tedesche, e da qui il 18 maggio a
Sobibór
dove fu assassinato tre giorni dopo – questo n
onostante fosse benvoluto sia dalla direttrice dell’orfanotrofio
Henriëtte Pimentel (la quale, facendo pressione sui genitori dei bambini affinché acconsentissero, riuscì a far sparire con documenti falsi e manomettendo i registri del teatro circa seicento piccoli, prima di essere arrestata nel luglio 1943 ed assassinata ad Auschwitz) s
ia dall’SS-Hauptsturmführer Ferdinand Hugo aus der Fünten (capo dell’Ufficio centrale per l’Emigrazione di Amsterdam e principale responsabile delle deportazioni e dello sterminio).
Remi, sappiamo solo da pochi anni dopo le ricerche intraprese da parte del fratello (sopravvissuto come anche il padre), si chiamava in realtà Koenraad Huib Gezang ed era nato all’Aja il 29 gennaio 1942, e qui viveva in Noordwijkschelaan 9 con il padre Maurits, la madre Florence Song-Goudeket ed il fratello Edward. Il padre era membro della Resistenza, e per aumentare le possibilità di sopravvivenza aveva deciso di dividere i propri cari: Koen era rimasto con una zia e poi con una famiglia che lo aveva abbandonato – mentre talvolta avveniva che fossero i genitori stessi a lasciare un bambino in strada nella speranza che qualcuno lo salvasse. Capitava anche che i genitori lasciassero con i piccoli un segno di riconoscimento, un portafortuna, una lettera che li accompagnasse: “Uomini pietosi, salvate il mio bambino. D-o vi ripagherà, non consegnate il bambino agli assassini!”, implora una donna poco prima di essere assassinata (in Zvi Bacharach, a cura di, Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah
, Laterza 2009, p. 211). A proposito del rinvenimento di Remi, leggiamo negli annali di Bloemendaal: 26 ottobre (1942) L’ufficiale dello stato civile residente a Duinwijckweg 1 a Bloemendaal alle 20:45 pm [ha trovato] un bambino fuori dalla sua casa il 16 ottobre. Il trovatello è di sesso maschile, ha circa otto mesi di età, senza segni distintivi, con alcuni vestiti in una borsa da viaggio rosa con spallaccio, giacca rosa con cappello a maglia, pannolini di lana, due pannolini di stoffa […]. Previo consenso richiesto per il bambino al momento della nascita, viene rilasciato certificato con i nomi: Remi Duinwijck A.M.G. Nierhof, J. Vogel, Bloemendaal Kroniek 1940-1945, Bloemendaal 2005).
Anche la madre Florence, nata ad Amsterdam nel 1908, fu assassinata a Sobibór il 9 aprile 1943 a trentaquattr’anni di età, ed è ricordata insieme a Koen in una Pietra d’inciampo davanti alla loro ultima residenza. Di molti bambini abbiamo oggi solo un nome, spesso neppure quello. Come mi ha raccontato Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz ed impegnata nel lavoro di testimonianza, “A volte parlo di Jeanine, che era come me ad Auschwitz, era francese, bionda e con gli occhi azzurri, dolcissima, e vorrei che fosse ricordata. Altre volte racconto di una famiglia che ho visto, forse per tre giorni, prima che venisse condotta al crematorio. Di quella famiglia non è rimasto nessuno”.
Restano invece nel nostro ricordo.

Sara Valentina Di Palma

(18 maggio 2017)