Romanzo famigliare, cosa resta

Alla fine quasi tutto si è ricomposto alla grande, e se qualcosa di irrisolto è rimasto, è stato lasciato ai margini con discrezione e con una specie di affettuosa solidarietà. Ciò che più conta è che la bimba (Clara, come Clara Schumann) è nata ed è bellissima, la mamma appena diciassettenne è un raggio di sole e i giovanissimi nonni, tra scintille Sturm und Drang, non smettono di scoprire e riscoprire quanto si amano. Di più: i malevoli sono finiti fuori campo, l’azienda è stata salvata in extremis e la Fondazione, per molti sfortunati una vera e propria casa, può mantenere il suo impegno. Romanzo famigliare si chiude così, in corsa sulla curva ascendente della parabola e lì ci lascia: la vita tira calci e colpi duri ma ti regala ancora e sempre il profumo della primavera. La vita però è anche e soprattutto una questione di responsabilità. (E la nave-scuola Amerigo Vespucci, in questa prospettiva, ha il suo fascinoso e complesso perché.)
Dopo le violenze dei notiziari, l’aggressione degli imbonitori, gli ammazzamenti reali e finti che ogni sera lasciamo in deposito ai piedi del letto quando non ce li portiamo appresso nel sonno, la telenovela ci ha mandato a dormire più tranquilli, ammorbiditi da una conclusiva armonia mozartiana e da una grazia non comune, distesa dalla mano della Archibugi sulle difficoltà del mestiere di vivere. E sì che ha messo insieme un bel campionario di spostati, strappati a qualche buco nero o ancora vacillanti sull’orlo dell’abisso: l’anoressia, la droga, l’infanzia violata e ferita, la disabilità, l’ambiguità sessuale, le donne sfruttate, la malattia nervosa, tutto è stato raccolto, tutta quella umanità che può esser “vista” da ciascuno a ogni angolo di strada, più dispersa forse nelle metropoli, più in evidenza nelle cittadine di provincia. Potremmo anche dire: le minoranze. E allora, perché non gli ebrei, minoranza storica? E nel caso, qui e ora, come?

Si potrebbe rileggere Il giardino dei Finzi-Contini, per esempio, così non si sbaglia, e poi mollare gli ormeggi e proiettarsi ai giorni nostri, scompigliando un po’ di ruoli e situazioni. Se i Finzi-Contini erano una famiglia ricchissima, lì a Ferrara, perché non dovrebbero esserlo gli immaginari Liegi, qui a Livorno? Perché non dovrebbero avere come loro una grande villa con un grande bellissimo giardino? E se lì c’era un fedele tuttofare, non potremmo avere anche qui una sorta di maggiordomo, un autista tanto affezionato da diventare la voce narrante dell’intera storia? Richiamiamo qualche nome (Micol, Giorgio), segniamo la bellezza aristocratica e il carattere viziato della “figlia” con le inquietudini e le fragilità dell’oggi (e va pur sottolineato il casting, azzeccato e di resa ineccepibile), entriamo noi pure nelle aule scolastiche e guardiamo come sono adesso gli adolescenti. E su tutti lui, il padre. Ma non un professore magari noioso. Un petroliere. Spregiudicato e potentissimo.

Dopo la seconda puntata mi è scappato un sospiro. Dopo la terza mi sono agitata. Era lì, e non avevo visto male. L’ho segnalato, senza aver risposta, al Corriere della Sera, al Bollettino, al Cdec, a voi di queste pagine, forse esagerando: l’ebreo (l’ebraismo?) che sta entrando in milioni di case è uno stereotipo da Protocolli e le parole, anche se “tirate via” o girate sottosopra, ci sono tutte: superiorità, massoneria, razza, bugia, mafia, intrigo, sotterfugio, e ovviamente FINANZA. Maiuscola, sussurrata, misteriosa. Ma che strabismo è questo della Rai – scrivevo in sostanza – che un’ora prima manda in onda servizi sullo scivolone della “razza bianca a rischio”, o sulla Giornata della Memoria (ormai dilatata a dismisura), o sull’importante nomina di Liliana Segre a senatrice a vita, e poi mostra una Menorah sullo sfondo di loschi complotti finanziari, come se questi ottant’anni non fossero passati? Che corto circuito può avvenire nella testa di ragazzi portati a vedere con la scuola qualche filmato del tipo “perché non succeda più” e poche ore più tardi sdraiati sul divano a vedere, tra accattivanti vicende sentimentali, “quello che stava all’origine di quel massacro” secondo la mentalità dell’antisemita comune? Questo mi chiedevo e ritenevo giusto comunicare, ripensando a una frase feroce uscita dalla penna di Fred Uhlman: Non esiste un ebreo buono… Gli unici ebrei buoni sono gli ebrei morti.

Sono passati i giorni. Anche il 27 gennaio. Anche la penultima puntata. Mi sono un po’ placata. A metà strada ho cominciato a vedere qualcosa di diverso, avallato da un commento del fedele narratore: in fin dei conti (questo il sunto di una frase che non riesco a ritrovare, e mi si perdoni la cattiva “traduzione”) l’unico fondo d’investimento che al Cavalier Liegi era sempre interessato era quello umano. Si potrebbe ripensare tutto quanto retrospettivamente e, ora che lui se n’è andato, ora che i loschi complotti sono stati smentiti, vedere quello che meno saltava agli occhi. Che questo ebreo che si è preso tutto quello che voleva, a molti ha dato quello di cui avevano bisogno, con il piglio imperioso del potere prima, nella confusione della malattia poi. Che in casa Liegi – per quel che ci è stato mostrato – è entrato chiunque e ha trovato riparo, senza venir giudicato. E che questi ebrei, pur bersagliati da certe battute infelici di provincia, hanno vissuto con gli altri e in mezzo agli altri, e hanno accolto e raccolto attorno a sé, con disordinata immediatezza, un’umanità altrimenti alla deriva se non proprio reietta, offrendole quel che avevano e potevano. Il cuore senz’altro, e spesso di più.
Non so se questo sottotesto fosse nelle intenzioni delle autrici (due donne, e il battito del pensiero femminile si sente eccome). Non so se qualcun altro l’abbia letto, questo ebraismo non connotato da segni forti e còlto invece a un’insolita profondità. Sarebbe bello, non meno che importante. Ma un teleromanzo è un teleromanzo, non ha respiro letterario né sviluppo cinematografico, obbedisce alle regole di una narrazione per frammenti e ai tempi indotti da un’attenzione precaria. Passa e va, lasciando dietro di sé una traccia debole. D’accordo, direte, ma per quanto ci riguarda, cosa sarà rimasto in chi l’ha visto in parte o per intero, gli stereotipi o la percezione di una vicinanza, qualcosa o niente? Non è questa, a mio parere, la domanda su cui posare l’attenzione. Il seme di discussione è piuttosto un altro, ed è all’ordine del giorno: il piacere e dispiacere, il valore e disvalore dell’essere “rappresentati”.

Mara Cantoni