Il segno di Amos Oz (1939-2018)
“Tocca a noi custodire le sue parole”

Uno dei momenti più emozionanti della letteratura israeliana è senza dubbio il passo in cui Amos Oz – Klausner ricorda la sera in cui si attendeva il destino della possibile nascita dello Stato ebraico. Era il novembre 1947 e Amos era ancora un bambino. Nel quartiere Kerem Avraham di Gerusalemme, come anche a Tel Aviv e a Haifa erano tutti incollati alla radio, che trasmetteva da Lake Success i risultati della votazione delle Nazioni Unite in merito alla costituzione dello Stato di Israele. Amos, un ragazzino con il nome impegnativo di un profeta, si sveglia, si appoggia al davanzale della finestra e guarda la strada, in cui i vicini, gli amici e i genitori seguono in trepidante attesa la voce gracchiante che arriva d’oltreoceano. “Trentatré a favore. Tredici contro. Uno stato assente dall’assemblea. Dieci astenuti. La proposta era accolta. Dopo due o tre secondi di sbigottimento…Gerusalemme scoppiò in un primo urlo tremendo… un grido di cataclisma”, leggiamo in Una storia d’amore e di tenebra. Lo Yishuv che attendeva con nervosismo il ritiro delle forze inglesi dalla Palestina Mandataria fu travolto dalla gioia e dalle danze, in una strana “situazione di euforia mescolata all’incertezza”, come scrive Tom Segev nella sua biografia di David Ben Gurion dal titolo Uno stato ad ogni costo (Keter, 2018). L’Oz adulto, ormai scrittore di fama internazionale e insignito di premi prestigiosi in tutto il mondo, ci fa rivivere l’emozione e la felicità di quella sera, pur consapevole del silenzio gelido che salì dai quartieri arabi della città. Nella sua lucida analisi della società e del centenario conflitto arabo-israeliano, non ha mai dimenticato la pulizia etnica subita dagli abitanti ebrei della Terra di Israele, prima e durante la guerra d’Indipendenza e ha sempre affrontato la spinosa questione dei profughi palestinesi, sprofondati in una situazione di massima precarietà, abbandonati dagli Stati arabi e strumentalizzati dagli attori occidentali. Ma in quella notte passata alla storia, Amos aveva ascoltato le voci del suo popolo, unite nel canto Am Israel Hai! e le parole diventeranno il suo modo per misurarsi con la vita: le parole di sua madre, poetessa, che si suicida tre mesi prima del suo bar mitzva; le parole del padre, un dotto bibliotecario e quelle dello zio Yosef Klausner accademico e illustre letterato; le parole dell’amata maestra, la poetessa Zelda Schneerson, che più di chiunque altri lo accompagna lungo il cammino delle Lettere. Oz racconta storie di famiglia, di quel nucleo tanto prezioso quanto fragile, con cui un uomo e una donna sono costretti a confrontarsi. Le famiglie, come diceva Lev Tolstoj, romanziere da lui amato, sono per lo più infelici e comunque su quelle felici non c’è nulla da raccontare. Tra i personaggi creati da Oz, profondamente immersi nel quotidiano israeliano, ve ne sono alcuni davvero indimenticabili, come Gheula (in ebraico ‘redenzione’), una giovane del kibbutz irrequieta e segnata da un tragico destino, che compare nei primi racconti I paesi dello sciacallo, pubblicati nel 1965; Hanna, protagonista di Michael mio, che conduce una vita monotona a fianco al marito geologo e di nascosto si immagina rapita da due gemelli arabi che vivono nella zona selvaggia intorno alla Gerusalemme urbana; Ivria – ‘ebrea’, melanconica figura del romanzo Conoscere una donna, che sogna una vita diversa e lontana dal “Noi” opprimente nell’apparente idillio con il marito Yoel, agente del Mossad. Nella novella Il monte del cattivo consiglio, la madre bella e affascinante abbandona il figlio per l’ufficiale inglese e la stessa madre in Una storia di amore e di tenebra, sogna la leggerezza di Tel Aviv e l’incanto della poesia. Le donne e i figli sono al centro della sua produzione, così come della letteratura israeliana negli anni Settanta e Ottanta, in cui raffigurano il passaggio dalla società combattente della generazione del Palmach alla normalità dello stato consolidato, ma al tempo stesso narrano la fragilità di figli e nipoti dei sopravvissuti alla Shoah, i drammi della gente uscita dalle baraccopoli e la crisi del kibbutz. Le voci femminili dei romanzi di Oz sono tante e diverse e spesso riflettono con chiarezza la storia dei grandi uomini di Israele; basti pensare alle due giovani donne dello straordinario romanzo Giuda (2014): Yardena, la ex fidanzata e Atalia, l’amante irraggiungibile. Eppure i suoi ritratti hanno suscitato aspre critiche e Amos Oz è stato accusato di chauvinismo, femminismo e razzismo. Oz, figlio letterario dei giganti della letteratura e della poesia ebraica come Shai Agnon, Yosef Haim Brener e Micha Josef Berdyczewski, ha assimilato nei suoi racconti la figura dello sradicato, dell’israeliano sabre fiero ma poco tollerante e spesso incline al fanatismo e del giovane dei tempi moderni che si perde nell’oriente mentre cerca la spiritualità e la saggezza che si trovano nella sua libreria scolastica tra le pagine del Midrash o nelle poesie di Haim Nachman Bialik (Lo stesso mare 1988). Oz, professore di letteratura all’università di Beer Sheva, era ironico e tagliente, amava molto Puskin, Dostoevskij, Falkner e Camus e si interessava di storia, arte, lingua e psicologia. Ogni situazione era potenzialmente terreno fertile per le sue creazioni ed era solito dire che la cosa più bella per uno scrittore è sedersi in un caffè e ascoltare le conversazioni, annotare nel taccuino frasi e situazioni e trasformarle in un’emozione per i lettori. Amava Israele ed è stato uno dei migliori e sinceri critici della politica dello stato ebraico e proprio per questo è stato accusato di tradimento. Era amico di Peres e da giovane aveva conosciuto Ben Gurion. E quando incontrava il pubblico per parlare dei propri libri, parlava con grande ammirazione della moglie Nili, con cui ha condiviso piu’ di cinquant’anni. Ma il dono più bello che ci ha lasciato è il suo amore per la lingua ebraica, la lingua che per secoli ha unito un popolo disperso tra le nazioni del mondo. Nel 2014 è uscito il suo saggio Gli ebrei e le parole, scritto a quattro mani con la figlia Fania Oz-Salzberger, storica delle idee e giurista, professore all’Università di Haifa. Si tratta di un testo serio, frutto di due menti ironiche e laiche che amabilmente accompagnano il lettore, cittadino dell’America o dell’Italia, lungo i sentieri del pensiero ebraico. È un libro nato per conoscere una nazione che si nutre di parole, il cui vocabolario millenario è un lungo percorso di know how funzionale, atto a stringere un forte legame tra identità, luoghi e storia comune, spesso divisa e conflittuale. Ci ha lasciati un grande scrittore e ora siamo noi i custodi del suo ricco Pardes di opere.

Sarah Kaminski, Università di Torino
Pagine Ebraiche, febbraio 2019