Controvento – Tesoretto cognitivo

Viviana KasamSi può ritardare l’invecchiamento del cervello e il conseguente indebolimento delle capacità cognitive?
Le più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze puntano sulla plasticità cerebrale: ovvero la possibilità di moltiplicare le sinapsi, cioè le reti di collegamento fra i neuroni, controbilanciando la fisiologica perdita dei neuroni dovuta all’invecchiamento.
Ogni nuovo gesto, ogni nuova conoscenza, ogni nuova abilità, creano nuovi collegamenti sinaptici. Potremmo pensare a una foresta che ha meno alberi ma più fronde, perché nel tempo i rami sono cresciuti e formano ombrelli più estesi.
Questa ipotesi è confermata da una nutrita casistica di persone molto attive intellettualmente che, pur affette da Alzheimer o demenza senile, sviluppano molto più lentamente i sintomi.
“Emblematico è il caso di un anziano professore di Londra soprannominato ‘lo scacchista’, che invecchiando notò che invece di calcolare in anticipo sette mosse del gioco, riusciva a prevederne solo quattro” racconta la giornalista scientifica Johann Rossi Mason, autrice dell’interessante saggio Cervello senza limiti: la prima inchiesta italiana sul potenziamento cerebrale (Codice Edizioni). “Si rivolse allora l’Istituto di neurologia del University College di Londra e dopo una batteria di test cognitivi per individuare se ci fosse un deterioramento, fu rimandato a casa senza diagnosi di malattia. Quando qualche anno dopo il professore morì, l’autopsia rivelò che il suo cervello era pieno di placche e di aggregati neurofibrillari tipici dell’Alzheimer: il professore era affetto da una forma di demenza senile avanzata, ma per anni non aveva mostrato alcun sintomo della malattia”.
I dati sono stati confermati da numerosi ricercatori, tra cui Robert Katzman che nel 1988 pubblicò sugli Annals of Neurology il resoconto degli esami post mortem dei cervelli di 137 persone anziane. Lo studio rivelava che negli individui intellettualmente attivi c’era una notevole discrepanza tra lo stadio della malattia di Alzheimer e le manifestazioni sintomatiche indicate dalle loro cartelle cliniche.
Johann ha coniato un termine per definire questa maggiore resistenza delle facoltà cerebrali: il tesoretto cognitivo. “È una riserva cognitiva che agirebbe come una sorta di “buffer”, di tampone -spiega – ritardando le manifestazioni più evidenti del degrado cerebrale attraverso lo sviluppo di strategie di compensazione”.
Quali sono questi fattori di protezione? Il grado di istruzione, il mantenimento di attività intellettuali (anche i semplici esercizi di memoria sono efficaci: dalla parole incrociate alla soluzione di rebus, al Sudoku, a giochi più complessi come il bridge e gli scacchi, o ai programmi di Brain Training: l’importante è tenere il cervello allenato).
Dovremmo spesso compiere gesti nuovi: per esempio, per chi è destrimano, lavarsi i denti o spazzolare i capelli con la mano sinistra, e apprendere nuove attività, anche semplici, come il lavoro a maglia o l’origami, oppure applicarsi a risolvere il Risiko.
Il mantenimento di una attività lavorativa, anche non retribuita, è fondamentale. Le persone che vanno in pensione e non fanno più nulla sono quelle più a rischio di depressione e demenza.
Recentissimi studi, dei quali già abbiamo parlato in questa rubrica, hanno dimostrato l’effetto benefico del volontariato e del mecenatismo per il mantenimento delle capacità cognitive. Impegnarsi per gli altri, sia con il proprio tempo o con le proprie risorse, fa crescere il senso di autostima, di utilità sociale e di benessere.
Importantissimo è l’esercizio fisico: non solo perché rafforza i muscoli ma anche perché porta grandi benefici al cervello, migliora le prestazioni, l’attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni e il funzionamento esecutivo. Camminare ogni giorno, almeno un paio di chilometri, è essenziale per tutti. Yoga e Pilates sono le attività fisiche più indicate per gli anziani, perché potenziano l’elasticità dell’apparato muscolare, prevenendo fratture e indolenzimenti E la meditazione, se praticata regolarmente, aiuta la concentrazione e rigenera il cervello.
Infine, la dieta. Mio padre che è arrivato a cento anni in ottima forma fisica e mentale, sosteneva che il merito era tutto nella sua frugale alimentazione. Niente fritti, niente salse, niente intingoli, nessun grasso cotto. Verdure lessate, composta di frutta, pollo o salmone bollito. E mezzo bicchiere di vino a pasto. La celebre Mayo Clinic ha coinvolto 1.233 persone di età compresa tra i settanta e gli ottantanove anni in una ricerca su dieta e longevità. I partecipanti dovevano riportare su un questionario la quantità di calorie assunte. Seguendoli nel tempo, è emerso che le probabilità di subire un lieve deterioramento cognitivo erano più che doppie per le persone del gruppo che consumava più calorie rispetto ai morigerati.
Fin qui, i metodi naturali. Ma oggi si sente parlare sempre più spesso di integratori alimentari e farmaci che dovrebbero potenziare l’intelligenza, la capacità di mettere a fuoco le idee, migliorare l’acutezza mentale, la velocità di pensiero e la funzionalità del cervello. Sono i cosiddetti nootropici, e sul mercato se ne trova una vasta gamma, venduti senza bisogno di prescrizione medica. Il libro di Johanna Rossi Mason li analizza, arrivando a conclusioni che personalmente mi spaventano. “Tutti vorrebbero avere un supercervello” spiega l’autrice. “E si stanno diffondendo sempre di più farmaci, ormoni, integratori che promettono di migliorare le capacità di apprendimento, aumentare la memoria, annullare la fatica, rimandare l’invecchiamento del cervello: dai laboratori di ricerca e dal mondo accademico si diffonde la cultura del potenziamento cognitivo. Studenti, militari, piloti, medici, scienziati si trasformano in individui ad ‘alto funzionamento’, capaci di scrivere o lavorare per 20 ore consecutive senza accusare fatica. E anche in Italia esiste un consumo di queste sostanze, come dopamina, glutammato, noradrenalina, che possono migliorare la funzione cerebrale in individui sani oltre il loro limite fisiologico”. Ma quali sono gli affetti a lungo termine? Non rischiamo di trasformarci in drogati cognitivi, a scapito di sentimenti, emozioni, di quella lentezza che è la fonte della saggezza? Una cosa è un cervello tenuto in forma con l’attività fisica e intellettuale, con uno stile di vita sano, con la ricchezza di rapporti emotivi. Un’altra è la performance a tutti i costi, che rischia di fare di noi degli automi superperformanti ma chiusi in noi stessi, come monadi senza porte e senza finestre.

Viviana Kasam

(6 gennaio 2020)