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6 agosto 2015 - 21 Av 5775
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav


Elia Richetti,
rabbino
Dopo aver elencato ed abbondantemente esemplificato gli innumerevoli segni dell’attenzione e dell’amore divino per Israel, Moshè osserva: “We-‘attà Israel, ma Ha-Shèm E-lokékha sho’èl me-‘immàkh, ki im le-yir’à eth Ha-Shèm E-lokékha?”, “Ed ora, Israel, che cosa il Signore tuo D.o ti chiede, se non di venerare il Signore tuo D.o?”.
Rashì spiega questo verso sottolineando che nonostante tutto ciò che gli ebrei hanno fatto di male, tuttavia Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ Si accontenta del semplice rispetto dell’impegno a venerarLo ed amarLo, e non chiede particolari atti di contrizione o penitenza.
 
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
Mi è sembrata insufficiente la reazione dei rabbini in Israele e nel mondo di fronte agli abbietti omicidi perpetrati nei giorni scorsi da alcuni giovani israeliani nei confronti di un infante arabo in un villaggio della Cisgiordania e di una ragazza ebrea nelle strade di Gerusalemme. Gli uccisori, così come l’assassino del primo ministro Rabin nel 1995, erano o erano stati tutti allievi di accademie rabbiniche, o presunte tali, agivano in nome di principi che, a loro dire, derivavano dalla tradizione ebraica, e si prefiggevano obiettivi dettati, sempre a loro dire, dalle norme dell’ebraismo. In sintesi, il programma degli assassini e delle altre (non molte) migliaia di persone che sono accomunate nella stessa ideologia, è lo stabilimento di uno stato fondato sull’applicazione integrale della halachah (il diritto ebraico tradizionale) su tutto l’antico territorio storico della Terra d’Israele, qualunque esso sia, e senza alcuna esclusione di mezzi, compreso l’omicidio.
Gli ultimi sanguinari episodi sono stati condannati dai capi-rabbini di Israele Yizhak Yosef e David Lau insieme a molti altri noti rabbini israeliani di diverse correnti e a diversi rabbini italiani. Da una quindicina di voci autorevoli raccolte in internet emergono queste direttrici di pensiero: “Gli autori dei delitti sono dei criminali. Sono atti feroci e senza logica. Preghiamo per la salute e il pronto ricupero dei feriti. Questa barbarie va condannata. Condanniamo il sangue versato dagli assassini in nome della religione. Questi comportamenti sono contrari a qualsiasi valore ebraico. È impensabile che un uomo sollevi la sua mano contro l’anima di un altro ebreo in nome della religione. Chiunque sia coinvolto in spargimenti di sangue non ci rappresenta. La Legge del Popolo d’Israele è contro la violenza e a favore della vita. Nell’ebraismo il valore della vita sta al di sopra di ogni altra cosa. La Torah dice non uccidere. Ci sono persone che compiono azioni due volte criminali: uccidono e lo fanno nel nome di D.o, che ci comanda di non farlo. Guai a coloro che sono vergogna per la Torah e il popolo di Israele. Dobbiamo riflettere sulla responsabilità individuale e collettiva. Gli errori del nostro popolo ci procurano dolore più degli errori di altri popoli. Anche quanto non siamo d’accordo dobbiamo trovare una via per esserlo in modo rispettoso e dobbiamo evitare a ogni costo situazioni che portino al versamento di altro sangue. Richiamiamo l’intero popolo ebraico a tornare all’unità in uno spirito di gentilezza e di tolleranza. Le parti coinvolte devono maturare la consapevolezza che non vi è né vi può essere altra soluzione al di fuori del dialogo”.
Tutte queste parole sono giuste, nobili e di grande buon senso, ma avrebbero potuto essere proposte da un quasiasi bravo giornalista oppure da un onesto docente universitario. Dal rabbinato ci aspettiamo qualche cosa di diverso e di più. E più in particolare pretendiamo tre cose. La prima è che venga sviluppata con ben maggiore profondità l’analisi del punto di vista ebraico sugli atti criminali commessi e sulle loro aberranti premesse ideologiche. La seconda è una condanna esplicita e senza attenuanti nei confronti di quelle specifiche scuole rabbiniche all’interno delle quali e su istruzione dei cui maestri sono maturati gli infami assassini. E la terza è una chiara e non equivoca specifica delle sanzioni e delle pene alle quali, secondo il diritto ebraico, devono essere sottoposti i vili criminali che nello stroncare giovani vite innocenti hanno infamato l’immagine di tutto il popolo ebraico e di tutto lo stato d’Israele.
 
Obama sull'Iran:
"Accordo evita la guerra”
L'alternativa all'accordo siglato tra le potenze occidentali e l'Iran è la guerra. “Magari non domani, neanche tra qualche mese, ma certo abbastanza presto”, ha avvisato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, difendento l'intesa raggiunta poche settimane fa sul nucleare iraniano e chiedendo al Congresso americano, che dovrà votarlo a settembre, di non affossarlo. Come sottolineano i quotidiani oggi, Obama ha scelto lo stesso palco – quello dell'American University di Washington – da cui John F. Kennedy nel 1963, in piena Guerra Fredda si schierò a favore della pace e dei negoziati con i sovietici per evitare il conflitto sul campo. Lo stesso Obama ha richiamato quel discorso e difeso la sua scelta con l'Iran, “sostenendo che l’accordo è la soluzione migliore per impedire alla Repubblica islamica di costruire l’arma atomica, perché blocca l’arricchimento, elimina le scorte di materiali nucleari prodotti finora, e crea un sistema di controlli che consentirà di capire subito se gli iraniani imbrogliano” (La Stampa). Il presidente americano ha poi cercato di rassicurare Israele, affermando di capire le preoccupazioni del suo premier, Benjamin Netanyahu, ma definendole sbagliate. Secondo la Casa Bianca l'accordo non solo eviterebbe un guerra con il regime degli Ayatollah ma l'auspicio è che la “normalizzazione dei rapporti possa portare a un ruolo attivo di Teheran nel risolvere la crisi siriana e battere lo Stato Islamico” (Repubblica). “Non ci fidiamo di loro. Questa è la chiave dell'accordo”, spiega a Repubblica l'ex segretario Usa Madeleine Albright: “L'importanza di cio che è stato firmato non è nella fiducia ma nelle verifiche e nel fatto che è un accordo multilaterale, non solo con gli Stati Uniti, e che coinvolge l'Onu”.

 
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  davar
israele - il messaggio di rivlin a netanyahu
"Lo scontro con gli Usa sull'Iran è un danno per il nostro Paese"
Non fare una battaglia contro gli Stati Uniti sull'accordo iraniano che danneggi Israele. È il messaggio diretto al primo israeliano ministro Benjamin Netanyahu dal presidente dello Stato ebraico Reuven Rivlin. In una serie di interviste rilasciate ai quotidiani nazionali, Rivlin ha invitato Netanyahu ad evitare lo scontro con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, perché rischia di recare danno e isolare Israele. “Sono molto preoccupato del fronte che si è creato tra Obama e Netanyahu – ha affermato Rivlin parlando con il quotidiano Maariv – Il primo ministro ha intrapreso una campagna contro gli Stati Uniti come se le due parti in gioco fossero uguali e questo rischia di danneggiare Israele”. Negli scorsi mesi Rivlin non ha nascosto la sua contrarietà all'accordo siglato dalle potenze occidentali con il regime degli Ayatollah, condividendo in parte le posizioni di Netanyahu, non però, come risulta dalle ultime dichiarazioni, la strategia adottata dal premier per bloccare l'intesa.  “Devo dire che (Netanyahu) capisce gli Stati Uniti meglio del sottoscritto – ha spiegato il presidente israeliano ai giornalisti – nonostante questo al momento siamo largamente isolati dal mondo”.
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QUI NEW YORK - IL RICORDO DEL CICLISTA EROE
Nel nome di Ginettaccio
"C’è un ponte che parte da New York e arriva fino a Firenze. E su quel ponte torna a correre Gino Bartali”. Sulle pagine fiorentine del Corriere della sera l’avvincente racconto di come un giovane ebreo americano, Jonathan Freedman (nell’immagine), è riuscito a costituire un team di ciclisti che correranno negli Stati Uniti per diffondere i valori e la profonda umanità testimoniati dal ciclista Giusto.
Una squadra di volontari, si racconta, costituitasi nel solco delle storie emerse dopo la campagna per la raccolta di nuove prove lanciata sul mensile Pagine Ebraiche dal giornalista Adam Smulevich e dalla psicologa Sara Funaro, attuale assessore del Comune di Firenze al Welfare. Due i testimonial d’eccezione: l’ex maglia gialla George Hincapie e Christian Vande Velde, quarto al Tour del 2008. Entrambi indossano la maglia del “Team Bartali” e partecipano oggi a un evento benefico in New Jersey a favore dei bambini malati di cancro.
“Bartali è stato uno straordinario campione del Novecento – racconta Smulevich al Corriere – un uomo che ha segnato la storia dello sport italiano ed europeo. Commuove che ci siano persone che, di là dall’Oceano, spinte da forti valori e concretezza, riescano a portare avanti azioni così significative”.
A colpire Freedman anche la storia di Giorgio Goldenberg, il giovane ebreo fiumano che fu nascosto assieme ai suoi cari in una casa di via del Bandino, prima periferia di Firenze. Raggiunto anche grazie all’intermediazione di Nardo Bonomi, Giorgio avrebbe rivelato il suo segreto a Pagine Ebraiche. Era il dicembre del 2010 e Goldenberg affermava: “Se sono vivo lo devo a Bartali”. Le sue parole avrebbero presto fatto il giro del mondo.
Nuovi omaggi sono intanto in vista nel capoluogo toscano. Come ci anticipa Silvia Costantini, vicepresidente della fondazione dedicata all'eroico diplomatico svedese Raoul Wallenberg, l’aeroporto cittadino Amerigo Vespucci accoglierà prossimamente un contributo artistico in ricordo del ciclista, che sarà posto all'ingresso della struttura.
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Mostre - Tel Aviv 
I colori dell’ebraismo
Le tinte sono brillanti e si mescolano senza incertezza, gli occhi, a forma da pallone da rugby, sembrano usciti da un cartone animato. Ci sono uomini con tuniche, colbacchi di pelliccia, camicie a mezze maniche e turbanti bianchi e azzurri. Donne con lunghe trecce bionde e dispettosi fenicotteri rosa riempiono la tela. Questi sono tutti i colori dell’ebraismo, gli “United Colors of Judaica”, protagonisti della mostra temporanea a firma dell’artista franco-tunisino Eliahou Eric Bokobza che sarà possibile visitare fino al prossimo 28 gennaio al Beit Hatfutsot, il museo di Tel Aviv, che racconta la storia e l’evoluzione del popolo ebraico.
“United Colors of Judaica” è concepito in tre sezioni tematiche: La Famiglia, le feste e il ciclo della vita. La Famiglia altri non è che un tavolo apparecchiato con sedie e 13 piatti decorati. Dentro i piatti, decorati con acquerelli e inchiostro giapponese, spiccano altrettanti volti dalle fattezze diverse e copricapi tradizionali. Un tavolo, che può essere identificato sia come quello del Seder di Pesach o dello Shabbat, che è il simbolo della vita ebraica vissuta intensamente; consumata nell’intima dimensione domestica del pasto, tra piccoli drammi familiari, chiacchiere condivise e rituali millenari. A corredare il tavolo, tre alberi genealogici da fumetto che descrivono i legami parentali frutto della stessa eredità di Bokobza.
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jciak
Tikkun e la rinascita impossibile 
Se torno a nascere… È uno di quei pensieri capaci di assediarci la mente. Ma se davvero potessimo ricominciare, che cosa faremmo?
Ruota attorno a quest’interrogativo “Tikkun”, ultimo bellissimo lavoro di Avishai Sivan che, dopo aver spuntato il premio come miglior lungometraggio al Jerusalem Film Festival, martedì è in concorso internazionale al festival di Locarno. Il film prende spunto dal termine ebraico ‘tikkun’, che indica la correzione o il miglioramento, e mette in scena un’impossibile seconda opportunità, resa ancora più drammatica dal mondo ultraortodosso di Mea Shearim in cui l’intera storia si dipana e dalla crudezza di alcune scene.
“L’ebraismo sostiene l’idea della reincarnazione, la credenza in un ciclo dell’anima, nel ritorno al mondo dopo la morte biologica”, spiega il regista. “Tikkun è l’anima che torna al mondo dei vivi per correggere una questione irrisolta nella sua vita passata e redimersi prima di muovere verso il prossimo mondo”. Il film narra la storia di Haim-Aron, studente di yeshiva brillante e destinato a un grande futuro. Una sera sviene durante un digiuno che si è autoimposto e perde conoscenza. I paramedici lo danno per morto, ma il padre – interpretato dal bravo Khalifa Natour, attore arabo israeliano – cerca in tutti i modi di rianimarlo.

Daniela Gross
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  pilpul
Setirot - Silenzio
Sbigottito e profondamente lacerato dall’uso ideologico che del dolore di questi ultimi giorni è stato fatto da molte parti, chiedo scusa al direttore, alla redazione e ai lettori di questo notiziario, ma l’unica cosa che mi sento di fare è tacere. Silenzio e rispetto per i lutti altrui. Ognuno parli con la propria coscienza.

Stefano Jesurum, giornalista

Sei sensi
Allora ti dirò solo questo: se Dio esiste, ha molte ragioni per essere triste. E se non esiste, secondo me anche questo Lo rattrista non poco. Insomma, per rispondere alla tua domanda, Dio deve essere triste” (Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, p. 97).
Un posto particolare occupa “Ogni cosa è illuminata” nel personalissimo mio ‘Lessico famigliare’ imbastito di neologismi, espressioni infantili (non nel senso negativo che attribuiamo scioccamente noi adulti ma: ‘formulate da bambini’), gergo memoriale e citazioni dai classici – e per classici intendo, alla Calvino, quei libri che non ci si accontenta di leggere ma si rileggono ancora e ancora, che arricchiscono e influenzano il modo di sentire e di pensare e dunque di vivere, che continuano a parlarci e ogni volta in modo un po’ diverso e nuovo, e assaporarli è sempre una gioia inedita; quei libri che non ci lasciano mai indifferenti e risuonano in noi nel proseguo della nostra vita.
Perché, come scrive ancora Jonathan Safran Foer, gli ebrei hanno sei sensi e il sesto senso è la memoria. La prima parola delle Asseret Ha Dibberot non dice infatti semplicemente che dobbiamo ricordare D-o ma specifica che Io sono il Signore D-o tuo che ti fece uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi: dobbiamo allora ricordare il dono della libertà che ci ha fatto D-o.
Noi siamo dunque memoria, memoria di libertà, accettando la quale accettiamo la Legge che ci dona D-o con la Sua Torah e ci facciamo popolo. Questo Patto inciso su pietra tra Am Israel e D-o, ci insegna la Mishnah è sì Harut, inciso ma anche Herut, libertà (Avot 6:2). Forse cerchiamo oggi il libero accordo con D-o non nella pietra incisa, ma nel provare a farci una realtà sacrale di preghiere e di testi, rivolti a D-o e volti a raffigurare il mondo e la nostra comprensione di esso, la creazione dei Cieli e della Terra e la necessità di consolarci e di consolare D-o della sua tristezza.
Opere che noi scriviamo, testi, nel senso etimologico di textus, intessuto e intrecciato: filare il legame tra significante e significato, tra noi e D-o che ‘prima’ ci ha liberato dall’Egitto e ‘poi’ ha creato il mondo, senza possibilità di logica temporale.
“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato”, esordisce Alex scrivendo a Jonathan (Safran Foer) anzi Jonfen, e riferendosi (credo io) alla luce della Presenza divina che dà senso a quanto è stato, ci aiuta ad accettare gli accadimenti e a provare a vivere al meglio il presente.
Per farlo abbiamo la preghiera, ma anche la poesia, la scrittura, l’arte, il tessere lode al Creatore e dirGli che cerchiamo di portare avanti in qualche modo, sbagliando anche e ritornando sui nostri passi, il Tikkun Olam.
Ognuno come può; Jonathan Safran Foer raccontando l’amore e il dolore del passato e la faticosa certezza che l’unico modo di vivere davvero è essere coerenti con noi stessi; l’artista Grisha Bruskin con il ciclo Alefbet, perché esprimersi intessendo arazzi tiene insieme trama e ordito, tessuto e tessitura, le scintille di luce cadute nella Creazione del mondo e il nostro tentativo maldestro e imperfetto di riportare nei Cieli quelle scintille.
I tappeti di Bruskin diventano quadri, e i quadri sono animati di lettere e di figure, ognuna dotata di un particolare significato religioso e mitologico e allineata alle altre fuori dal continuum temporale, perché la Torah c’era già prima di tutto.
Nei cinque arazzi, si dispiegano così diversi personaggi (per la precisione centosessanta, ma potrebbero essere molti di meno o molti di più) costituiti da coppie umane, demoni e angeli, uomini in preghiera o accompagnati da simboli, a costituire un vocabolario della memoria del Popolo Ebraico in dialogo con D-o, fuori dal tempo e dalla Storia ma illuminato dalla Shekinah e dalla luce del passato. Popolo che ha il dovere della memoria, scolpita sulla pietra, even / av, ben di padre in figlio, di generazione in generazione.
E immagino (o forse sogno): negli angeli che risalgono la scala vista da Jakov c’è l’uomo che cerca D-o e vuole consolarne la tristezza. E immagino, o forse sogno, di risalire un poco la scala dietro agli angeli, soffiando verso il cielo una delle centosessanta figure prese dagli arazzi di Bruskin, il quale spero non me ne vorrà: l’uomo la cui testa si dissolve nello sfondo dell’arazzo, perché al posto del viso egli è solo luce, purificato e pronto ad incontrare D-o: “Se salgo nei Cieli, tu sei lì, e se scendo nello Sheol, eccoti laggiù. Se prendo le ali dell’alba e vado ad abitare le estremità occidentali del mare, anche qui la tua mano mi guiderà e la tua mano destra mi afferrerà” (Tehillim 139:8-10).


Sara Valentina Di Palma

Time out - Limiti
Qual è il limite alla libertà d'espressione? Mi è stato chiesto in queste pagine quando, due settimane fa, ho dissentito dal Presidente Ucei Renzo Gattegna sulla sua relazione sui dati dell'8 per mille. Ho semplicemente spiegato che, in assenza di dati scientifici, fosse difficile dire che il merito fosse della comunicazione Ucei. Nulla di più, nulla che togliesse il merito al lavoro dei professionisti che ci lavorano. Di lì il finimondo. È arrivata una risposta intimidatoria e calunniosa in cui si è detto che "anteponevo al bene comune le fortune di amici e delle loro aziendine". Come a dire che ho degli interessi economici che mi spingono a prendere alcune posizioni che antepongo al bene dell'ebraismo italiano. Allora ripartiamo dalla prima domanda: qual è il limite alla libertà d'espressione? È giusto essere insultati dal direttore di una testata ebraica solo perché si dissente dal suo datore di lavoro? Siamo sicuri che poi l'editore sia il presidente Ucei e non invece l'ebraismo italiano che merita invece di difendere il diritto alla sua pluralità? Sono domande legittime che spero non scatenino altre intimidazioni che mirano a ridurre le opinioni diverse in interessi economici privati che, se qualcuno conosce vorrei, che fossero resi noti a tutti. Insomma quale vantaggio economico traggo dal dire che Progetto Dreyfus fa uno straordinario lavoro e perché sarebbe un'azienda visto che è una Onlus? Tutte domande meritevoli di risposta che, di fronte a tante insinuazioni, meritano di essere considerate come il mio diritto di replica; sottolineando che se ho aspettato una settimana in più a rispondere è solo perché speravo che arrivassero delle scuse sincere, perché a volte può capitare di esagerare con le parole. Tutto questo non c'è stato, e neanche l'editore ha scelto di intervenire di fronte a un'accusa gravissima nei confronti di un consigliere di una comunità ebraica italiana. Come a dimostrare che sappiamo parlare tanto di valori come diversità e pluralità purché non diano troppo fastidio. Questa è stata la mia colpa e per questo qualcuno ha cercato di intimidirmi senza però riuscirci. Ora il problema però è dell'ebraismo italiano che pare accetti questo come metodo di confronto. Poveri noi, mi viene da dire.

Daniel Funaro

Come tutti possono quotidianamente constatare, la redazione sollecita, rispetta e valorizza la libertà d’opinione e pubblica migliaia di opinioni ogni anno provenienti dalle persone e dalle prospettive più diverse. Per questo motivo le opinioni di Daniel Funaro, così come quelle di molti altri, vengono regolarmente pubblicate e sono apprezzate come un importante contributo che non tutti, ovviamente, sono obbligati a condividere. La mia replica a un suo scritto di alcuni giorni fa voleva esclusivamente avvertire il lettore che le tesi esposte si basavano in quella occasione su affermazioni certo degne di pubblicazione, ma che apparivano gravemente mistificatorie. Il tono brusco e scortese con cui nella concitazione del lavoro quotidiano ho espresso tali perplessità era del tutto fuori luogo e devo pregare Daniel di accogliere le mie scuse. Così come tengo a precisare, se ce ne fosse il bisogno, di non aver mai inteso dire che nell’esprimere le sue opinioni questo collaboratore coltivasse interessi personali. Le perplessità espresse in quella replica, per contro, restano a mio avviso ben fondate.
 
gv




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