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Speciale 17 gennaio 2016 - 7 Shevat 5776
PAGINE EBRAICHE 24

davar
la visita di bergoglio al tempio maggiore di roma
Le parole dell'incontro
Volge al termine la visita di Bergoglio al Tempio Maggiore di Roma. Terzo pontefice a varcare la soglia della sinagoga capitolina, Bergoglio ha salutato i presenti ringraziando per l'accoglienza in ebraica, "todà rabà" "voi siete i nostri fratelli e sorelle maggiori nella fede". Un discorso, quello del papa, coraggioso e molto applaudito. “La violenza dell’uomo sull’uomo è incompatibile con qualunque religione, tantomeno con le tre grandi fedi monoteistiche. La vita è sacra, dobbiamo portare avanti la logica della pace e del perdono”, ha affermato Bergoglio ribadendo in modo fermo e deciso il “no a ogni forma di antisemitismo”. Nel corso della visita, il pontefice si è fermato per rendere omaggio davanti alla lapide che ricorda la razzia nazifascista del 16 ottobre 1943. “La Shoah - ha affermato - ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace”.
Di seguito i discorsi tenuti al Tempio Maggiore dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, dal presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dal presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello.


Benvenuto, papa Francesco,
nel Tempio Maggiore di Roma; nel luogo che fu edificato a segno della libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni; nel luogo visitato da re, presidenti, ministri; offeso dai nazisti e insanguinato dal terrorismo palestinese; ma soprattutto nella casa di preghiera in cui gli ebrei romani hanno celebrato e continuano a celebrare i
momenti più importanti della loro vita privata e collettiva. Oggi il Tempio accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, consuetudine fissa. E’ decisamente il segno concreto di una nuova era dopo tutto   quanto è successo nel passato. La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquanta anni fa è stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima di un mese fa, che hanno   prima aperto e poi consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di collaborazione. 
A ricevere papa Francesco è la Comunità ebraica di Roma. Lo accogliamo nella consapevolezza di essere una comunità di fede con una vocazione antica e sacra, che, come fu promesso ad Abramo, invoca la benedizione su chi ci benedice. Nel nostro pubblico è qui presente la memoria   storica della comunità, gli ormai purtroppo pochi sopravvissuti agli orrori dei campi di sterminio, i feriti degli attentati terroristici, ma anche i testimoni e i protagonisti dell’intensa vita organizzativa e religiosa di questa nostra comunità, che non solo resiste alle seduzioni del tempo ma investe le   sue energie in una crescita spirituale e sociale fedele agli antichi insegnamenti. Una dimostrazione bella e costruttiva di testimonianza di valori in una società che stenta a trovare la sua strada. Insieme agli ebrei romani sono qui i rappresentanti dell’ebraismo italiano e dell’ebraismo mondiale, rabbini italiani, delegazioni rabbiniche israeliane e europee e rappresentanti del governo e dello   Stato d’Israele. E anche tante persone che lavorano attivamente per consolidare un rapporto di   amicizia tra le persone delle due fedi. Questo evento non è evidentemente limitato alla comunità ebraica geograficamente più vicina al cuore del cattolicesimo. E’ un evento la cui portata si irradia in tutto il mondo con un messaggio benefico.  
La visita di papa Francesco avviene all’inizio di un anno speciale per i cristiani, da Lui indetto. La Bibbia ha istituito il Giubileo, che il popolo ebraico non ha potuto più celebrare nelle forme prescritte perché legate a particolari condizioni storiche e politiche; ma l’idea originale della Torà   rimane comunque valida in quanto rappresenta un modello di rifondazione della società sulla base della dignità, dell’uguaglianza e della libertà. In ogni caso il popolo ebraico mantiene il conto degli anni sabbatici che moltiplicati per sette sono la base del Giubileo; nell’anno sabbatico -l’ultimo è   appena trascorso- la terra d’Israele deve riposare e i debiti vengono rimessi. Tra pochi giorni   festeggeremo il capodanno degli alberi, anch’esso collegato al ciclo agricolo della terra d’Israele. Tanti segni che ribadiscono il rapporto essenziale e religioso che abbiamo con la terra che ci è   stata promessa. Comprendere questo legame non dovrebbe essere una difficoltà per chi rispetta   la Bibbia, ma lo è ancora.  
In questi giorni in cui i cristiani celebrano con antichi riferimenti e nuovi significati un anno speciale   centrato sul tema della misericordia, non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura della porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte della giustizia”. Per un ebreo che ascolta, è qualche cosa di noto e famigliare, è la citazione del verso dei Salmi (118:19) pitchù li sha’arè tzèdeq, che noi citiamo nella nostra liturgia festiva. E’ un confronto interessante. L’evento della cristianità centrato sulla misericordia mantiene un rapporto con le origini bibliche, usa i versi dei Salmi, da cui riprende il tema della giustizia che è indissociabile dalla misericordia. E’ un segno di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune che entrambe considerano sacro. Questa divisione è un dato storico antico. Nelle diverse visioni può essere considerata un dramma, un enigma o un evento provvidenziale. Certo è che la divisione ha garantito la crescita di grandi patrimoni spirituali autonomi, ma ha portato anche ostilità, persecuzioni e sofferenze. Tutti attendiamo un momento chissà quanto   lontano nella storia in cui le divisioni si risolveranno. In che modo, ognuno ha la sua visione. Ma nel frattempo ciascuno, rimanendo fedele alla propria tradizione, deve trovare un modo di   rapportarsi all’altro. In pace e con rispetto. 
Alla luce di questo, credo che siano due i segnali principali da mettere in evidenza in questo   incontro di oggi. Il primo è quello della continuità. Il terzo papa a visitare la nostra Sinagoga   conferma la validità e l’intenzione del gesto del primo papa che voleva significare la rottura con un   passato di disprezzo nei confronti dell’ebraismo; l’intuizione di Giovanni Paolo II fu quella di   tradurre in gesti concreti e messaggi essenziali e comprensibili a tutti le difficili elaborazioni   dottrinali del Concilio. La sua visita alla Sinagoga ebbe questo ruolo e a sua volta aprì la strada per   il riconoscimento dello Stato d’Israele. Il papa successivo, Benedetto, ha voluto confermare questa   linea; ora la scelta di Francesco stabilisce una consuetudine. Interpretiamo tutto questo nel senso   che la Chiesa Cattolica non intende tornare indietro nel percorso di riconciliazione.   L’impegno personale di papa Francesco lo conferma, nei molti segni di attenzione che ha   dimostrato nei confronti dell’ebraismo, da Buenos Aires come arcivescovo a Roma come papa. Ora è qui con noi. 
Il secondo segnale di questa visita è dettato dall’urgenza dei tempi. Il Vicino Oriente, l’Europa e tante altre parti del mondo sono travagliate da guerre e terrorismo. La triste novità dei nostri giorni   è che dopo i due secoli di disastri prodotti da nazionalismi e ideologie la violenza torna a   scatenarsi alimentata e giustificata da visioni fanatiche ispirate dalla religione. E di nuovo si   scatenano persecuzioni religiose. L’impulso distruttivo, in assenza di altri riferimenti e scuse, trova nella religione il sostegno e l’alimento. Al contrario un incontro di pace tra comunità religiose   differenti, come quello che avviene ora a Roma, è un segnale molto forte che si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose.
Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica. Accogliamo il papa per ribadire che le differenze religiose, da   mantenere e rispettare, non devono però essere giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve   essere invece amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al servizio della collettività. Dobbiamo insieme far sentire la nostra voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle vittime. Ma non dobbiamo essere insieme solo per denunciare gli orrori; dobbiamo lavorare e collaborare nel quotidiano. La nostra comunità investe tutte le sue risorse per garantire il suo futuro ebraico ma vive questo impegno in un rapporto armonico con la società, in favore di tutti.  
Ieri in tutte le Sinagoghe del mondo abbiamo letto i capitoli del libro dell’Esodo che parlano dello   scontro finale tra Mosè, che chiede al Faraone di liberare gli ebrei dalla schiavitù, e il Faraone, che gli si oppone con tutti i suoi mezzi. Non abbiamo un Mosè che ci guida, né, per fortuna, un   Faraone da contrastare, anche se proprio la storia di questa Sinagoga dimostra che un re benevolo può trasformarsi in persecutore. Ma questa storia biblica, base delle nostre fedi, dimostra come la forza dello spirito riesce a trionfare e piegare anche i sistemi e i regimi più duri. Dobbiamo   avere la consapevolezza della nostra forza e la fiducia nella bontà dei nostri valori. E procedere insieme per affermarli, in pace. 
Abbiamo parlato di porte che si aprono. Vorrei citare, e condividere, per concludere, le parole   dell’invocazione che recitiamo ogni giorno alla fine della preghiera della ‘amidà, secondo il rito italiano: “che ci siano aperte le porte della Torà, della sapienza, dell’intelligenza e della conoscenza, le porte del nutrimento e del sostentamento, le porte della vita, della grazia, dell’amore e della misericordia e del gradimento davanti a Te”. “Che Ti siano gradite, o Signore, mia forza e mio redentore, le mie parole e l’espressione del mio cuore”

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma


Caro Papa Francesco,
è con spirito di profonda stima che Le porgo, a nome di tutte le Comunità Ebraiche Italiane, il più caloroso benvenuto.
Sono consapevole che lei viene in questo Tempio ad incontrare l’ebraismo italiano con il suo millenario carico di fede e di cultura, di dolore e di vita.
Questa sua visita giunge a rinsaldare ancor di più il cammino di dialogo, di amicizia e di fratellanza tra il popolo ebraico, il popolo dell’Alleanza, e la Chiesa cattolica.
La sua visita oggi segue le due precedenti di Papa Giovanni Paolo II nel 1986 e di Papa Benedetto XVI° nel 2010, ognuna delle quali ha segnato un innalzamento del livello delle relazioni.
Sono indelebili nella nostra memoria le immagini dello storico abbraccio che trent’anni fa, il 13 aprile 1986, vide uniti Papa Giovanni Paolo II e il Rav Elio Toaff. Ero presente e vidi con i miei occhi le loro figure avvicinarsi l’una all’altra, stringersi prima le mani e poi lasciarsi andare in quel gesto, uno appoggiato all’altro, come per sostenersi a vicenda e annullare quella distanza che per secoli era stata incolmabile.
Il 17 gennaio 2010 ebbi l’onore di partecipare personalmente, come rappresentante delle 21 Comunità ebraiche italiane, alla visita di Papa Benedetto XVI°, ora come allora insieme al nostro Rabbino Capo Riccardo Di Segni. Un incontro significativo e ricco di contenuti, durante il quale il papa ribadì la condivisione delle comuni radici, sulla base delle quali superare ogni forma di incomprensione e pregiudizio.
I due momenti di incontro sono stati il coronamento e l’ideale prosecuzione di un percorso non sempre facile, che trova la sua origine, e ha avuto una fondamentale svolta positiva, con la promulgazione della Dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”.
Quel passo, 50 anni fa cambiò radicalmente il rapporto tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo intero e, per giudizio unanime, costituisce una pietra miliare che segna l’inizio di un dialogo costruttivo; ciò è stato largamente condiviso durante le numerose celebrazioni che si sono svolte negli ultimi mesi per ricordarne il cinquantenario.
Nella loro diversità, nel reciproco rispetto delle differenti tradizioni, nell’accettazione di una pari dignità, il rapporto tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo vive da allora un periodo di grande progresso, che possiamo sicuramente definire di portata storica.
Questa nuova era sta avendo negli anni più recenti una ulteriore accelerazione per merito suo, Papa Francesco, e personalmente, avendo avuto l’onore di incontrarla più volte, mi sono reso conto di quanto sia forte e profondo il suo legame con il mondo ebraico.
Nel novembre 2013 fu pubblicata la sua prima esortazione apostolica denominata “Evangelii gaudium”, in quella e in altre occasioni sono state da lei rese pubbliche affermazioni che tante generazioni di ebrei, in passato, hanno sperato di sentir pronunciare. In particolare, quelle della cui importanza non tutti si sono ancora resi conto; cito solo alcuni brani: “la conversione che la Chiesa chiede agli idolatri non è applicabile agli ebrei”; “uno sguardo speciale si rivolge al Popolo ebraico, la cui Alleanza con D-o non è mai stata revocata, perché i doni e la chiamata di D-o sono irrevocabili”; “la Chiesa considera il Popolo dell’Alleanza e la sua fede come radice sacra della propria identità cristiana.”
E infine la più recente, che risale al dicembre 2015, attraverso la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo che afferma: “il fatto che gli ebrei abbiano parte nella salvezza di D-o è teologicamente fuori discussione”.
Questo panorama, innegabilmente positivo, non deve indurre alcuno a interrompere il cammino intrapreso per raggiungere nuovi e ulteriori progressi. In particolare, ritengo necessario realizzare una strategia comune che consenta un’ampia diffusione presso tutta la popolazione, della conoscenza del grande lavoro svolto e del consolidamento dei sentimenti di rispetto reciproco di amicizia e di fratellanza che fino ad oggi sono rimasti circoscritti ai vertici religiosi e culturali; ancora circolano con frequenza pregiudizi e discorsi improntati a un disprezzo che ci offende e ci ferisce. Guardiamo alle giovani generazioni con la speranza che sappiano cogliere i frutti di quanto abbiamo seminato, e molto altro, per affermare i valori del dialogo e della vita.
In questo senso riponiamo grande fiducia nella sua capacità di parlare, di dialogare e di farsi ascoltare dalla Comunità dei fedeli, oltre che dalle gerarchie ecclesiastiche.
Tanto in passato l’antisemitismo si è nutrito di falsi simboli, creati per diffondere stereotipi e immagini deformate, soprattutto negli strati della popolazione che avevano minor accesso all’istruzione. Si pensi, tanto per citarne un paio, ai Protocolli dei Savi di Sion e al culto del Simonino da Trento. Quello che è nato in epoche remote di comunicazioni appena tecnologizzate, oggi, con la potenza della comunicazione digitale, può diventare, e forse tristemente è già divenuto, una nuova e ancor più pericolosa arma.
La Chiesa cattolica è sempre stata attenta e consapevole dell’importanza dei simboli e delle parole, e lei, caro Papa Francesco, ha mostrato una grande capacità di diffondere, in maniera virtuosa, messaggi importanti e complessi in modo semplice, proprio attraverso la forza dell’esempio e dei gesti simbolici.
Alzando lo sguardo al panorama internazionale, che ci circonda e tanto ci condiziona, appare chiaro che in questo difficile momento cristiani ed ebrei sono accomunati dallo stesso destino, come da lei ricordato sia nel corso del suo viaggio in Israele, sia nelle occasioni in cui ha avuto modo di incontrare il Presidente Shimon Peres e il Presidente Reuven Rivlin. Cristiani ed Ebrei sono costretti a difendersi da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di D-o per spargere il terrore compiendo i più atroci crimini contro l’umanità.
La salvezza per tutti può venire solo dalla formazione di una forte coalizione, basata sulla condivisione di alti valori etici quali il rispetto della vita e la ricerca della pace, che sia in grado di vincere questa sfida, camminando tutti, fianco a fianco, nel rispetto delle diversità, ma al tempo stesso consapevoli dei molti valori, principi e speranze che ci uniscono.

Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane



Sono emozionata nel dare il benvenuto mio, e di tutta la Comunità Ebraica di Roma a Lei, Papa Francesco, terzo Pontefice a varcare la soglia del nostro Tempio Maggiore la cui distanza da S. Pietro seppur breve, è sembrata per secoli incolmabile. L’incontro odierno dimostra che il dialogo   tra le grandi fedi è possibile, un impegno volto a garantire accoglienza, pace e libertà per ogni essere umano.  
Questo impegno comune si è concretizzato per la prima volta il 13 aprile 1986 con la storica visita di un Papa in questa Sinagoga. Se oggi siamo qui è grazie a due grandi del nostro tempo e soprattutto grazie al loro coraggio: Giovanni Paolo II ed Elio Toaff zl. Che la loro memoria sia di   benedizione.  
Il 17 Gennaio del 2010 quel gesto si è rinnovato dando il segno della continuità dei rapporti di amicizia tra le due sponde del Tevere ed è per questo che un caloroso saluto voglio indirizzarlo al Papa Emerito Benedetto XVI. 
Oggi scriviamo ancora una volta la storia. 
Più di mezzo secolo fa incontri come quello al quale partecipiamo oggi sarebbero stati difficili da   immaginare. Il Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, concepì la dichiarazione Nostra Aetate aprendo le porte di un nuovo percorso all’insegna del dialogo. Percorso che, a 50 anni di   distanza, continua con la produzione di nuovi documenti, anche grazie alla Commissione Vaticana per i Rapporti con l’Ebraismo.  
La Sua visita non porta con sé il segno dei ritualismi. È una tappa importante, in un momento delicato in cui le religioni devono rivendicare uno spazio nella discussione pubblica per contribuire alla crescita morale e civile della società. 
Mi sento di poter dire che ebrei e cattolici, a partire da Roma, debbono sforzarsi di trovare assieme soluzioni condivise per combattere i mali del nostro tempo. Abbiamo la responsabilità di rendere il mondo in cui viviamo un posto migliore per i nostri figli.  
Come sappiamo Roma ha un ruolo universale. Gli ebrei sono qui da ormai 22 secoli. La nostra Comunità, che ha vissuto una storia straordinaria di sopravvivenza dell’identità nonostante le discriminazioni e le persecuzioni, è una comunità vivace, attiva e complessa. In questa Sinagoga, simbolo dell’emancipazione politica della nostra Comunità, dopo la segregazione perdurata per quasi quattrocento anni, sono oggi presenti le tante espressioni dell’ebraismo romano, italiano e internazionale.  
Gli Enti Ebraici sono istituzioni con radici antiche e tradizioni solide che rappresentano un ebraismo impegnato, nei secoli, al sostegno dei bisognosi, alla cura dei malati e degli anziani e, soprattutto, all’educazione dei figli e delle nuove generazioni. Persone, nella stragrande   maggioranza volontari, che lavorano ogni giorno silenziosamente, con o senza ruoli ufficiali, per   tenere viva una Comunità che è il mio più grande orgoglio ed è un grande orgoglio per tutta la città. 
Lei, Papa Francesco, ha dimostrato da sempre un’amicizia con il mondo ebraico. Dall’Argentina ha portato con sé un bagaglio di rapporti saldi con l’Ebraismo, ribaditi fin dai primi atti del suo pontificato. Voglio ricordare due momenti in cui mi sono sentita particolarmente toccata dalle sue   parole. Il primo, quando, durante la visita della delegazione di questa Comunità in Vaticano, l’11 ottobre del 2013, al quale ho avuto l’onore di partecipare, Lei si è rivolto al nostro Rabbino Capo dicendo che “un cristiano non può essere antisemita. L’antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla   vita di ogni uomo e di ogni donna”. Il secondo, quando incontrando poche settimane fa il Presidente del World Jewish Congress, ha detto che “attaccare gli ebrei è antisemitismo, ma anche un attacco deliberato a Israele è antisemitismo”. Lo ribadisco perché questa Comunità,   come tutte le comunità ebraiche nel mondo, ha un rapporto identitario con Israele. Siamo italiani, profondamente orgogliosi di esserlo e allo stesso tempo siamo parte del Popolo di Israele.  È attraverso le sue parole che riaffermo con forza che l’antisionismo è la forma più moderna di antisemitismo.
Il Suo viaggio in Israele, e nella sua capitale Gerusalemme, è stato un atto per noi importante. Anche in quell’occasione Lei ha usato parole di profondo rispetto per lo Stato Ebraico auspicando   che possa vivere in pace e sicurezza.  
Per vedere tutto questo realizzato, dobbiamo ricordare che la pace non si conquista seminando il terrore con i coltelli in mano, non si conquista versando sangue nelle strade di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Ytamar, di Beth Shemesh e di Sderot. Non si conquista scavando tunnel, non si   conquista lanciando missili. Possiamo affrontare un processo di pace contando i morti del terrorismo? No. Tutti noi dobbiamo dire al terrorismo di fermarsi. Non solo al terrorismo di Madrid, di Londra, di Bruxelles e di Parigi, ma anche a quello che colpisce ormai tutti i giorni Israele. Il   terrorismo non ha mai giustificazioni. 
La lezione dell’odio che porta solo morte è davanti agli occhi di tutti. Lo insegna la storia recente e quella meno recente. Lo ha visto Lei con i suoi occhi a Buenos Aires che ha conosciuto il terrore   antisemita il 18 luglio del 1994: ottantacinque morti e oltre duecento feriti.  
Molti si chiedono se il terrorismo islamico colpirà mai Roma. Signori, Roma è già stata colpita. Un solo nome: Stefano Gaj Taché z.l, due anni, 9 ottobre 1982, ucciso da un commando di terroristi palestinesi. Ringrazio il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per aver onorato la   memoria del piccolo Stefano ricordandolo nel suo discorso d’insediamento a Camere riunite e il Presidente Giorgio Napolitano per averlo inserito tra le vittime italiane del terrorismo.  
L’odio che nasce dal razzismo e trova il suo fondamento nel pregiudizio o peggio usa le parole ed   il nome di D-o per uccidere, merita sempre il nostro sdegno e la nostra ferma condanna.  
Papa Francesco, oggi abbiamo una grande responsabilità di fronte al mondo. Di fronte al sangue   sparso dal terrore in Europa e in Medio Oriente, di fronte al sangue dei cristiani perseguitati e agli attentati perpetrati contro civili inermi, anche all’interno dello stesso mondo arabo, di fronte agli   orrendi crimini compiuti contro le donne. Non possiamo essere spettatori. Non possiamo restare   indifferenti. Non possiamo cadere negli stessi errori del passato, fatti di silenzi assordanti e teste voltate. Uomini e donne che rimasero immobili davanti a vagoni stipati di ebrei spediti nei forni   crematori. Eccoli, oggi in prima fila i nostri sopravvissuti alla tragedia della Shoah a ricordarci che   la Memoria non è un esercizio di autoconsolazione per riparare agli orrori commessi. La Memoria   del più grande genocidio della Storia dell’Uomo la teniamo viva affinché nulla di simile possa ripetersi. Questo il nostro impegno più grande per il futuro e per le nuove generazioni.  
Con questa visita Ebrei e Cattolici lanciano oggi un messaggio nuovo rispetto alle tragedie che hanno riempito le cronache degli ultimi mesi.  
La Fede non genera odio, la Fede non sparge sangue, la Fede richiama al dialogo.  
Una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro. Come oggi qui a Roma, così in ogni luogo.   Siamo certi che questa consapevolezza, che non appartiene esclusivamente alle nostre religioni, possa trovare la collaborazione anche dell’Islam. La nostra speranza è che questo messaggio giunga ai tanti Musulmani che condividono con noi la responsabilità di migliorare il mondo in cui viviamo. Insieme possiamo farcela.  
Shalom Papa Francesco, Shalom a tutti voi.

Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma


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