la visita di bergoglio al tempio maggiore di roma
Le parole dell'incontro
Volge
al termine la visita di Bergoglio al Tempio Maggiore di Roma. Terzo
pontefice a varcare la soglia della sinagoga capitolina, Bergoglio ha
salutato i presenti ringraziando per l'accoglienza in ebraica, "todà
rabà" "voi siete i nostri fratelli e sorelle maggiori nella fede". Un
discorso, quello del papa, coraggioso e molto applaudito. “La violenza
dell’uomo sull’uomo è incompatibile con qualunque religione, tantomeno
con le tre grandi fedi monoteistiche. La vita è sacra, dobbiamo portare
avanti la logica della pace e del perdono”, ha affermato Bergoglio
ribadendo in modo fermo e deciso il “no a ogni forma di antisemitismo”.
Nel corso della visita, il pontefice si è fermato per rendere omaggio
davanti alla lapide che ricorda la razzia nazifascista del 16 ottobre
1943. “La Shoah - ha affermato - ci insegna che occorre sempre massima
vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della
dignità umana e della pace”.
Di seguito i discorsi tenuti al Tempio Maggiore dal rabbino capo di
Roma Riccardo Di Segni, dal presidente dell'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dal presidente della Comunità
ebraica di Roma Ruth Dureghello.
Benvenuto, papa Francesco,
nel Tempio Maggiore di Roma; nel luogo che fu edificato a segno della
libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni; nel luogo
visitato da re, presidenti, ministri; offeso dai nazisti e insanguinato
dal terrorismo palestinese; ma soprattutto nella casa di preghiera in
cui gli ebrei romani hanno celebrato e continuano a celebrare i momenti
più importanti della loro vita privata e collettiva. Oggi il Tempio
accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di
Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre
volte diventa chazaqà, consuetudine fissa. E’ decisamente il segno
concreto di una nuova era dopo tutto quanto è successo nel
passato. La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquanta anni fa è
stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni,
l’ultima di un mese fa, che hanno prima aperto e poi
consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di
collaborazione.
A ricevere papa Francesco è la Comunità ebraica di Roma. Lo accogliamo
nella consapevolezza di essere una comunità di fede con una vocazione
antica e sacra, che, come fu promesso ad Abramo, invoca la benedizione
su chi ci benedice. Nel nostro pubblico è qui presente la
memoria storica della comunità, gli ormai purtroppo pochi
sopravvissuti agli orrori dei campi di sterminio, i feriti degli
attentati terroristici, ma anche i testimoni e i protagonisti
dell’intensa vita organizzativa e religiosa di questa nostra comunità,
che non solo resiste alle seduzioni del tempo ma investe le
sue energie in una crescita spirituale e sociale fedele agli antichi
insegnamenti. Una dimostrazione bella e costruttiva di testimonianza di
valori in una società che stenta a trovare la sua strada. Insieme agli
ebrei romani sono qui i rappresentanti dell’ebraismo italiano e
dell’ebraismo mondiale, rabbini italiani, delegazioni rabbiniche
israeliane e europee e rappresentanti del governo e dello
Stato d’Israele. E anche tante persone che lavorano attivamente per
consolidare un rapporto di amicizia tra le persone delle
due fedi. Questo evento non è evidentemente limitato alla comunità
ebraica geograficamente più vicina al cuore del cattolicesimo. E’ un
evento la cui portata si irradia in tutto il mondo con un messaggio
benefico.
La visita di papa Francesco avviene all’inizio di un anno speciale per
i cristiani, da Lui indetto. La Bibbia ha istituito il Giubileo, che il
popolo ebraico non ha potuto più celebrare nelle forme prescritte
perché legate a particolari condizioni storiche e politiche; ma l’idea
originale della Torà rimane comunque valida in quanto
rappresenta un modello di rifondazione della società sulla base della
dignità, dell’uguaglianza e della libertà. In ogni caso il popolo
ebraico mantiene il conto degli anni sabbatici che moltiplicati per
sette sono la base del Giubileo; nell’anno sabbatico -l’ultimo
è appena trascorso- la terra d’Israele deve riposare e i
debiti vengono rimessi. Tra pochi giorni festeggeremo il
capodanno degli alberi, anch’esso collegato al ciclo agricolo della
terra d’Israele. Tanti segni che ribadiscono il rapporto essenziale e
religioso che abbiamo con la terra che ci è stata promessa.
Comprendere questo legame non dovrebbe essere una difficoltà per chi
rispetta la Bibbia, ma lo è ancora.
In questi giorni in cui i cristiani celebrano con antichi riferimenti e
nuovi significati un anno speciale centrato sul tema della
misericordia, non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura
della porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte
della giustizia”. Per un ebreo che ascolta, è qualche cosa di noto e
famigliare, è la citazione del verso dei Salmi (118:19) pitchù li
sha’arè tzèdeq, che noi citiamo nella nostra liturgia festiva. E’ un
confronto interessante. L’evento della cristianità centrato sulla
misericordia mantiene un rapporto con le origini bibliche, usa i versi
dei Salmi, da cui riprende il tema della giustizia che è indissociabile
dalla misericordia. E’ un segno di come le strade divise e molto
diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di
patrimonio comune che entrambe considerano sacro. Questa divisione è un
dato storico antico. Nelle diverse visioni può essere considerata un
dramma, un enigma o un evento provvidenziale. Certo è che la divisione
ha garantito la crescita di grandi patrimoni spirituali autonomi, ma ha
portato anche ostilità, persecuzioni e sofferenze. Tutti attendiamo un
momento chissà quanto lontano nella storia in cui le
divisioni si risolveranno. In che modo, ognuno ha la sua visione. Ma
nel frattempo ciascuno, rimanendo fedele alla propria tradizione, deve
trovare un modo di rapportarsi all’altro. In pace e con
rispetto.
Alla luce di questo, credo che siano due i segnali principali da
mettere in evidenza in questo incontro di oggi. Il primo è
quello della continuità. Il terzo papa a visitare la nostra
Sinagoga conferma la validità e l’intenzione del gesto del
primo papa che voleva significare la rottura con un passato
di disprezzo nei confronti dell’ebraismo; l’intuizione di Giovanni
Paolo II fu quella di tradurre in gesti concreti e messaggi
essenziali e comprensibili a tutti le difficili
elaborazioni dottrinali del Concilio. La sua visita alla
Sinagoga ebbe questo ruolo e a sua volta aprì la strada per
il riconoscimento dello Stato d’Israele. Il papa successivo, Benedetto,
ha voluto confermare questa linea; ora la scelta di
Francesco stabilisce una consuetudine. Interpretiamo tutto questo nel
senso che la Chiesa Cattolica non intende tornare indietro
nel percorso di riconciliazione. L’impegno personale di
papa Francesco lo conferma, nei molti segni di attenzione che
ha dimostrato nei confronti dell’ebraismo, da Buenos Aires
come arcivescovo a Roma come papa. Ora è qui con noi.
Il secondo segnale di questa visita è dettato dall’urgenza dei tempi.
Il Vicino Oriente, l’Europa e tante altre parti del mondo sono
travagliate da guerre e terrorismo. La triste novità dei nostri
giorni è che dopo i due secoli di disastri prodotti da
nazionalismi e ideologie la violenza torna a scatenarsi
alimentata e giustificata da visioni fanatiche ispirate dalla
religione. E di nuovo si scatenano persecuzioni religiose.
L’impulso distruttivo, in assenza di altri riferimenti e scuse, trova
nella religione il sostegno e l’alimento. Al contrario un incontro di
pace tra comunità religiose differenti, come quello che
avviene ora a Roma, è un segnale molto forte che si oppone
all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose.
Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è
autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica.
Accogliamo il papa per ribadire che le differenze religiose,
da mantenere e rispettare, non devono però essere
giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve essere
invece amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le
tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al
servizio della collettività. Dobbiamo insieme far sentire la nostra
voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle
vittime. Ma non dobbiamo essere insieme solo per denunciare gli orrori;
dobbiamo lavorare e collaborare nel quotidiano. La nostra comunità
investe tutte le sue risorse per garantire il suo futuro ebraico ma
vive questo impegno in un rapporto armonico con la società, in favore
di tutti.
Ieri in tutte le Sinagoghe del mondo abbiamo letto i capitoli del libro
dell’Esodo che parlano dello scontro finale tra Mosè, che
chiede al Faraone di liberare gli ebrei dalla schiavitù, e il Faraone,
che gli si oppone con tutti i suoi mezzi. Non abbiamo un Mosè che ci
guida, né, per fortuna, un Faraone da contrastare, anche se
proprio la storia di questa Sinagoga dimostra che un re benevolo può
trasformarsi in persecutore. Ma questa storia biblica, base delle
nostre fedi, dimostra come la forza dello spirito riesce a trionfare e
piegare anche i sistemi e i regimi più duri. Dobbiamo avere
la consapevolezza della nostra forza e la fiducia nella bontà dei
nostri valori. E procedere insieme per affermarli, in pace.
Abbiamo parlato di porte che si aprono. Vorrei citare, e condividere,
per concludere, le parole dell’invocazione che recitiamo
ogni giorno alla fine della preghiera della ‘amidà, secondo il rito
italiano: “che ci siano aperte le porte della Torà, della sapienza,
dell’intelligenza e della conoscenza, le porte del nutrimento e del
sostentamento, le porte della vita, della grazia, dell’amore e della
misericordia e del gradimento davanti a Te”. “Che Ti siano gradite, o
Signore, mia forza e mio redentore, le mie parole e l’espressione del
mio cuore”
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Caro Papa Francesco,
è con spirito di profonda stima che Le porgo, a nome di tutte le Comunità Ebraiche Italiane, il più caloroso benvenuto.
Sono consapevole che lei viene in questo Tempio ad incontrare
l’ebraismo italiano con il suo millenario carico di fede e di cultura,
di dolore e di vita.
Questa sua visita giunge a rinsaldare ancor di più il cammino di
dialogo, di amicizia e di fratellanza tra il popolo ebraico, il popolo
dell’Alleanza, e la Chiesa cattolica.
La sua visita oggi segue le due precedenti di Papa Giovanni Paolo II
nel 1986 e di Papa Benedetto XVI° nel 2010, ognuna delle quali ha
segnato un innalzamento del livello delle relazioni.
Sono indelebili nella nostra memoria le immagini dello storico
abbraccio che trent’anni fa, il 13 aprile 1986, vide uniti Papa
Giovanni Paolo II e il Rav Elio Toaff. Ero presente e vidi con i miei
occhi le loro figure avvicinarsi l’una all’altra, stringersi prima le
mani e poi lasciarsi andare in quel gesto, uno appoggiato all’altro,
come per sostenersi a vicenda e annullare quella distanza che per
secoli era stata incolmabile.
Il 17 gennaio 2010 ebbi l’onore di partecipare personalmente, come
rappresentante delle 21 Comunità ebraiche italiane, alla visita di Papa
Benedetto XVI°, ora come allora insieme al nostro Rabbino Capo Riccardo
Di Segni. Un incontro significativo e ricco di contenuti, durante il
quale il papa ribadì la condivisione delle comuni radici, sulla base
delle quali superare ogni forma di incomprensione e pregiudizio.
I due momenti di incontro sono stati il coronamento e l’ideale
prosecuzione di un percorso non sempre facile, che trova la sua
origine, e ha avuto una fondamentale svolta positiva, con la
promulgazione della Dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”.
Quel passo, 50 anni fa cambiò radicalmente il rapporto tra la Chiesa
cattolica e l’Ebraismo intero e, per giudizio unanime, costituisce una
pietra miliare che segna l’inizio di un dialogo costruttivo; ciò è
stato largamente condiviso durante le numerose celebrazioni che si sono
svolte negli ultimi mesi per ricordarne il cinquantenario.
Nella loro diversità, nel reciproco rispetto delle differenti
tradizioni, nell’accettazione di una pari dignità, il rapporto tra la
Chiesa cattolica e l’Ebraismo vive da allora un periodo di grande
progresso, che possiamo sicuramente definire di portata storica.
Questa nuova era sta avendo negli anni più recenti una ulteriore
accelerazione per merito suo, Papa Francesco, e personalmente, avendo
avuto l’onore di incontrarla più volte, mi sono reso conto di quanto
sia forte e profondo il suo legame con il mondo ebraico.
Nel novembre 2013 fu pubblicata la sua prima esortazione apostolica
denominata “Evangelii gaudium”, in quella e in altre occasioni sono
state da lei rese pubbliche affermazioni che tante generazioni di
ebrei, in passato, hanno sperato di sentir pronunciare. In particolare,
quelle della cui importanza non tutti si sono ancora resi conto; cito
solo alcuni brani: “la conversione che la Chiesa chiede agli idolatri
non è applicabile agli ebrei”; “uno sguardo speciale si rivolge al
Popolo ebraico, la cui Alleanza con D-o non è mai stata revocata,
perché i doni e la chiamata di D-o sono irrevocabili”; “la Chiesa
considera il Popolo dell’Alleanza e la sua fede come radice sacra della
propria identità cristiana.”
E infine la più recente, che risale al dicembre 2015, attraverso la
Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo che
afferma: “il fatto che gli ebrei abbiano parte nella salvezza di D-o è
teologicamente fuori discussione”.
Questo panorama, innegabilmente positivo, non deve indurre alcuno a
interrompere il cammino intrapreso per raggiungere nuovi e ulteriori
progressi. In particolare, ritengo necessario realizzare una strategia
comune che consenta un’ampia diffusione presso tutta la popolazione,
della conoscenza del grande lavoro svolto e del consolidamento dei
sentimenti di rispetto reciproco di amicizia e di fratellanza che fino
ad oggi sono rimasti circoscritti ai vertici religiosi e culturali;
ancora circolano con frequenza pregiudizi e discorsi improntati a un
disprezzo che ci offende e ci ferisce. Guardiamo alle giovani
generazioni con la speranza che sappiano cogliere i frutti di quanto
abbiamo seminato, e molto altro, per affermare i valori del dialogo e
della vita.
In questo senso riponiamo grande fiducia nella sua capacità di parlare,
di dialogare e di farsi ascoltare dalla Comunità dei fedeli, oltre che
dalle gerarchie ecclesiastiche.
Tanto in passato l’antisemitismo si è nutrito di falsi simboli, creati
per diffondere stereotipi e immagini deformate, soprattutto negli
strati della popolazione che avevano minor accesso all’istruzione. Si
pensi, tanto per citarne un paio, ai Protocolli dei Savi di Sion e al
culto del Simonino da Trento. Quello che è nato in epoche remote di
comunicazioni appena tecnologizzate, oggi, con la potenza della
comunicazione digitale, può diventare, e forse tristemente è già
divenuto, una nuova e ancor più pericolosa arma.
La Chiesa cattolica è sempre stata attenta e consapevole
dell’importanza dei simboli e delle parole, e lei, caro Papa Francesco,
ha mostrato una grande capacità di diffondere, in maniera virtuosa,
messaggi importanti e complessi in modo semplice, proprio attraverso la
forza dell’esempio e dei gesti simbolici.
Alzando lo sguardo al panorama internazionale, che ci circonda e tanto
ci condiziona, appare chiaro che in questo difficile momento cristiani
ed ebrei sono accomunati dallo stesso destino, come da lei ricordato
sia nel corso del suo viaggio in Israele, sia nelle occasioni in cui ha
avuto modo di incontrare il Presidente Shimon Peres e il Presidente
Reuven Rivlin. Cristiani ed Ebrei sono costretti a difendersi da
spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di
D-o per spargere il terrore compiendo i più atroci crimini contro
l’umanità.
La salvezza per tutti può venire solo dalla formazione di una forte
coalizione, basata sulla condivisione di alti valori etici quali il
rispetto della vita e la ricerca della pace, che sia in grado di
vincere questa sfida, camminando tutti, fianco a fianco, nel rispetto
delle diversità, ma al tempo stesso consapevoli dei molti valori,
principi e speranze che ci uniscono.
Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Sono
emozionata nel dare il benvenuto mio, e di tutta la Comunità Ebraica di
Roma a Lei, Papa Francesco, terzo Pontefice a varcare la soglia del
nostro Tempio Maggiore la cui distanza da S. Pietro seppur breve, è
sembrata per secoli incolmabile. L’incontro odierno dimostra che il
dialogo tra le grandi fedi è possibile, un impegno volto a
garantire accoglienza, pace e libertà per ogni essere
umano.
Questo impegno comune si è concretizzato per la prima volta il 13
aprile 1986 con la storica visita di un Papa in questa Sinagoga. Se
oggi siamo qui è grazie a due grandi del nostro tempo e soprattutto
grazie al loro coraggio: Giovanni Paolo II ed Elio Toaff zl. Che la
loro memoria sia di benedizione.
Il 17 Gennaio del 2010 quel gesto si è rinnovato dando il segno della
continuità dei rapporti di amicizia tra le due sponde del Tevere ed è
per questo che un caloroso saluto voglio indirizzarlo al Papa Emerito
Benedetto XVI.
Oggi scriviamo ancora una volta la storia.
Più di mezzo secolo fa incontri come quello al quale partecipiamo oggi
sarebbero stati difficili da immaginare. Il Concilio
Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, concepì la dichiarazione Nostra
Aetate aprendo le porte di un nuovo percorso all’insegna del dialogo.
Percorso che, a 50 anni di distanza, continua con la
produzione di nuovi documenti, anche grazie alla Commissione Vaticana
per i Rapporti con l’Ebraismo.
La Sua visita non porta con sé il segno dei ritualismi. È una tappa
importante, in un momento delicato in cui le religioni devono
rivendicare uno spazio nella discussione pubblica per contribuire alla
crescita morale e civile della società.
Mi sento di poter dire che ebrei e cattolici, a partire da Roma,
debbono sforzarsi di trovare assieme soluzioni condivise per combattere
i mali del nostro tempo. Abbiamo la responsabilità di rendere il mondo
in cui viviamo un posto migliore per i nostri figli.
Come sappiamo Roma ha un ruolo universale. Gli ebrei sono qui da ormai
22 secoli. La nostra Comunità, che ha vissuto una storia straordinaria
di sopravvivenza dell’identità nonostante le discriminazioni e le
persecuzioni, è una comunità vivace, attiva e complessa. In questa
Sinagoga, simbolo dell’emancipazione politica della nostra Comunità,
dopo la segregazione perdurata per quasi quattrocento anni, sono oggi
presenti le tante espressioni dell’ebraismo romano, italiano e
internazionale.
Gli Enti Ebraici sono istituzioni con radici antiche e tradizioni
solide che rappresentano un ebraismo impegnato, nei secoli, al sostegno
dei bisognosi, alla cura dei malati e degli anziani e, soprattutto,
all’educazione dei figli e delle nuove generazioni. Persone, nella
stragrande maggioranza volontari, che lavorano ogni giorno
silenziosamente, con o senza ruoli ufficiali, per tenere
viva una Comunità che è il mio più grande orgoglio ed è un grande
orgoglio per tutta la città.
Lei, Papa Francesco, ha dimostrato da sempre un’amicizia con il mondo
ebraico. Dall’Argentina ha portato con sé un bagaglio di rapporti saldi
con l’Ebraismo, ribaditi fin dai primi atti del suo pontificato. Voglio
ricordare due momenti in cui mi sono sentita particolarmente toccata
dalle sue parole. Il primo, quando, durante la visita della
delegazione di questa Comunità in Vaticano, l’11 ottobre del 2013, al
quale ho avuto l’onore di partecipare, Lei si è rivolto al nostro
Rabbino Capo dicendo che “un cristiano non può essere antisemita.
L’antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla vita di ogni
uomo e di ogni donna”. Il secondo, quando incontrando poche settimane
fa il Presidente del World Jewish Congress, ha detto che “attaccare gli
ebrei è antisemitismo, ma anche un attacco deliberato a Israele è
antisemitismo”. Lo ribadisco perché questa Comunità, come
tutte le comunità ebraiche nel mondo, ha un rapporto identitario con
Israele. Siamo italiani, profondamente orgogliosi di esserlo e allo
stesso tempo siamo parte del Popolo di Israele. È attraverso le
sue parole che riaffermo con forza che l’antisionismo è la forma più
moderna di antisemitismo.
Il Suo viaggio in Israele, e nella sua capitale Gerusalemme, è stato un
atto per noi importante. Anche in quell’occasione Lei ha usato parole
di profondo rispetto per lo Stato Ebraico auspicando che
possa vivere in pace e sicurezza.
Per vedere tutto questo realizzato, dobbiamo ricordare che la pace non
si conquista seminando il terrore con i coltelli in mano, non si
conquista versando sangue nelle strade di Gerusalemme, di Tel Aviv, di
Ytamar, di Beth Shemesh e di Sderot. Non si conquista scavando tunnel,
non si conquista lanciando missili. Possiamo affrontare un
processo di pace contando i morti del terrorismo? No. Tutti noi
dobbiamo dire al terrorismo di fermarsi. Non solo al terrorismo di
Madrid, di Londra, di Bruxelles e di Parigi, ma anche a quello che
colpisce ormai tutti i giorni Israele. Il terrorismo non ha
mai giustificazioni.
La lezione dell’odio che porta solo morte è davanti agli occhi di
tutti. Lo insegna la storia recente e quella meno recente. Lo ha visto
Lei con i suoi occhi a Buenos Aires che ha conosciuto il
terrore antisemita il 18 luglio del 1994: ottantacinque
morti e oltre duecento feriti.
Molti si chiedono se il terrorismo islamico colpirà mai Roma. Signori,
Roma è già stata colpita. Un solo nome: Stefano Gaj Taché z.l, due
anni, 9 ottobre 1982, ucciso da un commando di terroristi palestinesi.
Ringrazio il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per aver
onorato la memoria del piccolo Stefano ricordandolo nel suo
discorso d’insediamento a Camere riunite e il Presidente Giorgio
Napolitano per averlo inserito tra le vittime italiane del
terrorismo.
L’odio che nasce dal razzismo e trova il suo fondamento nel pregiudizio
o peggio usa le parole ed il nome di D-o per uccidere,
merita sempre il nostro sdegno e la nostra ferma condanna.
Papa Francesco, oggi abbiamo una grande responsabilità di fronte al
mondo. Di fronte al sangue sparso dal terrore in Europa e
in Medio Oriente, di fronte al sangue dei cristiani perseguitati e agli
attentati perpetrati contro civili inermi, anche all’interno dello
stesso mondo arabo, di fronte agli orrendi crimini compiuti
contro le donne. Non possiamo essere spettatori. Non possiamo
restare indifferenti. Non possiamo cadere negli stessi
errori del passato, fatti di silenzi assordanti e teste voltate. Uomini
e donne che rimasero immobili davanti a vagoni stipati di ebrei spediti
nei forni crematori. Eccoli, oggi in prima fila i nostri
sopravvissuti alla tragedia della Shoah a ricordarci che la
Memoria non è un esercizio di autoconsolazione per riparare agli orrori
commessi. La Memoria del più grande genocidio della Storia
dell’Uomo la teniamo viva affinché nulla di simile possa ripetersi.
Questo il nostro impegno più grande per il futuro e per le nuove
generazioni.
Con questa visita Ebrei e Cattolici lanciano oggi un messaggio nuovo
rispetto alle tragedie che hanno riempito le cronache degli ultimi
mesi.
La Fede non genera odio, la Fede non sparge sangue, la Fede richiama al dialogo.
Una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in
cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro.
Come oggi qui a Roma, così in ogni luogo. Siamo certi che
questa consapevolezza, che non appartiene esclusivamente alle nostre
religioni, possa trovare la collaborazione anche dell’Islam. La nostra
speranza è che questo messaggio giunga ai tanti Musulmani che
condividono con noi la responsabilità di migliorare il mondo in cui
viviamo. Insieme possiamo farcela.
Shalom Papa Francesco, Shalom a tutti voi.
Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma
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