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19 gennaio 2017 - 21 Tevet 5777
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INTERVISTA

Israel Corrado De Benedetti: "Da questa cella al kibbutz nel Negev: questo è il mio sionismo"

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Settantatré anni per fare i conti col passato. Sono quelli che Israel Corrado De Benedetti, ebreo ferrarese classe 1927, ha dovuto aspettare per rimettere piede nella cella in cui, appena quindicenne, fu rinchiuso la notte del 14 novembre 1943. L’occasione è arrivata con il convegno “Gli ebrei italiani e il sionismo: tra ricerca storica e testimonianze” promosso dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, che ha portato De Benedetti a Ferrara e al cantiere dove stanno prendendo forma gli spazi espositivi e per la didattica, la biblioteca e il centro di documentazione del Museo. Proprio lì sorgevano le carceri di Via Piangipane, uno degli ultimi ricordi di De Benedetti, prima della partenza per un kibbutz nel deserto del Negev, a nord di Be’er Sheva. Settantatré anni che racconta con i toni appassionati e ironici di chi ha vissuto sulla propria pelle, traendone un’energia inesauribile, una delle pagine più tragiche del Novecento.

Perché, dopo così tanto tempo, questa visita al secondo piano del blocco C dell’ex carcere?

Avevo bisogno di rivedere questi luoghi, anche se tante cose sono cambiate. Qui nel sottotetto c’erano i cameroni in cui eravamo chiusi a gruppi di quindici, con un bugliolo per i nostri bisogni. Mentre di là c’era l’unico vero bagno disponibile, che potevamo usare solo se accompagnati da una guardia. Da lì comunicavamo con i parenti e gli amici all’esterno, che si appostavano sulle Mura.

Daniela Modonesi, Pagine Ebraiche, gennaio 2017

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ORIZZONTI

Tra arte, Judaica e bagel, uno Shabbat
al Museo ebraico di New York

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Passeggiare per la Fifth Avenue, la leggendaria Quinta Strada di New York, è un’esperienza amata da cittadini e turisti in egual misura. Tempio privilegiato dello shopping, l’arteria di Manhattan offre anche non pochi punti di riferimento storici e culturali della Grande Mela, dall’Empire State Building al Rockefeller Center e la New York Public Library. All’incrocio con la Novantaduesima, si trova il Museo ebraico, che con i suoi 112 anni di storia è la più antica istituzione del genere nel mondo ancora attiva. Attiva e con lo sguardo rivolto verso le sfide della contemporaneità e del futuro. Così un museo che si propone di essere un pilastro della cultura ebraica in una città pilastro della vita ebraica come New York sceglie di onorare un fondamento della sua tradizione nella storia: lo Shabbat.
“Nell’ebraismo, il sabato è Shabbat, un giorno di riposo, libero dalle preoccupazioni di orari, lavoro quotidiano e commercio. Per questa ragione le parti interattive delle mostre, le audio-guide, il negozio e gli spazi dedicati ai bambini non sono disponibili. E questa è anche la ragione per cui di sabato, si entra gratis!” si legge nel sito. Già perché mentre durante la settimana i biglietti costano 15 dollari (ridotti a 12 per anziani e bambini e a 7,5 per gli studenti), nel Giorno del Riposo il museo rimane aperto e si entra gratis, per godere delle sue gallerie che raccolgono una collezione di decine di migliaia di oggetti di Judaica, opere d’arte, manufatti. E la notizia di oggi è che i visitatori avranno persino la possibilità di godere di un perfetto brunch in stile newyorkese.

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orizzonti  

Obama, sogno incompiuto

Il 20 gennaio 2009 Barack Obama giurava come 44° presidente degli Stati Uniti promettendo di unire l'America, battere la recessione, ridare speranza alla classe media, riconciliarsi con gli alleati e tendere la mano ai nemici. Ad otto anni di distanza l'America è più divisa di allora, la recessione è stata battuta, la classe media ha eletto Donald Trump, i rapporti con gli alleati sono tesi e i nemici sono aggressivi come mai avvenuto dal termine della Guerra Fredda. Il bilancio in chiaroscuro riassume successi e fallimenti di un presidente che sarà ricordato per l'impegno dedicato a risollevare la nazione così come per aver in gran parte abdicato alle sue responsabilità internazionali, contribuendo a innescare l'attuale domino di crisi e guerre in più regioni. Il maggior risultato del presidente che viene dalle Hawaii è aver risollevato l'economia dalla recessione in cui precipitò con la crisi finanziaria del settembre 2008. Fu proprio il collasso di Lehman Brothers a segnare la sfida elettorale con il repubblicano John McCain perché gran parte degli americani la attribuì all'incapacità dell'amministrazione Bush di mettere ordine a Wall Street dopo lo scandalo di Enron nel 2002. Vittima di speculazioni e fallimenti generati dalla finanza spericolata, la classe media vide in Obama un possibile salvatore ed obiettivamente le riforme seguite alla sua elezione hanno ridato stabilità ai mercati e fiducia agli investitori, portando ad una ripresa dell'economia iniziata con il salvataggio del settore dell'auto dal collasso ed accompagnata da un aumento dei posti di lavoro che dura oramai da ben 75 mesi.

Maurizio Molinari, La Stampa
15 gennaio 2017


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Società 

L'età del rancore

Riccardo Montolivo usciva dal campo in barella, e la curva ha fischiato senza pietà il giocatore infortunato, avanguardia degli energumeni che sui social hanno nei giorni successivi augurato le cose più atroci a un ragazzo con il crociato distrutto, una carriera devastata. La vetta della ferocia social però non era stata raggiunta ancora. Ci volevano nei giorni scorsi il malore e l'operazione del premier Paolo Gentiloni per scatenare la follia idiota di chi, dietro un profilo falso, coperto dall'anonimato per non fare brutta figura con i parenti, tifava affinché il presidente del Consiglio avesse la peggio, possibilmente tra tormenti indicibili. E l'età dell'incattivimento, del rancore senza freni, di un'aggressività frustrata e spudorata che si manifesta senza argini. E non si limita alle parole dell'odio cieco e inconsulto. Giorni fa un manipolo di bruti si è presentato in formazione squadraccia all'ospedale di Catania e si è accanito con una spedizione punitiva su un medico che si era limitato a non fornire un nome agli aggressori. Così, pugni, ceffoni, ululati minacciosi: non avevano bisogno dei social network per dare sfogo al loro istinto di sopraffazione. Come quei genitori che si sono azzuffati mentre i loro figli stavano disputando una partita, una gang di teppisti in doppiopetto. Ma succede spesso anche in Italia, con o senza doppiopetto, nei campetti di periferia e in quelli del privilegio sociale. Sempre con una rabbia incontenibile, nuova, contagiosa. Una rabbia animalesca e barbara che non si limita alle aggressioni verbali sul web, ma si estende alla politica, al sesso, alla medicina.


Pierluigi Battista, Corriere della Sera
18 gennaio 2017


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Shir shishi, una poesia per erev shabbat

"Vesuvio ed Ercolano"

img headerNida’a Khouri, nata nel 1959 in Israele, a Fassuta, un villaggio cristiano sulle montagne dell'alta Galilea è docente di letteratura all'università di Beer Sheva, conduce corsi in Gestione dei Conflitti e la sua intensa attività si esprime anche nella creatività poetica, attraverso la composizione di liriche in arabo ed ebraico. Si è sposata molto giovane e dopo aver avuto quattro figli ha deciso di intraprendere la carriera accademica in scienze sociale e lettere. Nida'a ha pubblicato dodici libri e le sue poesie in arabo e in ebraico sono state tradotte in inglese, olandese e italiano. Alcuni volumi sono stati pubblicati anche in Egitto e in Libano. I versi, assai diversi tra loro, parlano dell'intimità femminile e delle grandi questioni nazionali, esistenziali e psicologiche.
In un'intervista rilasciata nel 2011 ha affermato: "Ho un’identità complessa. Quelli che dicono di avere problemi d'identità partono dal presupposto che l'identità sia un'esistenza pura, univoca, ma una cosa simile non esiste nel nostro mondo. In fin dei conti vogliamo o forse dobbiamo essere coscienti delle diverse componenti che ci costituiscono e trovare il modo di farli collimare."
Ha ricevuto il Premio del Docente (1995), il Premio per la creatività (2000) e il premio del Primo Ministro (2012).


Salire sul monte
il settimo giorno
Ronny Someck, Gilad e io.
Un’araba e due israeliani
che salgono nella valle del diavolo
nell’ultimo giorno del convegno.
“Un matto non saprà mai di esserlo”,
dicono
“noi non ci facciamo mai vedere insieme”,
ma qui potremo essere
almeno inquadrati
con il vulcano
e la città devastata
sullo sfondo.

Sarah Kaminski, Università di Torino

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