Dal Moked di Parma: Michael Ascoli “Lo Stato di Israele: la redenzione germoglia? “

Desidero ringraziare rav Roberto Della Rocca per avermi invitato a prender parte attiva a questo convegno. Ho accettato volentieri, ricordando però che le considerazioni che andrò ad esporre non sono, né potrebbero essere, il frutto di uno studio sistematico o di un esperto della materia, ma più modestamente riflessioni che propongo e che desidero condividere con chi ascolta.
Ho scelto di partire dalla “tefillà li-shalom medinat Israel” perché per molti aspetti è emblematica dell’ideologia sionista religiosa e dei contrasti insiti sia al suo interno sia fra questa e il resto della popolazione ebraica.
Questa estate Yoel Rappel ha pubblicato un articolo  nel quale si attribuisce definitivamente la paternità di questa preghiera, nella formulazione che noi conosciamo, a rav Herzog z’’l, rabbino capo di Israele all’epoca dell’indipendenza dello stato ebraico e negli anni successivi, riducendo di molto il ruolo dello scrittore S. I. Agnon z”l nella stesura del testo.
In un recente seminario rabbinico  rav Arussi, nel corso di un intervento molto critico sulla politica dello Stato di Israele nei confronti del rabbinato, ha sostenuto che la scelta del momento in cui iniziare a recitare la preghiera per lo stato di Israele non fu casuale: sarebbe stata piuttosto una reazione al mancato consulto dei rabbini-capo Herzog e Uziel  per la nomina dei giudici del neonato Stato, il quale così facendo dimostrava di misconoscere il ruolo dei dayanim e delle regole della Torà. Rav Herzog e rav Uziel pertanto non parteciparono all’assemblea inaugurale del bet ha-mishpat ha-elion e circa una settimana dopo si iniziò a recitare la preghiera. Siamo al 20, 21 settembre 1948. Prima di allora, comunque, vi erano state molte altre proposte.
In ogni caso l’idea di una tefillà per lo stato in cui si vive è una tradizione antica, valida in ogni nazione. Ed in effetti alcune formulazioni alternative a quella che noi oggi utilizziamo riprendono direttamente anche nella formula questa tradizione (in alcune sinagoghe sono usate tutt’oggi).
La novità fondamentale, direi, è racchiusa nella formula reshit tzemikhat gheulatenu (“inizio del germoglio della nostra redenzione”) utilizzata qui per la prima volta. A lungo si è ritenuto che fosse di rav Kook, ma questa ipotesi non ha trovato riscontro.
E’ una definizione sofferta, forse esitante –inizio del germogliare della nostra redenzione-  che probabilmente riprende l’espressione et tzemakh david avdekhà meherà tazmiakh” (“il germoglio di David Tuo servo fai germogliare presto”), che recitiamo nella ‘amidà ; sicuramente richiama la definizione classica di atkhaltà de-geullà (“inizio della redenzione”).
Insomma, ciò che è chiaro è che questa tefillà sancisce il fatto che siamo in era messianica. Fermiamoci a riflettere: perché lo stato di Israele implica necessariamente l’epoca (l’inizio dell’epoca) messianica?
Si apre a questo punto un problema enorme a cui possiamo solo accennare e per il quale esiste un testo di riferimento essenziale per nostra fortuna tradotto in italiano, che presumo molti di voi conoscano bene: Aviezer Raviztky La fine svelata e lo stato degli ebrei. Raviztky si sofferma a considerare quattro diversi approcci fondamentali  nei confronti dello Stato di Israele: una parte dei charedim, assai minoritaria in numero ma molto estremista e militante, oppositori oltranzisti dello Stato; i sionisti religiosi; il resto dei charedim e i chabad. Occorre fare attenzione che il libro è del 1993 e che quindi per alcuni aspetti è datato. Non nel senso che le analisi fatte fossero sbagliate, quanto piuttosto nel senso che le cose sono purtroppo peggiorate da allora. Tanto per fare un esempio eclatante nel ’93 il Rebbe dei Lubavitch era ancora vivo. Bisognerebbe allora piuttosto fare riferimento a D. Berger – The Rebbe, the Messiah and the Scandal of Orthodox Indifference) o ai rapporti che ogni tanto cura D. Grosser.
Quanto agli estremisti del sionismo religioso, ci tornerò più tardi. Ciò che ora è fondamentale sottolineare è che anche laddove il riferimento messianico non era inizialmente maggioritario o fondamentale – come per esempio nel caso della maggior parte dei charedim che ha una reazione di indifferenza nei confronti dello stato- questo riferimento invece è diventato via via più importante, se non altro per il fatto di dovervisi misurare, a fronte degli attacchi sempre più pressanti degli “estremisti”. In brevissima sintesi: i sionisti affermano “siamo in epoca messianica”, gli antisionisti, ad esempio i Satmar, sostengono che  “lo Stato di Israele allontana il Messia”; il grosso dei charedim rimane ugualmente in “golà” ma deve sempre più confrontarsi con questa entità arrivata ormai a sessant’anni. Sessanta’anni per la storia sono pochissimi ma la maggior parte delle persone ha meno di 60 anni, cioè non ha mai conosciuto una realtà senza lo stato di Israele!
Ma perché è così fondamentale dare una giustificazione teologica all’esistenza dello Stato? Cosa ci impedisce di considerarlo niente più che il compimento del nostro dovere, la realizzazione delle nostre tefilloth non appena ci è stato finalmente possibile?
La filosofia della storia nel mondo ebraico ha subito enormi evoluzioni nei secoli: i tosafisti discutevano su  quale fosse “l’esenzione” dall’andare in Israele: cioè “perché non ci andiamo?” Una delle risposte  fu “perché la strada per arrivarci è pericolosa”. Non era una domanda teorica. Ed infatti, 300 di loro decisero invece di trasferirsi! Si tratta di una giustificazione dettata dalle circostanze, “la strada è pericolosa”, non di una obiezione di principio. E’ noto che Ramban vi andò e così tanti altri nel corso della storia. L’atteggiamento era piuttosto quello di trovare una giustificazione, magari a posteriori, per chi non vi andasse o non vi fosse andato.
In tempi più recenti però si era consolidata l’idea per la quale dall’esilio si sarebbe usciti solo con il Messia. Un atteggiamento passivo nei riguardi degli avvenimenti e della storia, non era quindi una debolezza, bensì l’unico comportamento  religiosamente accettabile, quello che esprimeva la fede completa nella venuta del Messia, quel Messia che lui, e soltanto lui, ci avrebbe portato  nella terra d’Israele. Ravitzky dedica un intero capitolo ai tre giuramenti . Il Talmud insegna che D-o fece giurare al popolo ebraico che 1) non sarebbero saliti compatti (“come un muro”) e che 2) non si sarebbero ribellati alle nazioni e alle nazioni del Mondo che 3) non avrebbero asservito Israele eccessivamente.
L’elaborazione di questa fonte è ciò che ha verosimilmente portato al consolidarsi di quella  passività di cui abbiamo parlato. Un’altra idea importante è una giustificazione –questa sì di principio e non dettata dalle circostanze- di uno dei tosafisti: la kedushà che la terra d’Israele richiede non è alla portata di tutti, ma solo di pochi eletti. Se non si è in grado di vivere “da santi” meglio non andare: “non assomiglia chi vìola la volontà del Re per strada a chi la vìola all’interno del suo palazzo!”.
Perfino i chovevè tzion, gli “anelanti a Sion” della prima alyah erano spesso persone “scelte” . Quegli stessi maestri che invitarono loro ad andare, invitarono altri a non andare, perché non all’altezza.
Date queste premesse è chiaro che si va in Israele solo se ci porta il Messia o perché invece ci si sta ribellando alla volontà del Signore. E siccome, per altro, la maggior parte dei sionisti sono laici ribelli è chiaro a cosa tenda il sionismo.
Ci volle tutto il carisma e la carica innovativa di rav Kook per stravolgere questo ragionamento, parlare dell’inizio della redenzione che viene dal basso, di Herzel come del masciach ben Yosef (!) , dei sionisti laici come di una fase necessaria, di scorger in loro una scintilla di divino, ecc. ecc.
Qui voglio introdurre un altro elemento: il primo movimento religioso sionista, il Mizrachi, non aveva nessuna tendenza messianica. Vedeva nello stato di Israele la salvezza del popolo. Questa è un’idea ben precedente alla shoà –anche se non abbiamo tempo di affrontare questo argomento voglio solo sottolinearlo- e che incredibilmente accomunava Herzel a rav Reines (fondatore del Mizrachi) al punto che entrambi erano favorevoli all’opzione Uganda!! E non è escluso che rav Reines intendesse con ciò proprio evitare qualsiasi implicazione messianica.
Riflettiamo sulla conclusione alla quale siamo arrivati: il ritorno a Sion non è l’esaudimento delle nostre preghiere, né l’adempimento di un nostro dovere. In realtà non ci sarebbe neanche bisogno di tornare a Sion, basta un angolo del mondo in cui ci lascino in pace. Quando infine si decide di tornare a Sion bisogna trovare una giustificazione teologica a questo ritorno. Non solo, bisogna spiegare religiosamente la necessità e la positività di un movimento sionista assolutamente a-religioso anzi spesso anti-religioso.
Evidenziamo a questo punto un altro elemento del pensiero di rav Kook che a me sembra sia stato gravido di conseguenze: rav Kook parla di nevuà, di profezia e di ruakh ha-qodesh (“spirito santo” o “ispirazione divina”).
In estrema sintesi direi che qui troviamo i due germi alla luce dei quali –esprimo umilmente un tentativo di spiegazione che va approfondito, confermato dagli studiosi- si può spiegare la deriva dell’ebraismo religioso che si ritiene continuatore dell’insegnamento di rav Kook e che rappresenta ahimè la maggior parte dell’ebraismo religioso sionista: l’era messianica e la profezia. Infatti, l’inizio dell’era messianica non può essere troppo lungo -e 60 anni sono troppi per troppa gente- e una profezia non può fallire!”
Tutti sanno che rav Zvì Yehudà Kook z”l, il figlio di rav Kook, è colui che ha trasformato l’insegnamento del padre portandolo dalle aspirazioni di riscatto dell’umanità intera, aspirazioni figlie dei tempi di Rav Kook padre, all’aspirazione nazionalista-territorialista.  “Dov’è Hevron? Dov’è Scechem?” tuonava rav Zvi Yehuda dicendo di non poter gioire di yom ha-atzmaut perché la conquista non era completa. Fu lui a ispirare il movimento Gush Emunim, e fu lui a spingere i suoi alunni a insediarsi in Yehudà e Shomron. Ma fu lui anche a semplificare la dialettica del padre portandola a un livello molto più piano, dogmatico. La guerra dei 6 giorni accrebbe ancor di più questa sua tensione messianica, fino al punto che Y. Leibowitz z”l -sempre radicale nei suoi giudizi- lo definisce senza mezzi termini “fascista idolatra”.
Ma poi venne lo schiaffo della guerra del Kippur. Qui mi permetto di riportare un’esperienza personale: forse saprete che ho vissuto tre anni in Israele. Per me, abituato a contare le guerre che Israele ha combattuto nella sua breve storia, è stato un trauma enorme scoprire come la guerra del Kippur venne recepita sostanzialmente come una sconfitta. All’inizio stentavo a capire il tono degli articoli dei supplementi dei giornali israeliani (avete presente gli interminabili “musaf shabbat”?), perché si parlasse di crollo di un mito, di sconfitta.  Forse alcuni conoscono la canzone “noi siamo i figli dell’inverno del ‘73” che è uno dei colpi allo stomaco più forti che possono riceversi in Israele.
Bene, se fino al ’67 il fervore messianico non fece che crescere, dal ’73 in poi iniziarono i problemi. Si cominciò a parlare di restituzione dei territori; si fece sempre più forte l’idea di una sorta di santità intrinseca alla terra, per cui non si poteva  rinunciare neanche a un metro quadrato di essa.
Ora: di chi è la colpa? Perché le profezie non si avverano? Rav Kook era capace di abbracciare il pioniere che gli urlava in faccia “non abbiamo bisogno di rabbini qua” . I suoi sedicenti alunni sono capaci di fare altrettanto? In genere no. Nei casi peggiori, è cronaca dell’altro ieri, sono capaci di dire al poliziotto etiope “un negro non caccia via gli ebrei”. Ora, alcuni che pure si considerano alunni di Rav Kook, per esempio rav Amital, si discostano dagli insegnamenti e dalle interpretazioni di Rav Zvì Yehudà. Ma la corrente maggioritaria lo segue.
Non solo lo segue, ma nega la possibilità di contestarlo. Siccome l’argomento è doloroso, troppo in contrasto con l’atmosfera sabbatica, faccio un solo esempio, eclatante: la soffertissima hitnatqut, (“separazione” da Gaza).
Un giorno appare su uno dei pochi giornali moderati che si trovano di shabbat al tempio, una pubblicità che riporta un’affermazione di rav Liechtenstein: “Un compromesso che ci consenta di conservare la nostra casa, seppure più ristretta, costituisce una soluzione ebraica, conforme alla Torà, spirituale e morale”. Al di là del fatto che il movimento Meimad si troverà costretto a rettificare, specificando che la citazione era presa da un altro contesto, nel numero successivo, rav Sharlo (è uno dei più carismatici del movimento Tzohar se qualcuno ne ha sentito parlare, persona aperta e moderata), si è sentito in obbligo di difendere il diritto di rav Lichtenstein ad esprimere un’opinione del genere, e della redazione di pubblicarlo!, nonostante vi vedesse un problema etico (!). Per apprezzare pienamente la gravità dell’episodio, bisogna tener presente la caratura di rav Liechtenstein, uno dei più grandi talmidè khachamim viventi, ultraottantenne, allievo di rav Soloveitchik e co-fondatore della yeshivà di Har Etzion!
Purtroppo debbo aggiungere che se leggete sia Ravitzky, sia la recentissima biografia di rav Kook curata da Avinoam Rosenak, entrambe evidenziano un problema di censura (sic) operata sugli scritti di rav Kook da parte dei suoi allievi.

Tornando al sionismo religioso, vorrei sottolineare come il festeggiare/non festeggiare yom ha-atzmaut e yom yerushalaim sia determinante. Spiega rav Amital che “Dov’è Hevron, dov’è Shechem?” trasforma la festa dell’indipendenza –che ha un valore in sé come egli si dilunga ad illustrare– in festa di conquista territoriale. E allora ecco che Yom Yerushalaim diviene più importante di Yom ha-atzmaut. Faccio notare che la rabbanut ha-rashìt inizialmente decretò che venisse recitato l’hallel con berachà a yom yerushalaim e senza berachà per yom ha-atzmaut! E’ questa anche l’occasione per citare il nostro rav Artom z’’l che pure era fortemente contrario a qualsiasi restituzione territoriale e che mi sembra ammettesse pienamente il principio di reshit tzemikhat geulatenu:
“[…] l’aspetto più grave è questo: i gruppi ‘religiosi’ vogliono sminuire l’importanza del 5 di yiar (yom ha-atzmaut), poiché questo è un giorno di festa e di gioia per tutto il popolo, senza distinzione di fede e di partito; il 28 di yiar (yom yerushalaim), invece, destinato ad essere principalmente la festa dei ‘religiosi’, destinato ad essere un ulteriore elemento dell’auto-isolamento religioso, merita di esser maggiormente rimarcato! Alla luce di ciò, meglio destinare yom ha-atzmaut anche per celebrare la liberazione di Yerushalaim […]”.
Dunque io penso che in Italia dovremmo ri-analizzare la nostra posizione riguardo a queste due feste tenendo conto dell’opinione di rav Artom.
Insomma il divario tra religiosi e non religiosi aumenta. E l’odio, o almeno il pregiudizio, è reciproco. Un esempio letterario delicato: “Gerome diventa un genio”.
Ora, fate caso: da una parte una popolazione religiosa sempre più indissolubilmente legata alla terra; dall’altra una popolazione che vi si stacca sempre di più. Per un giovane laico a Gerusalemme, ammesso che ve ne siano rimasti ancora, andare al Kotel non è significativo, semplicemente non ci si va, mai. Recentemente si è parlato del film “Qualcuno con cui correre” tratto dall’omonimo libro di Grossman. Bellissimo. Però fate caso come quasi invariabilmente la critica sottolinei l’ambientazione in scenari non “classici” di Gerusalemme. Mi sembra che da parte della popolazione laica ci sia un costante desiderio di dimostrare l’esistenza di una cultura israeliana non legata all’ebraismo, del quale pertanto rimuove ogni simbolo. Sarà mica un caso che A. B. Yehoshua identifica nella lingua l’unico retaggio autentico dell’ebraismo! E se lui , come Amos Oz, Grossman, ecc. fanno volenti o nolenti uso abbondante di espressioni tolte ai khachamim, è nata una generazione successiva di scrittori che non ha più neanche quello.
Ma non sono solo i laici a non fare la tefillà per lo stato di Israele. Loro, da questo punto di vista, semplicemente non fanno tefillà, ma sono generalmente vicini ai sionisti religiosi perché fanno tutti il militare. La “tzavà” è un collante enorme, come tutti sapete; è quello, lo accenno soltanto, che consente il “ghiur sociologico”: si scannino pure i rabbini a stabilire se i ghiurim del tribunale speciale di rav Druchman sono validi o no (discussione in sé gravissima!). Il fatto assai più significativo è che la maggior parte non fa neanche richiesta. Non ne ha nessun bisogno, nessuna esigenza. Si integra nella società israeliana senza bisogno di conoscere alcun rabbino e il servizio militare ne suggella l’ingresso in società laddove non fosse già avvenuto prima. C’è una fetta importante della popolazione israeliana, segnatamente quella che viene dall’ex-URSS che non ha nessun legame con l’ebraismo, e in questo caso neppure con la cultura israeliana.
Ma torniamo a noi. Chi non prega per lo stato di Israele sono i kharedim, che allo stato di Israele si rapportano come a qualsiasi altro stato: con gli “shtadlanim”: quanto posso ottenere dallo stato? Però ora sono stabilmente alla Kneset, influenzano tutto: dalla politica agli scavi archeologici, ai lavori per la metropolitana, alla rabbanut ha-rashìt ai suoi tribunali, ovviamente! Sono una presenza sempre più cospicua e nonostante le dichiarazioni ideologiche, sempre più coinvolta, ma che, a differenza dell’ebraismo sionista non prende responsabilità per gli altri: la grandezza , lo splendore di rav Kook sta nel farsi carico dell’intera popolazione. Il kharedì è ancorato all’interpretazione ‘ammecha=im ‘osè ma’asè ‘ammecha , cioè “la solidarietà esiste solo con chi si comporta secondo il modo che si addice al tuo popolo”, ossia osservando le mitzwot ( e osservandole come dicono loro!)

La tefillà li-shalom medinat Israel è emblematica anche per il fatto che ci sono frange sempre più importanti proprio della tradizione datit che ne cambiano la formula o non la recitano più affatto: auspicano che vengano scelti alla guida dello Stato uomini “valorosi, tementi del Signore, uomini onesti che detestano il lucro iniquo”  implicando con ciò che chi ne è oggi alla guida non ha questi requisiti, oppure recitano sheteè reshit tzemikhat geulatenu, sicché lo Stato di Israele ad oggi non è l’inizio del germoglio della redenzione ma si auspica che possa diventarlo, e tante altre ancora. Qualcuno si è divertito a contare le varianti proposte, circa 60.

Infine, la tefillà li-shalom medinat Israel è significativa per la sua seconda parte: “we-et akhenu col bet Israel peqod na micol artzot pizureem…” – “E i nostri fratelli della casa di Israele ricorda, orsù, in tutte le terre in cui sono dispersi…” perché ci mette ineluttabilmente di fronte alla questione di quale senso abbia recitare una tale tefillà in diaspora, come pure siamo abituati a fare nelle comunità italiane.
Assai concisamente dirò che la definizione più calzante per molti di noi ebrei italiani è quella di “sionista vigliacco”, che non ha il coraggio di dare seguito coerente alle sue idee, come si legge nel libro “Melagrana” di L. Tagliacozzo.
Ancor più lapidario è Vittorio Dan Segre: “Cosa tiene lontano gli ebrei da Israele? La paura e la mentalità diasporica” . Anche qui l’interrogativo si farà sempre più pressante, visto che se già oggi la maggior parte del popolo ebraico si stima viva in Israele, nel giro di 10-15 anni il rapporto Israele-diaspora potrebbe divenire 70% – 30%, marcando così come decisamente minoritario l’ebraismo diasporico.

Nonostante tutte le cose, anche molto dure che ho detto, lo Stato di Israele si distingue dalle altre nazioni del mondo per la sua capacità e la sua volontà di risolvere i problemi, per il suo ottimismo, che recentemente rav Riccardo Di Segni ha sottolineato come l’unica cosa “non normale” nel succitato romanzo di Grossman, ma che è vera, meravigliosamente vera in generale.
Vorrei pertanto concludere invitando tutti a recitare domani con devozione la tefillà per lo stato di Israele avendo la cawanà di mettere in pratica personalmente la sua seconda parte, andando “a testa alta alla tua città, Sion!”.