Dal Moked di Parma: Roberto Della Rocca “Giosuè e Calev, due percorsi differenti e paralleli nel rapporto con Eretz Israel”

La mia riflessione prende spunto da a una delle più conosciute, ma anche delle più tragiche pagine della storia del popolo ebraico. Si tratta dell’ episodio della delegazione che Moshè manda in Eretz Israel per una missione esplorativa. La rappresentanza dei 12 Principi delle Tribù di Israele oltre a riferire sulla fertilità della Terra lamenta però l’impossibilità dell’impresa della conquista, data la superiorità della popolazione che già è insediata nella terra di Kenaan. La conseguenza di questo comportamento di sfiducia sarà più grave di quelle del peccato di idolatria del “vitello d’oro”, in quanto il popolo ebraico dovrà permanere  nel deserto per altri 38 anni (per un totale di 40 anni).
Da questo episodio infatti scaturiranno la distruzione del Tempio e l’esilio. La Torà (Numeri; 14, 1) riferisce che ascoltando il resoconto degli esploratori: “…e pianse il popolo in quella notte”. Il Midrash afferma che D-o disse: “Voi avete pianto per niente, io stabilisco che questa notte sarà per voi una notte di pianto”. Quella notte infatti era il 9 del mese di Av. Quindi il pianto isterico e gratuito del popolo ebraico  che rifiuta di andare in Eretz Israel diviene la causa della notte della distruzione del Tempio e dell’oscurità dell’esilio. Con un significativo paradosso, che non si armonizza molto con le categorie della storia, i Maestri stanno affermando che la data dell’esilio è stabilita ancor prima dell’ingresso in Eretz Israel! La Parashà di Shelach Lechà si conclude con il precetto relativo allo tzitzit :”E sarà per voi come tzitzit, e lo vedrete e ricorderete tutte le mizvot del Signore e le eseguirete; e non esplorerete appresso ai vostri cuori ed appresso ai vostri occhi, appresso ai quali voi vi prostituite.” (Numeri 15, 39).
Rashi’ in loco  interpreta cosi’:  “e non esplorerete appresso ai vostri cuori: come: dall’esplorare la Terra (13, 25). Il cuore e gli occhi sono esploratori per il corpo e gli propongono le trasgressioni, l’occhio vede ed il cuore desidera, ed il corpo compie la trasgressione”. Che significa ‘non esplorare appresso ai pensieri del cuore ed alla vista degli occhi’? Il Sefer HaChinuch dice testualmente che: “Il senso di questo divieto è che dobbiamo evitare di pensare idee che sono l’opposto dell’idea sulla quale la Torà è costruita, dal momento che è possibile da qui passare all’eresia; ed allo stesso modo che l’uomo non insegua la vista dei suoi occhi ed in questo contesto che non insegua appresso ai desideri di questo modo poiché la loro fine è cattiva ….”. Ed aggiunge il Sefer HaChinuch quanto dice il Sifrì in loco, ossia che ‘appresso ai vostri cuori’ indica l’eresia, ed ‘appresso ai vostri occhi’ indica la prostituzione. Ci troviamo eccezionalmente di fronte una mitzwà che ci impone di controllare la nostra mente e di rinunciare volontariamente a pensieri ed idee che sono contrarie alla Torà. A questo proposito sempre Rashì nota come la stessa radice verbale alla base del divieto, l’esplorare, il latur, sia anche la radice chiave dell’episodio raccontato all’inizio  della Parashà, la tragica esplorazione della Terra d’Israele. “e non esplorerete appresso ai vostri cuori: come: dall’esplorare la Terra (13, 25).
Il cuore e gli occhi sono esploratori per il corpo e gli propongono le trasgressioni, l’occhio vede ed il cuore desidera, ed il corpo compie la trasgressione”. Rashi’ sta affermando che  gli occhi ed il cuore sono strumenti che D-o ci ha dato per servirLo e per relazionarci con il mondo. Siamo però noi che dobbiamo indirizzare questi e non viceversa. Il motivo  per il  quale noi mettiamo i Tefillin alla radice della nostra testa, e non come è scritto “in mezzo ai tuoi occhi”, và forse ricercata nel fatto che dobbiamo guardare l’altro e affrontare le situazioni con la “testa” e non viceversa facendoci portare “in giro” dagli occhi. Per questo motivo la mitzwà dei Tefillin può essere eseguita soltanto dal momento in cui uno riconosce “l’altro” ad almeno 2 metri di distanza. E’ proprio nella volontà di anteporre gli occhi e il cuore e di verificare quello che D-o dice, che si fonda il fallimento della missione degli esploratori: la causa pertanto è il sentimento di sfiducia. Alcuni commenti tentano tuttavia di capire in profondità le reticenze degli esploratori che, ricordiamolo, non erano persone qualunque, erano persone di vaglia, erano i rappresentanti del popolo. Alcune riserve erano di natura etico- morale: che diritto abbiamo noi su questa terra? Questa terra è gia abitata! Un’altra riserva era di tipo spirituale-religioso. Gli esploratori si sono detti: “..ma chi ce lo fa fare…!,  ci nutriamo della manna, un cibo che viene direttamente dal cielo, possiamo occuparci di Torà e del suo studio tutto il giorno, perché dovremmo rinunciare a tutto questo per iniziare una vita dura piena di incognite, con un lavoro che ci impedirebbe di dedicare  tempo ed energie allo studio della Torà?”. Ma è veramente questo lo scopo dell’ebraismo?
Distaccarsi dalla vita quotidiana per dedicarsi interamente allo spirito? Certamente no. Il nostro obbiettivo è quello, piuttosto, di portare la kedushà nella vita materiale di tutti i giorni. Affermano i Maestri che  Eretz Israel è una di quelle tre cose che come la  Torà e l’Holam Abbà si acquista con issurim, con sofferenza.  Il Maharal di Praga nel suo testo Netzach Israel ci fa notare che il testo che leggiamo a Tishà Beav è il libro di  Ekhà, che ha le stesse lettere della parola Ajeka quella domanda retorica che D-o pone al primo uomo chiedendogli “dove sei?” , per insegnarci che l’esilio non è una questione esclusivamente geografica. Il libro di Ekhà è scritto tra l’altro in forma acrostica ( il primo verso inizia con la alef, il secondo con la bet e cosi’ via..). C’è tuttavia un’eccezione: il verso che inizia con la lettera “pe” precede quello che inizia con lettera “ain” (nell’alfabeto ebraico invece la ain viene prima della pe). Sappiamo che la parola  “pe” significa  bocca e che la parola  ain vuol dire occhio. Ciò significa che la causa del primo Tishà beav della storia ebraica è rappresentata dal fatto che  gli esploratori hanno fatto precedere la bocca agli occhi, hanno denigrato Eretz Israel ancora prima di averla vista, e questo è l’origine di ogni pregiudizio e di ogni posizione precostituita. L’esegesi rabbinica stigmatizza molto questo aspetto sottolineando come  gli esploratori si sono recati in Eretz Israel già ideologicamente prevenuti, “…ci andrò ma prima devo vedere  se mi piace….!”.
In fondo gli esploratori hanno solo riportato la verità dei fatti e di ciò che hanno visto.Quale è allora la loro vera colpa? Il fatto che alla loro relazione oggettiva hanno aggiunto un “però”….! E’ non è forse cio’ che esprimiamo ogni giorno nei nostri giudizi politici, morali, sociali e religiosi su Eretz Israel? “Si Israele è bella… ..però…!”. Per la Torà vivere in Eretz Israel, amare Eretz Israel,  è una mitzwà, che come per tutte le altre mitzwot,  và vissuta senza “ma” e senza “però”… !
Ma il giudizio più severo che Maestri del Talmud esprimono sugli esploratori è quello che si riferisce alla valutazione che i delegati esploratori fanno di loro stessi: “Eravamo come cavallette ai nostri occhi e tali eravamo ai nostri occhi…”. Quando un individuo si considera ai propri occhi una nullità appare tale anche agli occhi degli altri.  E’ pericoloso sottovalutarsi! Il problema degli esploratori è stato proprio quello di farsi un “tour” (incredibile coincidenza omofonica tra l’ebraico e l’inglese!) in Israele.  A Rehov Dizzengoff ci sono dei bei negozi e dei bei caffè ma forse è meglio…..  Via del Corso…!
Oppure confrontare il mare di Eilat con quello della Sardegna! A livello individuale due sono gli esploratori che si distinguono perché, come noto, non si associano al resoconto negativo degli altri dieci: si tratta di Hoshea figlio di Nun della tribù di Efraim e di Calev figlio di Jefunnè della tribù di Jeudà. Solo Jehoshua e Calev capiscono che non è questo il modo giusto di rapportarsi a Eretz Israel. Questi due approcci, diversi nella forma ma simili nell’intenzione, garantiscono l’incolumità dei nostri due personaggi. La Torà dice che Moshè cambiò il nome di Hoshea in Jeoshua. Egli voleva che la protezione Divina (simboleggiata dalle prime due lettere del nome di D-o) facesse scudo ad Hoshea affinché non divenisse complice del complotto degli esploratori. Si tratta delle due lettere del Nome di D-o che compaiono nel giuramento che il Signore fa al termine della battaglia contro Amalek guidata dallo stesso Jeoshua. Hoshea diviene quindi Jeoshua. Prende le iniziali del Nome di D-o, viene chiamato con il Nome di D-o.  Il Midrash afferma che la lettera jod aggiunta  è la stessa che è stata tolta a Saraj quando è divenuta Sarà, come se qualcosa appartenente alla prima ebrea per la quale viene acquistata Eretz Israel (Abramo acquista il terreno di Chevron per seppellire Sarà) viene restituito a colui, Giosuè, che per primo entrerà in Eretz Israel. Questo cambiamento del nome rappresenta quindi un segno esteriore di un percorso interiore ben più profondo. Jeoshua costituisce il paradigma  del “shimush chachamim”, il servizio dei Maestri. Jeoshua è colui che non si distanzia mai dalla Tenda dello studio della Torà. Prima di partire per la difficile missione,  Moshè concretizza  questa dimensione spirituale rendendo Jeoshua, il suo discepolo per eccellenza,  portatore del Nome Divino.
Se Jeoshua è colui che tiene saldo il legame Maestro-Discepolo , colui che non si stacca mai dalla tenda dove si studia Torà,  Calev è invece colui che ristabilisce il rapporto con la catena della Tradizione. Il testo della Torà dice ‘E salirono nel Neghev e giunse a Chevron’. Il passaggio del verso dal plurale al singolare viene interpretato dal Midrash come indicatore del fatto che solo Calev andò a Chevron ricongiungendosi con le radici storiche e religiose. Calev voleva pregare sulla tomba dei patriarchi per invocare il loro merito come antitodo contro la possibile seduzione ideologica degli altri dieci esploratori (il primo “ minian” della storia ebraica).
Calev è colui che tiene saldo il rapporto con gli antenati andando a Chevron sulla tomba dei Patriarchi, perché se non ci si ricorda da dove si viene non si può sapere dove si va. Rabbi Nachman di Breslav diceva: “in ogni luogo in cui vado sto andando verso Erez Israel.” Questa consapevolezza del rapporto atavico con la Terra è necessaria per santificare questa Terra altrimenti si rischia un rapporto di tipo feticistico .Se i dieci esploratori portano i frutti di Eretz Israel, Jeoshua e Calev  tornano a mani vuote.  Jeoshua è colui che viene chiamato con il Nome di D-o e chiamato a succedere a Moshè. Calev sarà invece l’unico ebreo a  vedersi chiamato proprietario di un pezzo specifico di Eretz Israel. Abbiamo visto come questa storia evidenzi  un significativo  parallelismo  tra il divieto di pensare contro la Torà ed il precetto di farsi degli tzizziot con il quale si chiude la  Parashà degli esploratori. Se è vero che lo tzizzit  costituisce l’antitodo al vagare appresso al desiderio degli occhi e al desiderio  del cuore, perchè vedendo lo tzizzit che ho indosso mi ricordo della Torà, questa storia ci insegna che verso Eretz Israel si può andare solo se si impara ad ammantarsi con il Nome di D-o.