Dal Moked di Parma: Donatella Ester Di Cesare “Terra-madre o terra-sposa? Sion e l’avvenire della storia ebraica”

1. “Normalizzazione degli ebrei”?

In una lettera a Walter Benjamin della primavera del 1931 Gershom Scholem, già emigrato in Palestina, scrive all’amico rimasto in Europa:

Non credo che ci possa essere una ‘soluzione della questione ebraica’ nel senso di una normalizzazione degli ebrei, e non credo certo che in tal senso questa questione possa essere risolta in Palestina – mi era e mi è sempre stato chiaro che la Palestina è necessaria” .
È come se qui Scholem volesse dire che la Palestina è necessaria, ma non sufficiente, necessaria per la questione ebraica, nei termini drammatici in cui si va ponendo nel Novecento, ma non sufficiente. Perché quella fascia di terra ristretta non può essere assunta come il confine ultimo, come il fine del popolo ebraico. La terra rinvia oltre sé alla promessa.

2. Israele: uno stato-paria

Nell’era degli stati-nazione è oggi l’esistenza del popolo ebraico nella sua forma statale che sembra cristallizzare la sua illegittimità. Quel che nei secoli passati era l’ebreo singolo, è ora lo stato di Israele. La questione ebraica è divenuta una questione planetaria. Dopo Oslo, e soprattutto dopo la conferenza di Durban del 2001, l’esclusione mondiale di Israele ne ha fatto lo stato-paria per eccellenza. Unico stato le cui frontiere non sono riconosciute, è il bersaglio in tutte le arene internazionali. Basterebbero poche cifre. Tra il 1948 e il 1991 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha emesso 175 risoluzioni sul conflitto mediorientale di cui 97 contro Israele, 4 contro i paesi arabi; l’Assemblea generale ha emesso 322 risoluzioni che condannano Israele, nessuna contro i paesi arabi. Ma non si tratta solo di cifre. E la situazione è non solo complessa; ha uno spessore tale da richiedere una riflessione pacata e approfondita che spesso la frettolosa applicazione di categorie dell’attualità finisce per oscurare e anzi per impedire.
È noto l’argomento che conduce a ritenere illegittimo lo stato di Israele: l’esistenza di uno stato ebraico sarebbe segnata da un peccato originale, cioè dall’ingiustizia commessa verso il popolo presunto autoctono, quello palestinese, che sarebbe stato scalzato da un “popolo straniero”, quello ebraico. L’argomento si fonda dunque sull’estraneità  del popolo ebraico rispetto al paese contestato. Già straniero fra gli altri popoli, viene considerato straniero anche in quel che considera il suo essere presso di sé. Al popolo ebraico non spetterebbe dunque nessun posto nel mondo. Il che equivale a un verdetto sulla sua esistenza, se esistere vuol dire essere in un luogo. Ma se il popolo ebraico è sopravvissuto a venti anni di esilio, è perché è rimasto legato a Sion, rivolto con la sua speranza a Gerusalemme. Negare la sua storia è come negare la sua esistenza.

3. Quale sionismo?

Alla fine della modernità, e dunque anche della modernità ebraica, occorre meditare sugli esiti dell’emancipazione, ma anche sulla filosofia che la sottende. Nel mondo illuminato ed emancipato sono stati gli individui, astratti e generici, per così dire depurati dal loro ebraismo, ad essere stati accettati. Il popolo ebraico, appunto in quanto popolo, è rimasto del tutto al di fuori. Il sionismo politico è stato l’unico movimento – a parte il Bund, la lega dei lavoratori ebrei – a chiederne il riconoscimento. Il merito del sionismo è stato di aver creato una cittadinanza ebraica nell’età degli stati-nazione; senza uno Stato di Israele l’emancipazione si sarebbe pericolosamente arrestata, dato che la modernità politica si basa su due pilastri: il cittadino e lo stato-nazione.
C’è tuttavia una dimensione tragica del sionismo che occorre mettere allo scoperto. Accettando la dialettica dei Lumi e dell’emancipazione, Theodor Herzl e i fondatori del sionismo non hanno riconosciuto la natura della modernità politica che rifiuta la differenza del popolo ebraico . È proprio l’ebraismo del popolo ebraico che resta fuori dalla modernità degli stati-nazione. Sta qui la tragicità del progetto sionista teso a iscrivere il popolo ebraico nell’emancipazione che volgeva al termine. Così ha risuscitato il ricordo del popolo assente, senza tuttavia renderlo presente nella sua storicità. Ma già Buber scrive nel 1944:

Finché si interpreti il concetto di Sion semplicemente come una delle tante idee nazionali, non si può arrivare a comprenderne il vero significato .

“Essere come gli altri” – questo è stato sempre il desiderio degli ebrei moderni, il motore dell’assimilazione. Ciò che oggi è in questione è proprio il desiderio di normalizzazione degli ebrei che si è tradotto nella volontà che lo Stato di Israele sia uno stato come tutti gli altri, assolutamente normale. Non per caso il progetto sionista si è avvalso di due mezzi che sono anche i criteri della normalità: la terra e l’identità. Questa territolizzazione identitaria implica una definizione negativa non tanto della vita diasporica, quanto più profondamente dell’esilio. Ma così il sionismo politico finisce per concepire negativamente la stessa ebraicità che non è una tecnica di sopravvivenza nell’esilio, ma un modo altro di esistere.

4. Estraneità. Sulla vocazione di Israele

Questo modo altro di esistere, che è il modo di essere ebrei, non è la condizione del paria, bensì la condizione dello straniero. Rispetto all’autoctono, a chi crede di essere radicato dall’origine, lo straniero, pur essendo residente, ha un rapporto del tutto diverso con la terra, con l’altro, con se stesso. Questa estraneità, che Israele è stato chiamato a testimoniare nella storia del mondo, questo esilio dell’esistenza, che a ben guardare è tutt’uno con l’esistenza, segna la condizione umana, cancellata e rimossa nei secoli. La normalizzazione degli ebrei ha voluto sopprimere questa estraneità. Svuotata e banalizzata, l’estraneità è stata ridotta al suo opposto, all’identità identitaria.  Ma così si è finito per non comprendere che l’estraneità è una identità che apre all’alterità dell’altro.
È nell’estraneità che si compendia il concetto di “popolo ebraico”. Ed è l’estraneità che ha costituito lo specifico della sua presenza-assenza nella storia. In tal senso non si può parlare né di una assenza dalla storia del “popolo eterno”, né perciò del suo ingresso nella storia . La storia ebraica è una storia dell’estraneità che, pur interagendo, non può essere allineata, come ha preteso il sionismo, alla storia dell’autoctonia dei popoli. Si è consumata qui la conflittualità tra il principio illusorio dell’autoctonia e l’estraneità di cui si è fatto carico il popolo ebraico non solo individualmente, ma come comunità, e vivendola non solo in termini esistenziali, ma anche in termini politici.
Perciò l’ebraismo, malgrado il contrasto che lo oppone allo “stato”, è strettamente connesso alla dimensione politica. Certo non alla politica della modernità, né tanto meno a quella dello stato-nazione. Va da sé che sotto il governo dello stato-nazione, che è solo una delle possibili forme di articolazione dell’umanità, è non senza dubbio quella definitiva, non ci sono più popoli, ma una “nazione”.  È lo stato che istituisce la nazione. Il popolo ebraico, disperso fra gli altri, appare irriducibile a un solo territorio e a una sola nazione. Questa irriducibilità, che paradossalmente si ripropone anche quando gli ebrei creano il proprio stato-nazione, questa irriducibile estraneità è lì per denunciare la nazione inchiodata all’immanenza del potere e del territorio, per smascherare l’autoctonia che genera i falsi sentimenti di sicurezza, continuità, forza, per indicare i pericoli del radicamento e dell’identità territoriale. Ma soprattutto l’estraneità di Israele è la spina nel fianco dello “stato” che nella sua immanenza idolatrica, nella sua sovranità demiurgica, così tellurica e così radicata, nel suo asfittico paganesimo nega ogni possibilità di un oltre, nega l’oltre dell’altro, l’Alterità della trascendenza. Senza stato, Israele ha vissuto oltre lo stato, nell’al di là anarchico che ha segnato il suo profetismo, senza venir meno alla necessità dell’ora, ma senza neppure smettere di guardare, nell’ora, all’oltre messianico di ciò che è a venire. È la Presenza divina, che non si incarna nel corpo del popolo, ma è sempre anche assente, a rendere impossibile la pienezza dell’autoctonia, a iscrivere la separazione nel cuore stesso dell’identità. Così Israele testimonia l’estraneità che è il principio costitutivo di tutta l’umanità, iscritto nell’identità di ogni individuo.
Questo non significa per nulla subire passivamente la condizione di paria; piuttosto e ben di più vuol dire fare dell’estraneità il principio di una nuova azione nella storia, di una nuova strategia esistenziale, etica, politica – di un’altra politica. Quel che l’umanità sperimenta attraverso Israele è il limite dello stato-nazione fondato sulla territorializzazione dell’identità collettiva e sull’esclusione dello straniero. Se tutti nello scenario attuale lo vivono, è Israele a porlo al mondo come questione.

5. La Terra e la questione del ritorno

Finché è in esilio, è Israele a portare l’estraneità nel mondo. Ma che cosa accade alla fine dell’esilio? La fine dell’esilio è segnato dal ritorno alla Terra. L’importanza della Terra è fondamentale; sta nel cuore del dramma dell’esilio. Ma nell’ebraismo il ritorno degli ebrei a Sion non può essere preso per un semplice ritorno al luogo d’origine. La questione che si pone è quella del ritorno. Se il momento del ritorno è tra i più difficili, è perché si può rischiare di prendere il ritorno per un semplice radicamento.
La Terra di Israele non è una terra ancestrale, non è rivendicata come “terra-madre”. Quando si dice Sion, la città del “Gran Re” (Sal 47,3) si rinvia a una terra promessa, una terra-sposa, si rinvia allo “sposalizio” – come scrive Buber – di un popolo santo con una Terra santa. La promessa della terra è la condizione perché possa nascere la comunità di un popolo “santo” . Ma in nessuna epoca della storia di Israele questa terra è stata semplicemente possesso del popolo. Perché sposandola il popolo deve dall’unione santa dare vita a qualcosa di nuovo – a  venire. La terra non è un oggetto passivo, ma è attiva e vivente. Come la terra ha bisogno del popolo, così il popolo ha bisogno della terra – ciò che avverrà sarà perciò opera della storia e della natura. La terra a sé stante e il popolo a sé stante potrebbero essere considerati normali, ma nella loro relazione reciproca sono un unicum senza paragoni. Sottrarsi a questa unione vuol dire far crollare tutto ciò che è stato costruito; realizzarlo è l’inizio di una nuova convivenza umana. A guidare questa impresa è una fede storica nel D-o di Israele che conduce nella Terra prima i padri e poi il popolo per fini storici.
Come i padri fondatori, come il popolo che esce dall’Egitto, così gli israeliani di oggi: il popolo ebraico viene da altrove ed è promesso a quella terra, come quella terra gli è promessa. Il che vuol dire che il popolo ebraico non è il prodotto della terra, del territorio. Il suo rapporto con la terra non è quello dell’autoctono, non può rivendicare e non rivendica una autoctonia. Il suo rapporto con la terra è retto da una esteriorità, da una estraneità, da una separazione che vanno lette non in termini di negazione, ma positivamente. In questa separazione si iscrive la terra “santa”, che non è sacra e non va sacralizzata.
La sacralizzazione significherebbe un rapporto idolatrico con la terra, una identificazione (per ottenere anche una identità), un radicamento, una fusione. Al contrario – come insegna la Torah – la terra è santa, perché è separata: anzitutto dalla naturalità degli altri territori, ma anche per il rapporto che il popolo ebraico intrattiene con questa terra. La terra è “santa” perché il popolo ebraico mentre vi si insedia, non si radica, ma se ne separa. Abita questa terra in modo diverso dal consueto, normale abitare degli altri popoli; abita come uno straniero residente, un ospite che sa di essere ospite. L’accettazione di questa condizione è per la Torah la condizione della permanenza dell’abitare nella Terra promessa.

Mia è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori presso di Me (Lev 20, 23).

D’altronde, chi sono gli abitanti originari, i primi occupanti, gli autoctoni, di questa terra – ma di ogni terra? L’eco di questa estraneità originaria c’è già nella Torah; Israele si dirige verso la terra promessa dall’esterno. E ogni volta che Israele compare su questa terra, si pone la questione dell’estraneità. Il che poi vuol dire che ogni popolo è invasore di una terra che non gli appartiene e che può abitare solo salvaguardando il ricordo della sua originaria estraneità. Ma così Israele ricorda a tutti i popoli della terra che non sono autoctoni, ma solo ospiti. Il grande insegnamento della Torah è proprio questo: l’uomo non è mai autoctono sulla terra; la sua condizione è sempre quella dello straniero-residente, dell’ospite su una terra che non gli appartiene.
Il ritorno di Israele nella Palestina è allora la possibilità aperta di un nuovo abitare. In discussione non è la delimitazione della terra, ma il rapporto con la terra e con i suoi abitanti. È qui che si gioca la promessa di un nuovo abitare. Non si tratta di essere dominati, perché si può mantenere il principio dell’autonomia senza abdicare alla politica aperta all’estraneità. Piuttosto si tratta di abitare altrimenti. È in tal senso che il sorgere di Eretz Israel nel cuore della Palestina rappresenta uno scandalo intollerabile per tutte le nazioni, la minaccia di un superamento dello stato-nazione, l’apertura dunque di un nuovo ordine mondiale. Ma a ben guardare nell’assunzione dell’estraneità e nella possibilità di rilanciarla in una strategia dell’estraneità si decide la questione stessa dell’essere-ebrei oggi.

6. Che cos’è la “terra promessa”?

In ebraico la parola per “straniero” gher è connessa con il verbo “abitare” ghar. Abitare vuol dire allora restare pur sempre stranieri. Ma come si può abitare restando pur sempre stranieri? In altri termini: che cosa vuol dire, dopo l’esilio, il ritorno? Quale sarà il luogo elettivo del ritorno? E che cos’è la terra promessa?
A questa domanda molto attuale si può tentare di rispondere risalendo alla Torah. Abramo lascia la sua città nativa non per errare nel deserto, ma per ritornare alla terra promessa, una terra ben più ampia di quella della sua origine, la terra elettiva sopravvenuta nell’appello all’esilio. L’esilio marca qui un risveglio della coscienza e Abramo sa dove viene e sa dove va, perché accetta il comando di andare in esilio – lech, lechah! – per far ritorno. Il suo ritorno è una sorta di riparazione, la matrice di una ri-nascita di sé attraverso l’altro, e dell’altro da sé. Un’altra parola per ritorno può essere teshuvàh. Così l’esilio, mentre pratica l’accoglienza dell’estraneità in sé, forza l’altro ad accogliere lo straniero. In tal senso è già esperienza di ospitalità.
Dopo l’esilio il ritorno non può essere un semplice rimpatrio, un ritorno a casa. L’esiliato ha scoperto infatti che il luogo di partenza era già un luogo d’esilio. Nel lasciarsi alle spalle l’origine si volge allora non verso il luogo di un radicato essere-presso-di-sé, ma a quello di un elettivo essere-presso-l’altro. Il ritornare a sé si rivela un andare verso l’altro. Il luogo non-luogo dell’origine che non c’è, che non c’è più, viene reinterpretato come luogo che non c’è ancora, ma che ci sarà, luogo che è oltre e altro, luogo a venire dell’altro, promessa che viene dall’altro . Il luogo del ritorno è dunque quello della promessa.
Ma non si tratta di una terra da possedere. La terra verso cui Abramo ritorna è la “terra promessa”, cioè una terra fatta di parole – se la promessa è anzitutto parola. Promessa non è allora la terra; promessa è la parola. Il che vuol dire che la terra nella sua mera fisicità non può essere il luogo elettivo del ritorno. Si dovrebbe riflettere qui su due espressioni importanti: adamàh, la terra nella sua fisicità, e aretz, quando diciamo appunto: Eretz Israel. Questo non significa per nulla che la terra del ritorno sia una terra immaginaria. La terra del ritorno è una terra concreta. Ma ciò che è nuovo è il rapporto con la terra che, in quanto è “promessa”, non è più appropriabile; è anzi inappropriabile. La promessa resta a interdire l’appropriazione della terra.
Il momento del ritorno è sempre quello più difficile. Può indurre Israele a definire il futuro, a chiuderlo, limitarlo. E può spingerlo a regredire all’immanenza spaziale. In questa sorta di incipiente vita sedentaria Israele potrebbe essere portato a credere che la terra, quella terra dell’elezione, gli appartenga, che sia terminata la sua condizione di straniero, che la sua estraneità possa essere revocata da una nuova radicata identità. Perciò potrebbe non esibire disposizione all’ospitalità. Ed è certo in questo momento che potrebbe celarsi ogni violenza.
Ma il popolo ebraico non può dimenticare di esser solo un ospite sulla terra, non può dimenticare la sua condizione di “straniero-residente”. È la Torah a ricordarglielo. A questo proposito Shmuel Trigano richiama alla memoria la levitizzazione della terra .
All’indomani dell’uscita dall’Egitto le tribù di Israele si dividono la terra promessa, ad esclusione della tribù di Levi che, dispersa tra le altre tribù, viene sostentata dalle altre e abita solo in alcune città chiamate città-rifugio. Il che vuol dire non solo che la terra promessa non può essere totalmente divisa. Di più: quando il popolo ebraico si insedia, preserva in sé, attraverso i leviti, la condizione dello straniero, mantiene quel principio di estraneità che impronta tutte le sue strutture politiche, economiche, religiose. Ai leviti spetta infatti la responsabilità dell’Arca dell’Alleanza e dunque della “tenda della radunanza” in cui dimora la Shekhinah, quella Presenza che non può mai essere presente e rinviando ad una Assenza impedisce il radicamento e ingiunge ogni volta il congedo.
Lo statuto di “straniero-residente” non può non avere effetti sulla “città”, cioè sulla forma in cui dimora la comunità. Perché mettendo in questione il “proprio” e la “proprietà”, chiede una volta per tutte diritto di cittadinanza per l’estraneità.

7. Il resto di Israele

Israele rimane nel sistema internazionale della mondializzazione un resto inassimilabile che, come scriveva già Emmanuel Lévinas, ha irritato e irrita la sovrana autocoscienza delle nazioni stabilmente sostenute dalla incrollabile esperienza della terra nella loro salda affermazione di sé . Come se, nel processo inarrestabile della mondializzazione ci fosse un resto che, nella sua estraneità, fa resistenza e si sottrae alla fusione. Ed è interessante che ciò avvenga grazie alla fondazione e dopo la fondazione dello Stato di Israele. A riprova però che lo stato applicato al popolo ebraico non può avere come risultato l’eliminazione dell’estraneità. Israele nella sua estraneità che trascende la storia dei popoli resta più che mai a testimoniare la necessità di un oltre della storia, la fedeltà alla sua attesa messianica, il ricordo del futuro, la rievocazione del mondo a venire, l’impellenza del ritorno a Sion.
Ostacolo a qualsiasi tentazione totalitaria, Israele resta nella sua dissidenza originaria, resiste nella sua esigenza irriducibile di giustizia fatta valere nella storia del mondo. Ben più di ogni altro confine, è il suo bordo escatologico che Israele deve preservare. Più che mai la terra santa appare nella sua separazione una frontiera in cui, grazie a Israele, può dischiudersi l’a venire di un nuovo ordine del mondo. È questa responsabilità della sua elezione che attende Israele sull’ultima trincea della terra data per promessa.