21/02/2009 – Aspetti di storia della medicina ebraica: la figura del medico rabbino – Maria Silvera
Un convegno internazionale dal titolo del nostro articolo ha avuto luogo a Roma, dal 22 al 23 settembre, per il volere del CeRSE (Centro Romano di Studi sull’ Ebraismo) dell’ Università Tor Vergata e dell’ AME Italia (Associazione Medica Ebraica) con il patrocinio dell’ Ordine dei Medici di Roma.
In una sala accogliente della Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata si sono susseguite diverse relazioni in cui accanto alla lettura storica o dalla medesima emergevano modelli di riflessione significativi per la nostra epoca e considerazioni etiche che hanno impegnato una intera sezione della seconda giornata.
Fin dall’ intervento di Roberto Bonfil che ha aperto la sezione storica con il tema dei rabbini-medici in Italia nel Medio Evo e nel Rinascimento ci rendiamo consapevoli delle possibilità creative di tale ruolo. Bonfil, infatti, ne ricorda la funzione di mediazione culturale e sociale. In una gerarchia dove il potere e il sapere coincidono, nel ‘200, soprattutto i medici rabbini traducono testi di medicina, curano chi detiene il potere invertendo, per certi aspetti, il rapporto forza – debolezza esistente sia all’ interno della scala gerarchica dei Gentili sia tra mondo ebraico e mondo non ebraico.
Nel ‘600 invece, ci dice Giorgio Cosmacini (La medicina ebraica in Italia dal Seicento all’ età dei Lumi), il contributo dei medici rabbini fu marginale e nel contempo la loro prestazione richiesta e apprezzata. Questo perché erano emarginati dai centri di potere scientifico, ma erano più preparati dei loro colleghi cristiani, più attenti al rapporto mente – corpo, grazie alla vicinanza al sacro. Per darci una chiara esemplificazione Cosmacini ci parla di Jacob Zaalon e della peste di Roma del 1656 terminando la sua relazione con la lettura della preghiera, molto “moderna”, di questo personaggio engagé.
Perché questa attenzione responsabile e colta, particolare per quei tempi, del medico ebreo alla persona malata?
Dall’ Università di Halle-Wittenberg Giuseppe Veltri ci viene a dire che la libertà del pensiero ebraico è nata col pensiero rabbinico e che la medicina ha parte nella riflessione talmudica. Ci ricorda che prendersi cura della salute è un obbligo nell’ Ebraismo e ci racconta un simpatico midrash sull’ incontro tra due medici rabbini e un contadino che leggeremo negli Atti del Convegno.
A questo punto, durante la discussione è naturale domandarsi dove si formassero questi medici dopo la costituzione dei ghetti. Cosmacini risponde spaziando dall’ Università di Padova a quella di Ferrara, all’ “autoeducazione permanente”.
Che cos’ avevano i medici ebrei nelle loro biblioteche nel periodo dell’ espulsione dalla Spagna ci viene fatto vedere da Laura Minervini. Della sua relazione non riporto i nomi dei medici scrittori di cui ci parla né delle loro opere, riferisco solo del ruolo culturale e sociale che sottolinea in quanto traduttori dall’ arabo e, perciò, intermediari e conservatori dell’ arabo che sarebbe altrimenti svanito scomparso nel mondo cristiano spagnolo.
Successivamente Gianfranco Di Segni ci offre un interessante esempio di discussione halakhica percorrendo un viaggio a ritroso di tre secoli. Siamo a Ferrara dove spesso competenze mediche e rabbiniche confluivano nelle medesime persone. Qui nasce Isacco Lampronti, la cui opera principale, Pachad Itzchak, è una vastissima enciclopedia medica. Di Lampronti dunque veniamo a conoscenza di raccomandazioni al medico, ancora attuali, da seguirsi nell’ esercizio della sua professione, e di estratti di una discussione con il suo maestro. I pareri divergenti di questa parrebbero esprimere inspiegabili contraddizioni, ma è proprio attraverso la disamina dei differenti livelli della questione halakhica che G. Di Segni ci conduce al termine del viaggio, a oggi, quando siamo portati a riflettere sui molteplici significati di problematiche che toccano salute, pensiero e fede.
Anche Ariel Rathaus dandoci un quadro della pratica poetica fra i rabbini – medici italiani tra XVII e XVIII secolo segnala dei modelli che anticipano l’ intellettuale ebreo dei tempi moderni, quando questi medici scrivono sul tema della conoscenza in termini di conflitto tra cultura sacra e profana. Dal CNR di Parigi è venuto Gad Freudenthal per darci una panoramica del milieu medico ebraico nel corso di alcuni secoli, XII – XV, soffermandosi soprattutto sulle traduzioni dall’ arabo all’ ebraico e dal latino all’ ebraico di opere scientifiche, filosofiche e mediche, traduzioni rese necessarie dal bisogno di ampliare la clientela (apportando le conoscenze derivanti dai testi latini di cui erano provvisti i medici cristiani) e dal bisogno di trovare dei rimedi alternativi a quelli, spesso impuri, dei colleghi cristiani. Siamo, così, accompagnati alla sezione etica che ha occupato un’ intera giornata e a cui ha dato inizio Giuseppe Lissa, docente di Filosofia Morale all’ Università “Federico II” di Napoli. La sua dotta dissertazione ha preso le mosse da Tommaso D’ Aquino per cui null’ altro “est quam ratio divinae sapientiae, secundum quod est directiva omnium actuum et motionum”.
Coincidono essere e bene, procede Lissa, quindi anche norma logica e norma morale e l’ uomo agisce tentando di realizzare lo scopo di ritornare allo spirito assoluto. Lo spazio per il problematico è pertanto ridotto. Il medico, per restare nel nostro ambito, può agire basandosi su tracce morali già segnate e sui principi che applicherà alle situazioni concrete.
Vengono descritte altre strade fino ad aprire quella che dichiara fondante l’ umano sulla fragilità e sulla responsabilità, strada che ritiene tracciata dal pensiero ebraico del ‘900 di cui ricorda, esponente di rilievo, E. Lévinas. Il Dio della tradizione ebraica è il Dio dell’ etica. L’ uomo è la sua responsabilità e la sua responsabilità nasce nel volto dell’ altro. L’ identità del medico quindi si costruisce insieme all’ altro, sofferente, di cui si prende cura. E di quanto la cura debba essere anche conoscenza bioetica lo dimostra Benjamin Gesundheit che illustra il piano di formazione della Hadassah di Gerusalemme in cui si integrano bioetica laica ed etica medica ebraica. Le fonti per gli studi non mancano, da Bibbia e Mishnà a Avraham Steinberg di cui è noto il recente codice di etica medica. Gesundheit invita a introdurre questo programma di formazione anche a Roma coinvolgendo educatori, medici, rabbini…
A Roma intanto operano e studiano Riccardo Di Segni e Cesare Efrati.
Il primo, vicepresidente della Commissione Nazionale di bioetica, inizia argutamente definendo quella dei medici – rabbini una categoria a rischio di estinzione e non protetta. Procede discorrendo con molta lucidità e vivacità degli stadi iniziali della vita riportando responsi halakhici, sottolineando l’ importanza del rapporto tra legge religiosa e legge dello Stato e sollevando il problema della responsabilità vincolante del parere sulla decisione in diverse situazioni. Relativamente alla vita del feto piuttosto che alla ricerca sugli embrioni pone interrogativi e riferisce interpretazioni che stimolano all’ obbligo morale di non fermarci alla prima, più ovvia, risposta ai problemi.
La medicina moderna ha allungato la vita, ma ha anche allungato i tempi della morte, questa è la tematica di cui ha trattato Cesare Efrati che ha parlato di accanimento terapeutico, eutanasia attiva ed eutanasia passiva, ha ricordato casi dolorosi della vita israeliana e riportato altri dalle scene cinematografiche.
Tanto altro potremo leggere negli Atti di cui saremo debitori, come per tutto il Convegno, all’ Ospedale Israelitico di Roma e a Teva Italia oltre che al CeRSE ( in primis Myriam Silvera) e all’ AME