25/11/2008 – Aspetti di storia della medicina ebraica – Filippo De Rossi
“La figura del medico rabbino” è stato il tema del convegno internazionale svoltosi il 22-23 settembre all’Università di Roma “Tor Vergata”, a cura del CeRSE (Centro Romano di Studi sull’ Ebraismo) e dell’Associazione Medica Ebraica, con il patrocinio dell’Ordine Provinciale dei Medici-Chirurgi e degli Odontoiatri di Roma e l’importante contributo economico dell’Ospedale Israelitico di Roma e della Teva-Italia. Le due intensissime giornate sono state divise in una “Sezione storica” ed una “Sezione etica”, con l’intenzione, nella prima, di offrire una panoramica su alcune delle più rilevanti figure di medici-rabbini della storia ebraica, facendo particolare riferimento al periodo dal XV al XIX secolo, mentre nella seconda si sono tratteggiati alcuni momento della discussione su etica e bioetica medica dal punto di vista ebraico.
Questa la visione d’insieme di un seminario il cui obiettivo era di tessere il filo di alcune questioni fondamentali che possono riassumersi a grandi linee nelle seguenti domande:
come deve comportarsi oggi il medico dovendosi confrontare da una parte con gli straordinari passi in avanti fatti dalla scienza e dall’altra con l’influenza derivante dalle diverse tradizioni religiose?
Può aiutarci la storia a risolvere i problemi del presente cercando di comprendere il comportamento di grandi uomini di altre epoche in situazioni analoghe?
E il moderno dibattito etico e bioetico può essere risolto, o quantomeno coadiuvato, dal confronto con i Testi Sacri (in questo caso relativi alla tradizione ebraica)?
Questioni del genere, sulle quali il dibattito internazionale sull’etica medica articola i suoi discorsi da ormai più di mezzo secolo, non trovano nella realtà dei fatti semplici risoluzioni, considerando soprattutto la molteplicità di punti di vista sul tema. In questi due giorni si è cercato tuttavia di inquadrare (senza avere ovviamente la pretesa di esaurirlo) il pensiero ebraico in questo panorama, dando la parola ad alcuni illustri oratori.
Dopo le presentazioni iniziali, cui hanno presieduto coloro che si sono adoperati perché questa giornata vedesse la luce (a parte gli organizzatori dell’evento Guido Coen, Riccardo Di Segni e Myriam Silvera), il Rettore dell’Università ospitante di Tor Vergata Alessandro Finazzi Agrò, il preside della Facoltà di Lettere e Filosofia Rino Caputo; Francesco Scorza Barcellona, coordinatore del CeRSE; Mario Falconi, Presidente dell’ OMCEO; Renzo Gattegna, Presidente dell’UCEI; Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, Giorgio Coen, Presidente dell’Ospedale Israelitico di Roma), si è aperta la seduta con l’intervento di Roberto Bonfil, noto professore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, che ha messo in luce come il ruolo del rabbino-medico avesse una fondamentale funzione di “mediatore di equilibri” all’interno della comunità, dovendo intrattenere, soprattutto in forza degli studi di medicina, rapporti con l’esterno.
Se talvolta il ruolo di medico era assunto dal rabbino semplicemente in virtù del suo ruolo carismatico in seno alla comunità, possiamo dire che sovente la sua preparazione tecnica era di prim’ordine se paragonata a quella dei medici gentili. Ampie documentazioni riportano infatti la presenza di medici ebrei nelle corti d’Europa al servizio dei sovrani, a sottolineare l’alto credito che ad essi era stato dato già a partire dal XII secolo, come confermano le ricerche di Laura Minervini, esperta di lingue e letteratura ebraica spagnola, che ha portato testimonianza dell’opera di letterati e medici ebrei, i quali si sono adoperati nella creazione di una biblioteca medica ebraica, attraverso la traduzione di opere arabe, latine e greche. Anche in questo caso gli ebrei svolsero la funzione di mediatori tra due mondi, stavolta però tra quello cristiano e quello arabo. È proprio grazie a questo costante lavoro di recupero che non sono andate perdute molte importanti opere mediche in epoca medievale e rinascimentale.
Giorgio Cosmacini ha riportato invece l’episodio della peste di Roma del 1657, che anche l’antica comunità ebraica romana ha vissuto nella sua tragicità. Durante il contagio fu istituito per la prima volta un lazzaretto per ebrei situato alla Porta del Ponte (di fronte al ghetto). In questo tragico contesto il medico-rabbino Ja’acov Zahalon offriva le sue cure indistintamente ad ebrei e non ebrei: cure e prescrizioni evidentemente efficaci, visto il bassissimo numero dei morti in percentuale rispetto ai cristiani, calcolato dal Gastaldi. Giuseppe Veltri dell’Università di Halle-Wittemberg e David Gianfranco Di Segni (Biologo del CNR di Roma) hanno discusso invece il problema storico dell’istruzione medica degli ebrei dal periodo medievale a quello illuminista: l’unica università italiana ad accettare non cristiani era quella di Padova; nella maggior parte dei casi dunque la formazione dei giovani medici avveniva in forma di autodidatta attraverso lo studio personale di testi arabi tradotti in ebraico o comunque, in generale, di testi gentili. Nonostante questo, almeno fino all’epoca della Controriforma, i medici ebrei furono molto ricercati, come detto, persino dai sovrani all’interno delle corti.
Tra gli illustri esempi di medici ebrei laureati in quelle università europee che erano disposti ad accettarli troviamo il caso di Isacco Lampronti (1679-1756), celebre rabbino-medico operante a Ferrara e autore della maestosa opera enciclopedica: “Dizionario Rituale in lingua ebraica” (un vasto lavoro che riprende, in ordine alfabetico, molti temi del Talmud e della letteratura talmudica). Sarà attraverso l’analisi di alcuni passi di quest’opera che Di Segni arriverà a toccare l’ambito dell’etica medica in relazione alle Sacre Scritture. La ripresa di un passo apparentemente privo di rilievo ha infatti evidenziato il profondo legame con le problematiche odierne: secondo la legge ebraica era possibile uccidere pidocchi di Sabato poiché era credenza diffusa che tali animaletti si autogenerassero. Solo dopo la scoperta del microscopio venne messo in luce l’errore, grazie alla possibilità di vederne le minuscole uova. Dopo essersi reso conto dell’evidenza scientifica, Rabbi Lampronti si adoperò perché la Legge fosse cambiata: gli antichi saggi non erano a conoscenza di questi fatti, alla luce dei quali sarebbe stato ingiusto proseguire sulla vecchia strada. La questione ci porta nel vivo del problema dell’etica: come si possono integrare le conoscenze medico scientifiche con la tradizione religiosa?
Questo il tema centrale della seconda giornata, cui hanno dato il loro contributo esperti di rilievo, tra cui Benjamin Gesundheit della Hadassa University Hospital di Gerusalemme, che ha proposto lo sviluppo, all’interno dell’ordine medico ebraico, di un’etica che abbia come punto di riferimento la Halakhà, cioè la normativa ebraica: seppure questa non può certo rispondere a tutte le questioni che la contemporaneità ci pone, deve essere considerata come un faro orientativo nella formazione del giovane medico; devono essere però gli insegnanti a favorirne lo sviluppo utilizzando un metodo pedagogico specifico.
Il rabbino Riccardo Shmuel Di Segni, recentemente nominato vicepresidente della commissione nazionale di bioetica, introduce invece il discorso sulla “bioetica degli stadi iniziali della vita”. Nel corso del suo intervento sono stati messi direttamente a confronto il pensiero ebraico, quello cristiano e quello laico nei riguardi di alcune situazioni specifiche: la formazione della vita nell’embrione, le possibili modalità di aborto, i permessi e i divieti relativi alla madre, l’utilizzo di embrioni per lo sviluppo delle cellule staminali. Sono state qui messe in luce differenti posizioni dottrinali tra ebraismo e cristianesimo, derivate talvolta da una differente lettura del testo biblico (provocate per la maggior parte dalla traduzione dei Settanta della Bibbia dall’ebraico al greco), tal altra dagli ampi dibattiti della letteratura talmudica, estranea alla prospettiva cristiana.
Cesare Efrati, medico dell’ Ospedale Israelitico di Roma, ha poi trattato la questione bioetica degli stadi terminali della vita, affrontando la delicata questione dell’eutanasia in tutte le sue forme: suicidio assistito, eutanasia attiva (quella che comporta cioè un’azione positiva da parte del medico), eutanasia passiva (pratica medica di forma omissiva, che consiste nell’astensione dall’intervenire per tenere in vita il paziente); è stato inoltre dibattuto il problema opposto consistente nell’accanimento terapeutico.
Per chiarirci la questione nelle sue reali implicazioni Efrati ha citato situazioni particolari verificatesi, spiegando i diversi comportamenti tenuti da medici ebrei, laici o cristiani.
Anche in quest’ ambito il pensiero ebraico offre un ampio dibattito derivato da differenti interpretazioni dei testi sacri.
Tutte le questioni bioetiche affrontate nel corso della giornata si trovano al momento nell’occhio del ciclone di un acceso dibattito, che ha coinvolto la politica del nostro Paese durante la scorsa campagna elettorale. La rilettura in chiave ebraica di tali questioni, offrirebbe a tutti gli addetti ai lavori la possibilità di un confronto con una cultura sempre vivace e attiva in grado di fare del dibattito e del confronto costante il suo punto di forza che le permettono di rinnovarsi e di tenersi passo con i tempi. Lungi dal provocare uno sterile muro contro muro, la ripresa della letteratura tradizionale e lo studio della storia degli uomini, sembrerebbero in grado di aprire nuove strade favorendo un processo dialettico creativo.
Se dunque sembra essere di fondamentale importanza fornire strumenti etici in grado di guidare gli uomini negli anni a venire, è con occhio benevolo che dovremmo guardare ad una comunità che fa del confronto a viso aperto il suo punto di forza.
È la storia stessa ad insegnarci come qualsiasi tipo di fondamentalismo sia assolutamente deleterio nell’economia delle società; una saggia integrazione tra moderno e antico potrebbe essere la miglior soluzione per superare le sfide che la società contemporanea ci pone.