La Milà – Attualità di una tradizione antichissima
Aspetti giuridici attuali
Sebbene la pratica della milà induca, necessariamente, a tener presenti gli aspetti giuridici che possano da essa derivare, non si può, in nessun caso, prescindere dal significato religioso che le si attribuisce e cioè quello che, “ad ogni padre compete il precetto di circoncidere il proprio figlio o di accordare l’incarico di farlo ad un altro ebreo”.
E’ proprio questo il precetto che viene tramandato da secoli, da generazione a generazione e che oggi, però, rischia di assumere un risvolto ben differente.
In America, lontano da noi ma non troppo, a San Francisco, per la precisione, sono state raccolte 12.000 firme per votare a novembre una proposta di legge che qualifica la circoncisione come reato (in California, a Santa Monica, la stessa riforma legislativa verrà votata nel 2012).
In particolare, la circoncisione su un bambino minore degli anni 18 potrebbe essere considerata delitto punibile con la pena della reclusione fino ad un anno o con la multa di 1000 $.
In America, quest’idea è nata dalla volontà di tutelare il bambino da ogni pratica che in qualche modo possa arrecare danni fisici e morali; il bambino, insomma, secondo questa “nuova” visione, “deve essere protetto dal male e dal dolore causato dalla circoncisione forzata”.
Se così fosse, dunque, la circoncisione diventerebbe una di quelle che gli americani chiamano cultural offence un reato, cioè, culturalmente orientato che presenta la struttura del vero e proprio reato (fatto-antigiuridicità-colpevolezza-punibilità). Ciò che nel reato culturalmente orientato rileva non è il conflitto interno, bensì il conflitto esterno che si realizza quando una persona che ha assorbito le norme di cultura di un gruppo migra in un’altra area dove queste norme non sono presenti. Chi commette il reato in condizione di conflitto esterno lo fa perché resta fedele alle norme di condotta del proprio gruppo, ai valori che ha interiorizzato nei primi anni della propria vita.
Se la questione sollevata a San Francisco non spaventa perchè troppo distante dall’Italia, dovremmo invece preoccuparci di quello che succede più vicino a noi. Un accenno merita perciò il caso che sta nascendo in Germania dove alcuni studiosi si sono chiesti se la pratica della circoncisione rituale possa rientrare nel reato di mutilazione corporale disciplinata dall’art. 223 del codice penale tedesco; secondo una rigida interpretazione del codice penale tedesco la circoncisione rituale (degli ebrei e dei musulmani) praticata a scopo religioso potrebbe non essere accettabile da uno Stato di diritto i cui valori sono contrari agli attacchi all’integrità del corpo umano.
Passando all’Italia, le problematiche da affrontare sono differenti.
Sul tema della circoncisione non esiste, infatti, una legislazione che specifichi il soggetto che può praticarla e il luogo in cui può essere praticata. Vi è un vero e proprio vuoto legislativo.
Oggi, la circoncisione rituale viene praticata dal mohel all’ottavo giorno dalla nascita del bambino solitamente in casa o, in ogni caso, fuori da ambienti riservati al servizio nazionale ospedaliero.
La l. 8 marzo 1989 n. 1011 (Intesa) sulle norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane riconosce, implicitamente, la conformità della pratica circoncisoria ebraica ai principi dell’ordinamento giuridico italiano.
Vi è un riconoscimento indiretto della liceità dell’usanza religiosa che può ricavarsi dalla lettura combinata degli artt. 2.1 e 25 della l. 101/89. Viene infatti garantito il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti con l’aggiunta, che l’attività religiosa e culturale ebraica si svolge liberamente in conformità dello Statuto dell’ebraismo italiano senza ingerenza da parte dello Stato e degli enti territoriali.
Nel 2008, a seguito della morte di un bambino nigeriano di due anni2 circonciso in casa, il Ministero della Salute con la Federazione Italiana Medici Pediatri ha stipulato un protocollo d’intesa per una maggiore tutela della salute dell’infanzia riguardo la problematica della circoncisione rituale clandestina. Il protocollo, volto alla protezione dei bambini dalla pratica della circoncisione effettuata al di fuori dell’ambito medico ospedaliero o in assenza di garanzie medico-sanitarie, è stato stilato con riferimento alle circoncisioni rituali riferite principalmente a quelle praticate dai musulmani, con il tentativo di estenderla analogicamente a quella degli ebrei. Alla base di questo vi è l’idea della salvaguardia del diritto all’integrità fisica, psicologica e morale dei bambini. Il pensiero comune è quello che la pratica circoncisoria sia, a tutti gli effetti, un intervento chirurgico e come tale debba sempre essere praticato da un medico in una struttura sanitaria adeguata che assicuri il rispetto delle norme di igiene, per evitare complicanze invalidanti e conseguenze drammatiche che mettano in pericolo la salute del bambino. L’accordo prevede un monitoraggio del fenomeno attraverso un’adeguata informazione nei punti di nascita e negli ambulatori dei pediatri e che i professionisti, in caso di pratica, si informino sull’orientamento religioso della famiglia del neonato e rendano note alla famiglia tutte le possibili implicazioni e complicanze che la pratica comporta.
In realtà, il protocollo potrebbe aver senso con esclusivo riferimento alla circoncisione rituale tradizionale dei bambini musulmani che avviene in età avanzata (dai 5 ai 10 anni) e che realmente può comportare ripercussioni a livello fisico e psicologico.
Il discorso è diverso, però, per quanto riguarda la circoncisione rituale religiosa come è quella ebraica che viene compiuta su un bambino che ha otto giorni di vita e che non può lasciare traumi di alcun tipo, soprattutto a livello psicologico.
Fatto sta che questo protocollo d’intesa pone, oggi più che mai, l’obbligo di valutare quali risvolti giuridici, nell’ordinamento italiano, comporta la circoncisione rituale.
In primo luogo, è bene domandarsi se la circoncisione rituale possa considerarsi o meno un atto medico.
Non esistendo una definizione precisa di atto medico si fa riferimento alla consolidata interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, l’atto medico non può che essere quello diretto alla prevenzione, alla diagnosi o alla cura delle malattie fisiche o psichiche, oppure al lenimento relativo al dolore.
Da questo si deduce che la circoncisione non è un atto medico perché non ha alcun fine terapeutico bensì è un atto di natura esclusivamente religiosa.
Trattandosi dunque di circoncisione rituale che non ha alcun fine terapeutico, non esiste, di conseguenza, nessun motivo per ritenere che debba essere praticata da un professionista sanitario. Al contrario, dovrà essere compiuta da un soggetto qualificato, il mohel, aderente alla medesima religione e tradizione.
Appurato che si tratta di un atto di natura religiosa, il primo dato da tenere in considerazione è che l’atto compiuto dal mohel integra il reato di lesione personale (art. 582 c.p.) in base al quale chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.
Il punto è che il taglio fatto al bambino determina una, seppur minima, alterazione anatomica irreversibile. Questo, secondo la giurisprudenza dominante, basta a determinare una malattia di lieve entità richiesta dal codice penale affinché si integri la fattispecie oggetto di reato. Va inoltre osservato che è individuabile il dolo generico perché l’atto è compiuto dal soggetto agente con la consapevolezza che la propria azione provoca o può provocare danni fisici al bambino. Sono questi gli aspetti che così come analizzati integrano il reato lesioni personali.
A questo punto, che cos’è che può quindi giustificare l’operazione effettuata dal mohel?
Il primo riferimento è quello che deriva dalla Costituzione perché l’art. 19 riconosce il diritto alla libertà di religione purchè non vengano compiute pratiche contrarie al buon costume. Questo non è certo il caso della circoncisione perché non può considerarsi una pratica contraria ai principi etici o alla morale sociale e non pregiudica la sfera dell’intimità e della decenza sessuale della persona. Inoltre, l’art. 30 Cost. riconosce il diritto-dovere dei genitori ad educare i figli e, sicuramente, l’educazione religiosa rientra nei parametri costituzionali.
Il secondo riferimento è quello già ricordato dell’Intesa, il terzo e più rilevante elemento di sostegno è quello del consenso dell’avente diritto previsto dall’art. 50 c.p.
Il consenso, che in questo caso viene prestato implicitamente dai genitori dell’avente diritto, è importante perché scrimina il comportamento di colui che lede o mette in pericolo un diritto altrui. Il consenso è valido ed efficace se è prestato per il compimento di atti che rientrano in quelli di disposizione del proprio corpo consentiti (art. 5 c.c.).
L’individuo può liberamente disporre della scelta degli atti da compiere sul proprio corpo ad eccezione di quelli che cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica, di quelli contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
Nel caso che ci interessa, però, la medesima disponibilità deve estendersi nei confronti dei genitori del neonato. I genitori, in virtù del diritto all’educazione religiosa che gli compete prestano il loro consenso per il figlio.
Ma fino a che punto il consenso dell’avente diritto produce effetto?
Il consenso può scusare la pratica effettuata dal mohel fino a quando le conseguenze lesive non sono tali da generare una menomazione permanente o, fino a quando il soggetto agente (mohel), nel corso dell’operazione, non mostra segni negligenza, imprudenza o imperizia.
Potremmo discutere a lungo sulla prevalenza o meno del diritto alla salute rispetto al diritto alla religione ma qui il dibattito sarebbe troppo lungo per il semplice fatto che il diritto alla salute costituzionalmente sancito è un diritto inviolabile e, dunque, in un bilanciamento degli interessi in gioco, prevarrebbe rispetto al diritto alla libertà di religione. Ci accontentiamo quindi di specificare che nel caso di una circoncisione rituale andata a buon fine, il consenso dell’avente diritto scrimina l’operato del mohel .
Il secondo aspetto importante attiene al luogo in cui la circoncisione può essere compiuta.
Ad oggi, la circoncisione viene compiuta in casa o comunque in luogo privato perché, in quanto atto di natura religiosa, oltre ad essere nell’intenzione delle famiglie ebree quella di mantenere una certa riservatezza e familiarità nel compimento del rito, in ogni caso, esso non può beneficiare di alcun un intervento solidaristico da parte dello Stato che altrimenti agevolerebbe una confessione religiosa piuttosto che un’altra. La laicità Stato italiano, infatti, non può giustificare l’agevolazione dell’interesse e delle esigenze delle pratiche religiose degli appartenenti alla religione ebraica così come quelle di ogni altra confessione religiosa.
Quali potrebbero essere allora le possibili soluzioni?
Una proposta di legge che si proponga come fine quello di praticare la circoncisione rituale in una struttura medica non è auspicabile e non risolverebbe i problemi. In primo luogo, perché la circoncisione è espressione di un rito secolare, intimo e familiare che non può, pertanto, essere riconosciuta come un atto medico a scopo terapeutico, in secondo luogo, perché, se fosse praticata presso un servizio sanitario richiederebbe la presenza di un soggetto qualificato ad operare in una struttura sanitaria, quindi di un medico.
Non sembra inoltre ipotizzabile la previsione di una circoncisione in ambito ospedaliero compiuta dal mohel coadiuvato da un medico professionista. Non si eliminerebbero i rischi ed anzi, a livello giuridico la situazione sarebbe ben più grave. Il mohel potrebbe incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione medica (art. 348 c.p.) e, insieme al medico, in concorso di reato, risponderebbe di lesioni personali (artt. 110 e 582 c.p.).
Forse, effettuare la circoncisione nell’ambito dell’Ospedale Israelitico, riconosciuto dall’Intesa come ente avente finalità di culto, potrebbe essere una soluzione condivisibile.
O forse, l’ipotesi praticabile, a questo punto, potrebbe essere quella di individuare una figura che, al tempo stesso, sia qualificata da un punto di vista religioso per assicurare la massima ritualità e solennità della pratica e che sia qualificata da un punto di vista medico per garantire l’attenzione e la riduzione dei rischi prevedibili.
Diletta Perugia
1 – Il comma 3 dell’art. 8 Cost. prevede che i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono regolati per legge sulla base di Intese. L’Intesa così regola i rapporti complessivi tra Stato econfessione religiosa e che sono elaborate e stipulate nell’ambito di una contrattazione tra Governo e rappresentanza confessionale.
2 – Sul punto vi è stata una pronuncia del Tribunale di Padova, 9.11.2007, K. S., madre del bambino nigeriano, condannata per il reato di cui all’art. 348 c.p. alla pena di euro 320 di multa.