Aspetti di bioetica secondo l’ebraismo – Santità della vita

C’è un tempo per nascere, un tempo per morire
(Ecclesiaste 3, 2)

Santità della vita

Il testo fondamentale dell’etica ebraica (e non solo) è quello dei Dieci Comandamenti: questi ricoprono tutto il campo dell’etica, che comprende il rispetto della personalità nelle sue varie manifestazioni: l’azione, la parola, il pensiero. Le due tavole della Legge sono tra loro connesse in vario modo e quello più immediato può essere individuato nella relazione che si può stabilire tra i comandamenti che si trovano allineati nella stessa posizione sulle tavole. Il primo – Io sono il Signore tuo Dio – e il sesto – Non uccidere – sono i primi in ciascuna tavola: la creazione dell’uomo a immagine divina trova il suo compimento e il suo limite normativo attraverso il comandamento “Non uccidere”. Al momento della procreazione, oltre ai genitori, è presente la Shechinà, la divina immanenza. L’uomo non è padrone del suo corpo e non gli è concesso togliersi la vita o toglierla ad altri.

Secondo la Legge ebraica, ma anche secondo le Sette leggi di Noè (le sette leggi dell’etica universale che si deducono dal testo biblico e che, secondo la tradizione rabbinica, Dio stesso avrebbe dettato a Noè), la vita è sacra e, in pratica, non può essere tolta se non nei casi di legittima difesa. Quindi, la scelta di interrompere le cure, quando questa porti a una morte certa, in linea di principio rientra nel comandamento Non uccidere. Bisogna, tuttavia, valutare in quali casi sia permesso astenersi dal continuare le cure.

Diritto alle cure e compiti del medico

I Maestri si pongono innanzitutto il problema se l’uomo abbia il diritto di curarsi. Troviamo la risposta in questo breve racconto (Midrash Shemuèl, 4; Midrash Temurà 2).

Una volta rabbì Akivà e rabbì Ishmaèl, passeggiando assieme a una terza persona per le strade di Gerusalemme, incontrarono un malato.

Questi chiese loro: “Maestri, ditemi come posso curarmi”.

Gli dissero: “Fai in questo modo, fino a che guarirai”.

Il malato domandò: “Chi è che mi ha colpito con questa malattia?”.

Gli risposero: “Il Signore, che sia benedetto”.

Il malato disse: “E voi vi permettete di entrare in un ambito che non è il vostro? Egli colpisce e voi guarite? Non contraddite la sua volontà?”.

Gli chiesero: “Che lavoro fai?”.

Rispose: “Lavoro la terra, come vedete ho la falce in mano”.

Gli dissero: “Chi ha creato la vigna?”.

Rispose: “Il Signore, che sia benedetto”.

Gli dissero: “E tu ti permetti di entrare in una cosa che non è tua? Egli l’ha creata e tu ne cogli i frutti?”.

Rispose: Ma se non uscissi ad arare, tagliare, concimare e togliere le erbacce, il campo non produrrebbe nulla”.

Gli risposero: “Sciocco! facendo il tuo lavoro non hai mai sentito il verso che dice: ‘I giorni dell’uomo sono come l’erba? Come l’albero non cresce, se non si tolgono le erbacce, si concima e si ara – e quando è cresciuto, se non viene annaffiato e concimato, finisce di vivere e muore – così accade per il corpo’. Il concime sono le medicine e il contadino è il medico”.

Questo apologo riflette una problematica più generale che troviamo nel Talmud: la malattia che colpisce l’uomo e le sofferenze che l’accompagnano, in quanto emanazione della volontà divina, forse hanno uno scopo per quell’uomo e quindi dobbiamo accettarla e non ricorrere a cure per eliminarla. Tuttavia qui viene in soccorso la Torà scritta. Al cap. 21, 19 dell’Esodo troviamo scritto che, quando qualcuno percuote una persona, ha l’obbligo farla curare e di pagare le cure necessarie: quindi è necessario che qualcuno si occupi delle cure. Si può quindi affermare che il medico svolga una funzione complementare a Dio stesso e la sua opera non solo non è una concessione, ma è una precisa chiamata da parte di Dio a completare la creazione. Tuttavia, il suo intervento è concesso solo nella misura in cui cura e guarisce, e non se mette in atto misure che servono solo a prolungare le sofferenze.

Ma quando il malato si trova in imminente pericolo di vita, quali sono i limiti entro cui il medico può muoversi? Fino a che punto deve spingersi nelle cure o interromperle per risparmiare inutili sofferenze al malato?

Definizione di morte e possibilità di interrompere le cure

Possiamo definire come morte il processo attraverso cui le varie cellule muoiono in diversi stadi. Ma quali sono le cellule o i sistemi, morti i quali, per mancanza di ossigeno o di energia, si può dire che la morte sia irreversibile? Ecco alcune definizioni:

  1. morte biologica: morte di tutte le cellule
  2. morte cardiopolmonare: perdita irreversibile di ogni attività cardiaca, di circolazione sanguigna e sistema respiratorio
  3. morte cerebrale: perdita completa e irreversibile di ogni attività cerebrale (compresa la corteccia: metodo BAER).

I poskim (i maestri che hanno il compito di stabilire il comportamento da assumere specie di fronte a nuovi casi) non sono concordi su quale debba essere la definizione accettabile dal punto di vista della legge ebraica: alcuni tendono ad accettare la seconda definizione, altri (per esempio l’Assemblea dei rabbini d’Italia) la terza, purché il controllo venga realizzato con il metodo BAER, che è più restrittivo di quello accettato dalla legge italiana.

I Maestri sono in genere concordi nell’affermare che “se è chiaro che il respiro e il battito cardiaco sono fermi, è permesso staccare il respiratore automatico ed è proibito riapplicarlo” (Hilkhòt Rofeìm uRfuà, p. 203-4 ). Il malato non deve essere sottoposto a cure (come ossigeno o infusioni) che abbiano il solo fine di creare una situazione artificiosa di rinvio del decesso. Tuttavia, se le cure sono in corso, non vanno però interrotte, ma se la bombola si vuota o l’infusione finisce, non si è tenuti a rinnovarle.

Un altro aspetto è quello della rimozione degli impedimenti artificiali che impediscono la morte.

Ad esempio sono permessi i farmaci antidolorifici, purché non siano dati proprio per affrettare la morte.

La preghiera fatta per accelerare la morte di un paziente, affinché questi possa finire di soffrire, è permessa sia al malato che a terzi (l’invocazione deve essere generica e i mezzi messi a disposizione dalla medicina si devono essere rivelati inutili), ma è proibita ai parenti. Fonte di questo insegnamento è il libro medievale Sefer Hasidim (cap. 234) che afferma che “quando un uomo è in agonia, non si prega affinché continui a vivere, perché non potrebbe vivere che pochi giorni e con grandi sofferenze”. Proprio partendo da questa affermazione, alcuni Maestri affermano che, in uno stato terminale accompagnato da forti dolori, non va fatta alcuna azione che possa prolungare la vita.

Il malato terminale

Piuttosto che analizzare in dettaglio il problema del malato terminale dal punto di vista della legge ebraica, può essere interessante e utile analizzare come i principi “religiosi” della legge ebraica siano stati recepiti dalla legge in vigore nello Stato d’Israele, elaborata dalla Commissione diretta dal rabbino Avraham Steinberg (la legge è entrata in vigore il 15.12.06). Israele è infatti il primo paese in cui elementi “secolari” e “religiosi” abbiano prodotto un documento accettato da entrambe le parti. Ecco i principi sui quali si basa la legge in questione:

  • Il malato terminale è colui le cui aspettative di vita non superano i sei mesi.
  • La legge riconosce un documento firmato da una persona sana che chiede ai dottori di non fare uso di tecniche di rianimazione, se la stessa si trova in condizioni terminali.
  • La legge è un’espressione significativa dei diritti a un trattamento medico e a un aiuto umanitario, nel rispetto della dignità umana e della libertà individuale.
  • La legge riconosce i diritti dei membri della famiglia e di altre personalità di supporto (personale medico e rabbini) di ricostruire la volontà del malato terminale che abbia perso le proprie facoltà mentali.
  • La legge richiede che i dottori devono notificare ai malati terminali le aspettative di vita (inferiori ai sei mesi) e devono chiedere se il malato è interessato a un supporto artificiale per prolungare la vita.
  • Nessuna azione può essere fatta per accorciare la vita del paziente (eutanasia).
  • La commissione Steinberg raccomanda di connettere le macchine che consentano la continuazione della vita a un timer che potrebbe essere rinnovato periodicamente.
  • Se un paziente chiede di essere disconnesso dalla macchina non gli si dà retta, ma si consentirà al timer di intervenire secondo le procedure generali (come su descritto).

Alcuni rabbini non concordano con queste procedure e molti notano che i pazienti accettano con riluttanza l’idea di essere già inclusi nella categoria delle persone destinate a morire a breve. Si tratta di aspetti psicologici di rilevante importanza di cui la commissione deve tenere conto.

Sclerosi amiotrofica e stato vegetativo persistente

La sclerosi amiotrofica e lo Stato vegetativo persistente sono i due casi che hanno suscitato l’interesse dell’opinione pubblica e sui quali il dibattito in Italia, sia nei media che nel Parlamento, è stato molto vivace.

La tradizione ebraica stabilisce che ogni caso va valutato singolarmente e va trattato con le dovute cautele, pur tenendo conto delle direttive generali.

Ecco alcune indicazioni generali per il malato di sclerosi amiotrofica oppure per i malati in stato vegetativo persistente

  • E’ permesso non collegare al respiratore un malato in queste condizioni per la sofferenza che gli si causa per il resto della vita, purché il malato lo abbia esplicitamente richiesto quando era sano (opinione espressa dai rabbini Oierbach, Eliashiv e Lau).
  • Bisogna comunque alleviare le sofferenze al malato.
  • Se il malato viene colpito da polmonite, gli si somministrano antibiotici per via orale, ma se non vuole che gli si prolunghi la vita, non deve essere obbligato a ricevere le medicine per infusione.
  • E’ proibito provocare direttamente la morte.
  • Il malato che ha un’aspettativa di vita superiore ai 12 mesi, non può essere considerato in agonia.
  • Va rianimato come ogni malato (secondo il principio “Non restare inerte di fronte al pericolo del tuo fratello”).
  • Se si teme che egli stia soffrendo, vi è chi dice che si può evitare di prolungare artificialmente la vita.
  • In caso di crisi cardiaca a causa della malattia, non si deve procedere alla rianimazione.
  • L’alimentazione e l’idratazione vanno continuate, ma non vi è l’obbligo di inserire, nell’alimentazione, medicine che abbiano uno scopo curativo. Non è stato ancora valutato nella sua giusta dimensione il problema di quanto i moderni sistemi di idratazione e alimentazione possano essere configurati come trattamento terapeutico in una certa misura artificiale.
  • Si consiglia in generale di fare ricorso al testamento biologico.

Conclusioni

  • Secondo quanto stabilito dal testamento biologico, la commissione che deve prendere la decisione se interrompere le cure o meno è formata da vari membri (medici, rabbini, …).
  • Il malato e i parenti vengono sollevati dalla difficile decisione di interrompere le cure: il medico, se appoggiato dal rabbino, viene liberato dal sospetto di eutanasia o di accanimento terapeutico per salvare la vita del malato a tutti i costi, anche quando non si possa parlare di vita; il malato viene liberato dal sospetto di volersi togliere la vita (cosa di per sé proibita).

Possiamo concludere con le parole del Salmo 24: “Al Signore appartiene la Terra e tutto ciò che la riempie”: anche l’uomo appartiene al Signore e la decisione finale sulle cure da somministrare al malato terminale va cercata nelle norme che Dio stesso ha dato all’uomo.

Scialom Bahbout

Nota bibliografica essenziale:

Alfredo Mordechai Rabello, Problemi connessi con la fine della vita e l’eutanasia alla luce del diritto ebraico, in Bioetica e confessioni religiose. Atti del Convegno (Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento, 12 maggio 2006).

Avraham Steinberg, (Cholè) Notè lamut (malato terminale) in Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, vol. 4 pp 343 – 469), Jerusalem 1994.

Y. M. Barilan, Revisiting the Problem of Jewish Bioethics: The Case of Terminal Care, in Kennedy

Institute of Ethics Journal, 13.02.2003, pp. 141 ss.