Testamento biologico e Halakhah
Rav Alberto Moshe Somekh
Il dibattito sul testamento biologico in corso in Italia può essere articolato in tre domande: 1) in quale misura il medico deve tenere conto della volontà del paziente? 2) nel testamento biologico si possono rifiutare i trattamenti di sostegno vitale? 3) è utile introdurre una nuova legge che dia valore legale al testamento biologico? Come nasce il problema? Qual è il punto di vista ebraico sulla questione? Cosa è cambiato, o cambierà, rispetto al passato? Proverò a riassumere i termini del dibattito, prima di fornire il punto di vista tradizionale. Si tenga presente che quanto segue è solo una presentazione teorica e che qualsiasi situazione concreta (D. ne scampi) dovrà essere vagliata caso per caso con l’ausilio di esperti.
La Torah stabilisce che curare le malattie non è semplicemente un diritto del malato: è una vera e propria Mitzwah. Nelle fonti si discute, a questo proposito, se siamo padroni del nostro corpo e il dibattito sull’argomento è troppo complesso per essere riportato qui. La visione maggioritaria finora è stata quella di considerare il trattamento stabilito dal medico come irrinunciabile, in linea di principio, a due condizioni: a) che la sua efficacia sia scientificamente provata in un considerevole numero di casi; b) che non presenti notevoli rischi collaterali in un numero apprezzabile di casi.
Oggi gli esiti della ricerca medica hanno universalmente messo in discussione questi fondamenti. Da un lato la vita media si è allungata assai in termini quantitativi ma non altrettanto sul piano della qualità. Subentrano patologie talvolta persino sconosciute in passato, cui corrispondono terapie nuove, i cui effetti non sono ancora testati adeguatamente. A fronte di un quadro ormai così complesso, il medico non ha più necessariamente l’ultima parola in merito ai trattamenti da somministrare. Si intende per consenso informato il diritto del malato di disporre di tutte le informazioni necessarie per poter acconsentire o meno alle terapie che gli vengono proposte: le informazioni comprendono naturalmente tutto ciò che attiene a rischi, effetti collaterali, possibili complicazioni, ecc. L’esercizio del consenso costituisce anche una liberatoria nei confronti del medico da eventuali responsabilità sui trattamenti stessi in caso di esito infausto. Il diritto del malato ad esprimere un consenso informato è oggi pienamente riconosciuto dalla Halakhah.
Tutto ciò presuppone, naturalmente, che il paziente sia vigile e cosciente. Peraltro, si complica la posizione giuridica del paziente qualora questi si trovi in stato di incoscienza al momento di dover discutere dei propri trattamenti. Sono infatti sempre più frequenti i casi di pazienti lungodegenti, talvolta tenuti in vita da macchinari senza alcuna prospettiva apparente di recupero. Alla stregua di quanto sta già avvenendo in molti paesi, anche in Italia si discute oggi della possibilità di legalizzare il testamento biologico. Si tratta di una dichiarazione, rilasciata in stato di coscienza e consegnata a persona fidata, in merito alle proprie volontà di ricevere o meno trattamenti nel momento in cui non si abbia più la capacità di esprimerlo da soli.
In caso di contrasto fra direttive anticipate espresse dal paziente nel proprio testamento biologico e scelte del medico, la Halakhah cerca di evitare la contrapposizione fra alternative inconciliabili. Il testamento biologico deve perciò prevedere la delega a una terza persona. Si tratterebbe di un esponente religioso, nella fattispecie il Rabbino, che ha una sensibilità particolare per questi temi e nelle decisioni fa riferimento non alla propria coscienza individuale ma ad una tradizione consolidata (Cfr. A. Steinberg, Encyclopaedia of Jewish Medical Ethics, Feldheim, Gerusalemme, 1998, vol. II, p. 1056). La terza persona nominata dal paziente gli darebbe voce nel momento di incoscienza e le sue valutazioni non sarebbero viziate da particolari condizionamenti: la sofferenza e il rischio della vita nel caso del paziente; il rischio della professione nel caso del medico.
Su quali trattamenti la persona sarebbe chiamata a decidere? Ecco che il problema del testamento biologico è strettamente connesso con quello dell’eutanasia (dal greco, lett. “buona morte”). Oggi si distingue fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva. Si parla di eutanasia attiva allorché una persona provoca direttamente e consapevolmente la morte di un’altra persona su sua richiesta e con intento caritatevole: ovvero, per alleviare uno stato di sofferenza dovuto al prolungarsi di una malattia ritenuta irreversibile. Una variante dell’eutanasia attiva è il suicidio medicalmente assistito allorché, su richiesta dell’interessato, gli vengono forniti i mezzi per togliersi la vita in modo poco doloroso. Per consenso dei Maestri entrambe queste pratiche sono severamente proibite dalla Halakhah che le considera, in linea di principio, alla stregua di un omicidio.
Vi è peraltro una seconda forma di eutanasia, detta eutanasia passiva. A fronte di uno stato patologico irreversibile si può decidere di sospendere i trattamenti che consentono la sopravvivenza della persona e che, se venissero proseguiti, si configurerebbero come accanimento terapeutico nei suoi riguardi, in quanto non migliorano le sue condizioni, ma semplicemente prolungano artificialmente la sua esistenza. Questi trattamenti comprendono: terapie rianimatorie, di ventilazione, di alimentazione e di idratazione, ma anche le terapie mediche (farmaci) propriamente dette. E’ vivo il dibattito su quali dei suddetti trattamenti possono essere sospesi e quali no, e su chi ha il diritto-responsabilità di una simile decisione.
Si distinguono infatti due tipi di trattamento. Da un lato vi sono i trattamenti farmacologici in senso stretto, che vengono somministrati al malato per guarire, o quanto meno alleviare, la sua patologia e la sofferenza che può conseguirne. La tendenza a questo proposito, anche da parte della Halakhah, è di autorizzare la sospensione di detti trattamenti allorché non sortiscono più l’effetto auspicato (in ebraico: messìr ha-monea’; ci si limiterebbe a togliere l’impedimento all’esalazione dell’ultimo respiro -Remà a Yoreh De’ah 339,1-. Anche l’espressione accanimento terapeutico sembra riferirsi proprio a questi). D’altro lato vi sono i trattamenti di sostegno vitale propriamente detti, notabilmente l’alimentazione, l’idratazione e l’ossigenazione. Su questi è più che mai vivo il dibattito.
Dal momento che di questi ultimi neppure l’individuo sano può fare a meno per la propria sopravvivenza, molti ritengono che non sia lecito negarli neanche al malato terminale e che la loro sospensione equivalga di fatto ad un atto di eutanasia attiva. Altri partono piuttosto dalla considerazione che il malato in questione va distinto dalla persona sana in quanto non è più in grado di alimentarsi, idratarsi e respirare da solo: si tratterebbe in questo caso di sostegni artificiali indotti, e come tali –viene argomentato- assimilabili in sostanza alle terapie (taluni parlano a questo proposito di cure alimentari).
Come principio di fondo, secondo la Halakhah non è lecito negare al paziente l’alimentazione, l’idratazione, l’ossigenazione e neppure le terapie antibiotiche che servono a curare complicazioni di una malattia in fase terminale (Cfr. A. Steinberg, Encyclopaedia of Jewish Medical Ethics, Feldheim, Gerusalemme, 1998, vol. II, p. 1057). Molti decisori ritengono altresì che si può decidere a priori, su consultazione del paziente (se cosciente, ovvero del suo testamento biologico), dei famigliari, dei medici e del Rabbino la non attivazione del respiratore fintanto che il paziente è ancora in grado di respirare da solo, sia pure a fatica; ovvero la sua attivazione per un tempo definito a priori tramite l’ausilio di un timer. Ma una volta che il trattamento è stato attivato a tempo indefinito e il paziente ha perduto la propria autonomia, consegnandosi interamente alla macchina, questa non può più essere interrotta. Infatti, sospendere i trattamenti di sostegno vitale una volta che essi sono diventati l’unica ragione di vita del paziente significa commettere omicidio.
“Scompaiano le trasgressioni ma non i trasgressori” (Berakhot 10a): è senz’altro necessario indire campagne di informazione a difesa dei principi suesposti, ma qualora tali prescrizioni vengano disattese i responsabili sono più da commiserare che da condannare a posteriori. Senza nulla togliere alla gravità dell’atto, che di per sé è e resta inammissibile in base all’etica ebraica e alla Halakhah, è peraltro difficile che costoro siano passibili del massimo della pena secondo la Torah, in quanto una delle condizioni perché ciò avvenga è che la vittima dell’omicidio fosse a sua volta nel pieno della vitalità. Secondo la definizione dei nostri Maestri ciò presume che il paziente in questione avesse potuto vivere almeno per altri 12 mesi con le sue sole forze qualora non fossero stati sospesi i trattamenti! Nel nostro caso si è forse più vicini alla situazione descritta nel Talmud con le parole: gavrà qetilà qatil (“si è ucciso un uomo già morto”; cfr. Sanhedrin 96a).
Può essere utile una legge che disciplini la materia? Penso di sì, a patto che 1) si tenga debito conto dei limiti che ho esposto e 2) non si dia al testamento biologico un valore assoluto. Se il giorno di Kippur medico e paziente si trovano in contrasto sull’opportunità che quest’ultimo digiuni, si ascolta comunque il parere più facilitante, pur di evitare che il malato si metta in pericolo. Da un lato “solo il cuore conosce l’amarezza della propria sofferenza” (Prov. 14,10); d’altronde, la storia della medicina e della bioetica riferisce di numerosi casi in cui un paziente ormai incosciente è stato salvato dai medici pur avendo in precedenza impartito disposizioni di non intervento nei suoi confronti. Si può ipotizzare, per esempio, di dare al testamento biologico un valore legale, per cui diviene obbligatorio prenderlo in considerazione accanto al parere del medico nel discutere gli opportuni trattamenti, ma non in modo rigidamente vincolante sugli esiti della discussione stessa. Nella tradizione ebraica la salvaguardia della vita è e resta il bene più grande: “sceglierai la vita, affinché viva tu e la tua progenie” (Deut. 30, 19).