Da BRAINEWS: PET e MRI mostrano un legame tra recettori cerebrali e obesità

L’analisi congiunta attraverso la tomografia a emissione di positroni (PET) e l’imaging in risonanza magnetica (MRI) ha dimostrato che i neurorecettori nel cervello delle persone con obesità sembrano rispondere in modo diverso ai segnali alimentari rispetto a coloro che non sono obesi, secondo una ricerca presentata il 27 giugno alla riunione annuale della Society for Nuclear Medicine and Molecular Imaging (SNMMI) a Chicago.
La scoperta aumenta la nostra comprensione dei meccanismi alla base dell’obesità e rivela un potenziale nuovo obiettivo per i trattamenti, ha detto Swen Hesse, dell’Università di Lipsia in Germania.
“La ricerca di metodi per ottenere una perdita di peso sostenibile attraverso un’indagine approfondita dei meccanismi biologici e comportamentali negli individui con obesità è un tema prioritario”, ha detto Hesse.
L’obesità è oggi considerata un’epidemia globale e rappresenta una grande sfida per i sistemi sanitari di tutto il mondo, con oltre 1 miliardo di persone considerate obese. I rischi di infarto, ictus e diabete di tipo 2 sono significativamente aumentati nelle persone con obesità.
In questo studio, Hesse e colleghi hanno studiato i recettori nel sistema colinergico del cervello, che svolge un ruolo significativo nel sistema di gratificazione del cervello. In particolare, si sono concentrati su un tipo di recettore nicotinico dell’acetilcolina chiamato alfa-4 beta-2 nicotinico (a4b2), che è coinvolto nel modo in cui le persone decidono quali alimenti sono più desiderabili, ha spiegato Hesse.
“Abbiamo mirato a misurare i cambiamenti nei recettori nicotinici dell’acetilcolina a4b2 (nAChR) indotti nel sistema colinergico in risposta a segnali alimentari ad alto contenuto calorico”, ha detto.
Sono state arruolate nello studio 15 persone con obesità – indice di massa corporea medio (BMI), 38 +/- 3 kg / m2 – e 16 persone di peso normale per scansioni PET/MRI con F-18 flubatina, un radiotracciante sviluppato più di 20 anni fa per legarsi ai recettori a4b2. I partecipanti sono stati sottoposti a scansioni ibride PET/MRI due volte in giorni separati, una volta mentre erano in uno stato di riposo e una volta sotto “stimolazione del segnale alimentare” – ovvero ai soggetti erano state mostrate immagini di cibo appena prima delle scansioni – ha detto Hesse.


Volumi di distribuzione dei recettori nicotinici dell’acetilcolina a4b2 nel cervello di volontari di peso normale e volontari con obesità. Immagine di Swen Hesse.

L’errore più grande che si possa commettere rispetto all’argomento in questione è ritenere che il disturbo post traumatico da stress possa riguardare soltanto una fetta della società – i soldati, più nello specifico – e che tutti gli altri, i civili come noi, ne siano ‘immuni’. Van der Kolk confuta sin dal principio questa tesi e si impegna a trasmetterci un messaggio secondo cui il PTSD può essere di tutti, di chiunque abbia subìto una forte minaccia all’integrità del proprio sé e sia stato costretto a ricablare l’intero organismo traumatizzato.
Quando parliamo di trauma, secondo la definizione adottata da Janet e successivamente da Freud, ci riferiamo a una vera e propria scissione della mente, come se si trattasse di un meccanismo di difesa. La mente si divide in due affinché l’individuo possa sopravvivere, in tal modo gli eventi eccessivamente stressanti – che danno origine al trauma – finiscono nel contenitore “inaccessibile”, al di sotto della soglia della coscienza. Al contrario, se rimanessero a portata dell’individuo e della propria consapevolezza, la sofferenza diventerebbe ingestibile e si rischierebbe la totale compromissione della qualità della vita (Cfr. Henri F. Hellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica). Nella maggior parte dei casi si predilige una non-vita, ovvero un’inibizione delle sensazioni e delle emozioni che costituiscono l’essenza e l’autoconsapevolezza dell’individuo. Questi pazienti hanno imparato per cause di forza maggiore “[…] a spegnere le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni che accompagnano e definiscono il terrore” scrive Van der Kolk (p. 105), rinunciando al contempo a esperire la quotidianità. Difatti le aree del cervello che risultano inattive – la corteccia parietale, il cingolato anteriore e l’insula – giocano un ruolo fondamentale nella vita di ciascun individuo. Una disfunzione o, addirittura, lo spegnimento delle stesse genera inevitabilmente una frattura nel mondo interiore del paziente che può intaccare la propria capacità di ottemperare a doveri basilari quali il mantenimento dell’omeostasi. Se il soggetto in questione non ha consapevolezza dei segnali che gli invia il corpo in quanto forzatamente “anestetizzato” – se non accusa la sete, la fame o il bisogno di urinare –, è impossibile che riesca a costruirsi un integro senso del sé.
La parte del cervello coinvolta nella reazione traumatica, ovvero quella emotiva, subisce una specie di black out: non importa quanto tempo sia trascorso dall’esperienza del trauma, alcune sensazioni fisiche permangono e instillano nel soggetto l’insicurezza e la paura di vivere. Ritirarsi – “socialmente e spiritualmente” – equivale a rifuggire il proprio mondo sensoriale e, di conseguenza, il rischio che si ripeta l’esperienza del dolore. Ma limitarsi allo slalom contro il dolore non può rappresentare una soluzione al problema. La soluzione potrebbe consistere in un autentico contatto con la propria interiorità: mi focalizzo con coraggio sulla sensazione fisica che avverto e, ripetendomi che si tratta di un’esperienza transitoria etichettabile, mi convinco della sua caducità e della possibilità “di “educare” il nostro sistema di arousal attraverso il modo in cui respiriamo, cantiamo, ci muoviamo”. Le varie e più specifiche modalità mediante cui si possono mettere in atto dei processi di cura lasciamo che le scopriate pagina dopo pagina, grazie a un meraviglioso – a volte faticoso – giro di vite.