Quale Memoria per rispondere alle domande

Sulle pagine di primo piano delle cronache italiane del Corriere della Sera di oggi, nel mezzo delle polemiche suscitate dalle idiozie di un apologo del fascismo che continua ad affabulare con la storiella della sua amicizia per Israele (come se stare dalla parte di Israele non consistesse anche nel difendere la sua storia, i valori di cui è portatore e la sua dignità), compare una notizia da Gerusalemme su un (pessimo) striscione antiarabo issato in uno stadio di calcio nello stato di Israele (pagina 8). Perché questa notizia non è comparsa come avrebbe dovuto nelle pagine Esteri? Il Corriere della sera trattando dello stereotipo di Berlusconi cade simultaneamente nell’altro grande stereotipo molto più sottile ma oggi ancora più insidioso e diffuso. Quello dell’immagine dell’ebreo che esce dalla celebrazione della Memoria: un’immagine di vittima, facente parte del passato, un’immagine che non include quegli aspetti vitali e normali, ovvero relativi ad una vita comune scandita dalla quotidianità. Essa non include quel resto dell’identità ebraica, sempre complessa, tutt’altro che monolitica e immersa nel mondo. Tale immagine dell’ebreo, del tutto parziale e per questo falsa, lontano dalla realtà quotidiana, non aiuta a comprendere la ricchezza e le problematiche della storia e dell’identità ebraica. Il dovere della Memoria dissocia gli ebrei vittime della Shoà da se stessi: si mostrano, si compiangono, si celebrano, si esaltano i corpi morti degli ebrei, disincarnati, universalizzati, mentre è assente l’ebreo vivo, il popolo ebraico nella sua specificità. Questa celebrazione della Shoà sembra così presentare pesanti ricadute non solo sul piano simbolico, ma soprattutto su quello storico, giuridico e morale: infatti più gli ebrei sono esaltati come vittime della Shoà, più sono esclusi come popolo, come soggetto reale della Storia. La ricomposizione di un’immagine dell’ebreo non idealizzata, ma vicina alla realtà, dovrebbe essere quella a cui l’ebreo e il non ebreo dovrebbero invece aspirare: immagini e metafore sono infatti importanti tappe cognitive che guidano l’essere umano in qualsiasi processo di conoscenza e costituiscono così quegli elementi funzionali alla costruzione di una propria coscienza. Questa immagine diventa pericolosa quando viene utilizzata per dimostrare altre tesi e non tanto, quindi, quando viene presa, magari temporaneamente, come punto di partenza per porre domande e capire di più. Questa immagine diventa un elemento fondante, semplice e alla portata di tutti, destinato ad altri scopi, strumentalizzato per sostenere quelle tesi negazioniste e antisemite, e, in alcuni casi, contro la legittimità dello Stato di Israele: l’immagine della vittima nazista viene infatti accorpata e identificata all’immagine della vittima israeliana per una strana proprietà transitiva, da cui ne consegue che “gli israeliani si comportano come dei nazisti nei confronti dei propri fratelli palestinesi”. Da queste congetture e sillogismi possono scaturire poi tesi ancor più allarmanti: “se gli ebrei (Israele=sionisti=ebrei) oggi sono come i nazisti, allora i loro padri hanno meritato di essere massacrati. Se i carnefici e i loro complici di ieri hanno ucciso degli ebrei — così si suggerisce allora hanno fatto bene, limitando almeno in parte, le future angherie che gli ebrei (= gli israeliani) commettono oggi. E ancora: se loro sono come i nazisti, che colpa abbiamo noi (i nostri padri, i nostri nonni, la società italiana, la cultura europea) per essere stati se non attori, almeno indifferenti spettatori della loro umiliazione, della loro persecuzione, della loro deportazione, delle loro torture e della loro morte?” Come ci insegnano i testi ebraici, per essere educativa una memoria deve svolgersi al presente e deve quindi poter rispondere alle domande del singolo e del gruppo nella sua contingenza. Solo in questo modo potrà costruirsi una nuova coscienza che non sia scissa dalla vita quotidiana, ma potrà crescere e accompagnare i singoli durante l’arco della loro vita, senza rappresentare così una parentesi e un momento istantaneo, sconnesso con il resto delle riflessioni, dei pensieri e forse anche delle piccole o grandi decisioni.

rav Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento Educazione e Cultura
Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(28 gennaio 2013)