J-CIAK – Sei buoni motivi per vedere Ghett

ghetMettiamola così, non potete perderlo. “Ghett”, il nuovo film di Ronit Elkabetz che sabato sera a Roma inaugura il Pitigliani Kolno’a Festival, va visto. I motivi per cui la visione è consigliata magari sono più dei sei a seguire, ma la sintesi aiuta (e comunque gli elenchi numerati oggi sul web vanno per la maggiore).
1. È il film israeliano candidato all’Oscar ed è meglio non perdere l’occasione di degustare un assaggio della straordinaria recente fioritura del cinema israeliano. “Ghett – The Trial of Vivian Amsalem”, che ha spuntato il primo premio all’ultimo Jerusalem Film Festival a pari merito con “Princess” di Tali-Shalom Ezer, è già stato presentato al Festival di Cannes e poi a Toronto. Sempre con buoni riscontri di critica.

2. È uno spaccato poco conosciuto della vita in Israele, dove matrimonio e divorzio sono istituzioni religiose, non civili, e spetta all’uomo concedere il “ghett”. La protagonista del film – interpretata da Ronit Elkabetz che ha scritto la sceneggiatura con il fratello Shlomi – è Vivian Amsalem. La donna da anni lotta per ottenere il divorzio, il “ghett” appunto, che il marito cerca di negarle mentre i giudici abusano di ambiguità per ritardarlo o forse impedirlo.
Se a ciò si aggiunge il fatto che Elkabetz conclude con questo film la trilogia composta da To take a wife (2004) e Shivah-Seven Days (2007) che ha narrato la realtà degli israeliani di origine marocchina, di solito poco presente sul grande schermo, l’interesse del film risulta ancora più forte.

3. Il tema è di stretta attualità. Neanche a farlo apposta, mentre “Ghett” veniva presentato al Festival di Cannes, sulla stampa francese montava lo scandalo, purtroppo reale, del ghet in Francia. La vicenda, che ha scosso l’ebraismo francese e chiamato direttamente in causa il rabbinato, ha rivelato come molte donne in cambio del ghett subivano pesanti richieste di denaro – dai venti ai centomila euro – da parte di mariti recalcitranti. Spesso, come dimostrato da testimonianze e registrazioni, le richieste venivano avvallate dai rabbini. Chi non voleva o non poteva pagare finiva per ritrovarsi in una sorta di limbo, stigmatizzata dalla comunità e impossibilitata a rifarsi una vita.

4. È il commovente ritratto psicologico di una donna che cerca, con tutte le forze, di non farsi travolgere dalla crudeltà del marito, dai formalismi, dalle incomprensioni e dai ritardi dei giudici e di riprendersi la propria vita. La storia cruda e dolorosa di Vivian in qualche modo fa da contraltare alla dolcezza di “La sposa promessa” di Rama Burshtein (anch’esso a suo tempo presentato in Italia dal Pitigliani Kolno’a Festival). Lì una giovane e delicata donna ortodossa, interpretata da Hadas Yaron, sposava in un matrimonio combinato un uomo che chissà, forse avrebbe potuto amare. In “Ghett”, la legge concede invece a un amore finito da tempo la possibilità di ferire ancora e di interdire il futuro.

5. I ritmi sono serrati. Malgrado si parli di temi che toccano profonde corde emotive e psicologiche, “Ghett” è capace di tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona. Qualche critico non ha esitato a parlare di uno svolgimento da thriller giudiziario.

6. Ronit Elkabetz è una grande attrice, che già abbiamo avuto modo di apprezzare in “La banda” di Eran Kolirin. Amatissima in Francia dove ha studiato al Théâtre du Soleil e dove spesso lavora, vincitrice di tre premi Ophir (una sorta di Oscar israeliano), per il suo magnetismo è stata paragonata dal regista Pascal Elbè che l’ha diretta, ad Anna Magnani. E’ misteriosa, esotica, estrema, ricca di una potenza drammatica e immaginativa inconfondibile. Come dice il critico israeliano Uri Klein: la ami o la odi, ma non la puoi ignorare. Sabato sera, alle 20.30 alla Casa del cinema di Roma, scoprirete se è amore o odio.

Daniela Gross

(30 ottobre 2014)