J-Ciak – Chi ha paura di Yigal Amir?

amirAnche quest’estate si scatena in Israele una feroce polemica attorno al cinema. E ancora una volta il ministro della Cultura non lesina pressioni, minacciando il ritiro dei fondi pubblici. Nell’occhio del ciclone è finito il Jerusalem Film Festival, reo di aver inserito nella programmazione “Beyond the Fear”, documentario che narra la vita dietro le sbarre di Yigal Amir, l’uomo che vent’anni da assassinò Itzhak Rabin.
Il ministro Miri Regev, dicendo di aver ricevuto migliaia di telefonate da cittadini indignati, ha senz’altro minacciato di sospendere i finanziamenti al festival se il film non fosse stato cancellato.
Alla fine si è raggiunto un accordo: il film sarà proiettato in una sala privata alcuni giorni prima del festival, anche se prenderà comunque parte alla selezione per il miglior documentario israeliano. I diretti interessati l’hanno definito un ragionevole compromesso, ma i dubbi restano: a partire dall’opportunità che il governo entri a gamba tesa in una materia così sensibile.

“Beyond the Fear”, girato dal regista lettone-israeliano Herz Frank, e completato dopo la sua morte da Maria Kravchenko, racconta gli anni che Yigal Amir trascorre in carcere dopo l’uccisione di Rabin.
Il lavoro si sofferma in modo particolare sulla relazione con Larisa Trembovler, che sposa nel 2004 e da cui tre anni più tardi avrà un figlio. Il documentario, che era già stato presentato al festival canadese Hot Docs, secondo alcuni critici avrebbe il merito di affrontare questa vicenda così delicata senza i sensazionalismi che i media all’epoca non avevano invece risparmiato, attraverso interviste ai familiari di Amir e alla stessa Trembovler.
Malgrado questo taglio narrativo, secondo il ministro Miri Regev, “Beyond the Fear” avrebbe generato una profonda inquietudine nell’opinione pubblica israeliana. Il ministro della Cultura ha affermato di aver ricevuto migliaia di richieste da parte di cittadini che le chiedevano di impedire la proiezione del documentario nell’ambito del festival.
“È inconcepibile che un festival sostenuto dallo stato presenti un film che tratta del vile assassino di un primo ministro – ha dichiarato – Le sue pallottole hanno colpito un simbolo dello Stato, della democrazia e della libertà d’espressione. Questi sacri valori sono stati violati da uno spregevole assassino. Invito il pubblico israeliano a evitare questo film”. Da qui la richiesta di escludere il film dal festival e di proiettarlo in una sala privata, pena la sospensione del finanziamento annuale. Persino Shimon Peres è intervenuto, un paio di giorni fa, chiedendo di non proiettare il documentario e facendo notare che la libertà di parola non equivale alla libertà di uccidere.
Dal canto suo la direttrice del Jerusalem Film Festival Noa Regev ha dichiarato a Haaretz di aver insistito perché gli spettatori avessero la possibilità di vedere “Beyond the Fear” e perché il documentario potesse partecipare al concorso. “La decisione di spostare la data di proiezione è stata presa in considerazione dei sentimenti del pubblico. Non vi è stata alcuna resa alle minacce del ministro. Se in ballo vi fossero state solo minacce, ci saremmo comportati in modo diverso”.
“Chi si oppone al film – ha continuato – lo fa senza averlo visto. Ci opponiamo alla condanna di un’opera d’arte sulla sola base del suo contenuto. Molte opere cinematografiche trattano di argomenti sensibili. Al contrario di ciò che è stato scritto dalla stampa, il film non sostiene l’assassinio di Rabin. Mostra invece come un uomo ha ucciso in nome di un’ideologia e non per follia, echeggiando così le idee di Hannah Arendt”.
Il caso ci riporta, sotto alcuni aspetti, al pandemonio scatenatosi un anno fa attorno a Suha Arraf, rea di aver presentato il suo film “Villa Touma” al Festival del cinema di Venezia come film palestinese, anche se realizzato con finanziamenti pubblici israeliani. Anche l’allora ministro Limor Avnat aveva minacciato di ritirare i fondi, erogati dall’Israel Film Fund, dal Mifal HaPais (la Lotteria nazionale) e dal ministero dell’Economia. E anche allora, si era giunti a un compromesso: Suha Arraf aveva finito per presentare il film come “no country”, spiegando poi con parole di fuoco le motivazioni che l’avevano indotta a questa scelta. E non si possono dimenticare le recenti polemiche attorno all’Israel Prize, dove per protestare contro l’ingerenza di Netanyahu molti prestigiosi giurati si erano dimessi, a partire da David Grossman.
Il problema è sempre lì, in quell’intreccio vischioso tra cinema, cultura e politica. Forse comprensibile alla luce di una situazione incandescente, ma per molti impossibile da accettare.

Daniela Gross

(18 giugno 2015)