Il Professore in un mare di libri
La pietra dello scandalo è in alto a destra. Quasi confortante nella familiarità delle pagine un po’ ingiallite. È la prima edizione italiana dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, stampata a Roma per La vita italiana, rassegna mensile di politica, nel 1921. Lo stesso anno, sembra quasi un paradosso, in cui il Times di Londra ne dimostrava la natura di falso storico. L’ultimo libro di Umberto Eco prende le mosse da questo volumetto di modesto aspetto, fondamento antisemita di ieri e di oggi. Ma non solo. Perché il romanzo, come gli altri del Professore, da Il nome della rosa in poi, si nutre di una molteplicità di libri e riferimenti in una sarabanda d’erudizione da lasciar spesso senza fiato il lettore.
Ad alimentare questa giostra intellettuale è quella che Eco chiama amabilmente “la vetrinetta”, cuore e metaforico motore di tutta la sua narrativa. Posta al centro del suo bel salotto, che nel centro di Milano miracolosamente si affaccia sul verde, racchiude come uno scrigno le opere più preziose legate al libro cui il Professore sta lavorando, in un’esposizione che muta all’avvicendarsi delle opere. “Il romanzesco accade innanzi tutto nella realtà, cosa che Manzoni sapeva bene”, spiega. “In tutti i miei romanzi ho voluto dunque partire da qui, dalla storia, dalla scienza e dalla tecnologia: un romanzo è sempre un’occasione per documentarsi”. Un’occasione a cui, ammette, il boom editoriale mondiale partito con Il nome della rosa ha conferito un’aura particolare. “Da quando ho iniziato a scrivere romanzi di successo ho potuto dare sfogo alla mia passione di collezionista di libri antichi. Uno sport costoso, che prima non mi sarei potuto permettere – sorride – diciamo che sono i miei buoni del tesoro. Anche se non ho mai pensato di rivenderli”. La ricerca del volume d’epoca si gioca online e sui cataloghi dei librai antiquari. Ormai sono in molti, racconta, a telefonargli se capitano novità di particolare interesse. Ma il grande divertimento è la scoperta in proprio, magari in qualche libreria antiquaria sconosciuta. “Negli Stati Uniti questo significa stare sulle tracce dei librai ebrei, che grazie al legame con i paesi d’origine spesso ricevono testi antichi di grande interesse. Per questo la prima cosa che faccio quando arrivo in una città nuova è consultare l’elenco del telefono e mettermi in contatto con le librerie che portano un cognome ebraico. Qualche anno fa lo raccontai a un libraio. A saperlo – rispose seccato – non avrei cambiato il mio cognome da Cohen in Gilbert”.
Se per L’isola del giorno prima Eco confessa di aver fatto incetta di libri sulla navigazione, per Il cimitero di Praga la scelta è caduta sui classici dell’antisemitismo. Nella vetrinetta, ben tirata a lucido, a rappresentare la tradizione italiana, accanto ai Protocolli, ci sono dunque il Gesuita moderno di Vincenzo Gioberti in un’edizione del 1846 e L’ebreo di Verona, Racconto storico italiano del periodico dei gesuiti La civiltà cattolica del 1851 a firma del padre Antonio Bresciani (così influente sull’opinione pubblica italiana del tempo che Gramsci progettava un saggio dal titolo I nipotini di padre Bresciani), il quale in questa lunga novella a puntate adombra l’esistenza di un complotto massonico giudaico in funzione anticristiana. Dalla cultura d’Oltralpe non può mancare Edouard Adolphe Drumont, fondatore della Lega antisemita francese e fondatore del velenoso periodico La Libre parole, qui rappresentato da un’edizione de La France Juive del 1886 e dall’eloquente Le testament d’un antisemite del 1891. Poi una bella edizione dell’Ebreo errante di Eugene Sue, romanzo popolare di gran successo che a metà Ottocento contribuì non poco alla diffusione dello stereotipo antisemita, e una corposa selezione di testi sui riti segreti di sette e massoni tra cui Le sectes e le sociétés segretes in un’edizione datata Parigi 1863 e la prima edizione, del 1893, di La Franc Maçonnerie – Synagogue de Satan di Léon Meurin, gesuita e arcivescovo di Port Louis, che in questo corposo volume, di gran diffusione, teorizzò che erano stati gli ebrei a fondare la massoneria quale strumento per conseguire il dominio del mondo e distruggere la Chiesa e le altre religioni.
A concludere la carrellata, Le diable au XIX siécle – La Franc Maçonnerie luciférienne, periodico datato 1892 e firmato da Le docteur Bataille (quel che oggi definiremmo un collettivo d’autori) che promette appassionanti excursus su magnetismo occulto, medium luciferini, la cabala di fine secolo e i precursori dell’Anticristo con tanto di racconti di un testimone. A illustrare la copertina, di ragguardevole formato, un bel Luciferone che sorride a braccia conserte inalberando una coda che ricorda assai quella della Sirenetta. Adattissimo a una rivista che si voleva satirica. Sono volumi che farebbero la felicità di qualsiasi bibliofilo, disposti con gusto a mostrare la copertina o qualche illustrazione, in piedi o poggiati di piatto sullo scaffale. Ma è un bel distillato di veleni e paranoie che suona ancor più straniante vicino alla terza vetrinetta. Qui, ma rivolte in senso contrario, quasi a voler prendere silenziosamente le distanze, una mano paziente ha allineato collezioni di pietre, foglie, cortecce, piccolissime conchiglie e delicati melograni seccati al sole. Uno squarcio di natura che aiuta a ristabilire il senso della misura. Lo stesso Professore confessa d’altronde un certo fastidio per la materia esposta. “Ero molto disturbato da certi contenuti di questo nuovo romanzo. Tanto che a differenza di quanto accaduto con i volumi precedenti non ho voluto dedicarlo a uno dei miei nipoti: non mi sembrava affatto di buon auspicio”.
Che poi i libri del pregiudizio abbiano comunque guadagnato la vetrina nel bel mezzo del salotto non deve stupire. Non a casa Eco. Lo spazioso salotto del Professore, inondato dalla luce che entra da grandi porte finestre, è infatti ricolmo di volumi. Grandi libri d’arte sui tavolini attorno ai divani candidi, libri che affollano la biblioteca attorno al tavolo da pranzo e fronteggiano un mare di quadri tra cui spicca il tratto inconfondibile di Tullio Pericoli. E ancora libri, antichi e moderni, ad affollare le pareti di quello che il Professore chiama “lo studiolo della saggistica”, il luogo in cui lavora. Libri lungo “il corridoio della letteratura” e ancora libri, libri e libri sulle scaffalature che arredano l’enorme ufficio bianco. “In casa ce ne sono quasi 30 mila – spiega – ma in tutto ne possiedo circa 50 mila”.
L’effetto è assai diverso da quel che ci si può figurare: niente di più lontano da un’atmosfera polverosa o da effetti topo da biblioteca. Gli ambienti sono spaziosi, pieni di luce e i volumi in ordine perfetto, senza un fil di polvere, classificati per argomento. I volumi consultati per Il cimitero di Praga occupano quasi trenta scaffali mentre cinque sono occupati da temi attinenti la Kabbalah e l’ebraismo (“non male, vero, per un laico”). In ogni ambiente una scaletta si arrampica fino all’ultima scansia, quasi che i libri siano un paesaggio in cui ci si aggira nella pratica di tutti i giorni e dunque meglio farlo con le comodità del caso. C’è un’unica sezione che il Professore confessa di frequentare poco o niente, quella delle biografie che lo riguardano. “I libri su di me – ammette in tutta tranquillità – non mi piacciono. Li raccolgo, anche perché nella maggior parte dei casi me li mandano, ma non li leggo”. Non fa eccezione nemmeno la più recente biografia dedicatagli in Germania da Michael Nerlich, nei prestigiosi tascabili Rowohlt, che ne ripercorre la vita e le opere dagli studi su Tommaso d’Aquino al successo dei romanzi. Il Professore si è limitato a sfogliarla. Quel che basta per spazientirsi davanti alle immagini che lo ritraggono in alcuni momenti d’intimità con la famiglia o per i dettagli sui figli. “Questo cosa c’entra con il mio lavoro?”. E posta da uno dei massimi esperti mondiali di semiotica la domanda merita certo una riflessione.
Daniela Gross