Kennan vs Israele
George F. Kennan è stato uno degli uomini politici americani più longevi (è morto nel 2005, a più di cent’anni di età), autore di libri importanti sulla politica americana durante la guerra fredda, ma la sua vicenda politica è legata quasi esclusivamente agli anni di Truman, cioè agli anni cruciali della Guerra fredda. Diplomatico, scienziato politico, fu, all’inizio della sua carriera, un funzionario importante dell’ambasciata americana a Mosca e autore di due volumi sulle “Soviet-American Relations, 1917-1920”, ancora oggi testi fondamentali per comprendere le relazioni degli Stati Uniti con il regime bolscevico appena andato al potere. Le sue memorie sono una fonte indispensabile per capire la politica estera americana tra il 1925 e il 1950 e, poi, in un secondo volume, tra il 1950 e il 1963. Com’è ben noto, da Mosca inviò, il 22 febbraio 1946, il famoso “long telegram”, che rappresentò la base teorica della politica del contenimento degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione sovietica per quasi tutto il secondo dopoguerra. Riconoscendo il valore delle analisi di Kennan sul comunismo sovietico, ma in generale sulla politica internazionale, Truman lo volle a capo di un nuovo organismo, il Policy Planning Staff (Pps), che aveva il compito di proporre al presidente analisi appropriate sui principali nodi della politica internazionale del momento e relativi rimedi. Kennan diresse il Pps dal 1947 al 1949, anni decisivi della Guerra fredda.
Meno note rispetto alle analisi sulla Russia e sulla necessità del contenimento dell’espansione comunista sono le posizioni di Kennan sulla questione mediorientale. Esse, insieme a quelle del dipartimento di stato, diretto da George Marshall dal 1947 al 1949, sono una spia interessante dell’isolamento di Truman rispetto al problema cruciale della fondazione di uno stato ebraico in Palestina. In sostanza, negli stessi anni, il Policy Planning Staff di Kennan e il dipartimento di stato di Marshall rappresentarono due ostacoli formidabili nei confronti della volontà di Truman, fortemente sostenuto dal suo consigliere speciale, Clark Clifford, di dare vita a uno stato per gli ebrei in Palestina. Occorre esaminare l’evoluzione del pensiero di Kennan e del suo staff a partire dagli ultimi mesi del 1947. Nel novembre di quell’anno, prima ancora della fatidica data del 29 novembre, in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite votò la spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico, l’altro arabo-palestinese, lo staff di Kennan stese un documento in cui sosteneva che il Mediterraneo orientale e il medio oriente costituivano aree vitali per la sicurezza degli Stati Uniti e che tale sicurezza non poteva prescindere dal fatto che “i britannici dovessero mantenere la loro forte posizione strategica, politica ed economica” nella regione.
Ma ciò voleva significare che gli Stati Uniti, di concerto con Londra, non dovessero rinunciare al proprio interesse di preservare lo status quo dell’area secondo la vecchia, ambigua politica di Roosevelt che aveva ripetutamente assicurato ai suoi interlocutori arabi che nulla sarebbe mutato nel medio oriente senza il loro consenso. Perciò, l’analisi di Kennan poggiava sull’interesse di Washington di mantenere saldi i rapporti con Londra e con i dirigenti arabi della regione. Ma Londra – era questo un punto cruciale evaso da Kennan – era allo stremo delle forze, non più in grado di gestire l’area mediorientale dopo una guerra logorante. Solo nel gennaio del 1948, Kennan dovette accettare la realtà dei fatti: Londra si stava ritirando dal medio oriente. Fu a questo punto che egli, puntualizzando il pericolo che il medio oriente potesse cadere nelle mani sovietiche, ribadì con forza che l’opposizione araba alla spartizione era un ostacolo insormontabile e che era negli interessi degli Stati Uniti, dopo aver deciso l’embargo sulle armi per la regione, evitare qualsiasi contrasto con il mondo arabo: “Qualsiasi tipo di sostegno da parte degli Stati Uniti per mettere in atto la spartizione – si legge in un documento del Pps del 19 gennaio 1947 – produrrebbe una profonda opposizione da parte di molti settori del mondo musulmano per molti anni”.
Di conseguenza, secondo Kennan, il tentativo di realizzare la spartizione a ogni costo avrebbe causato uno scoppio di ostilità che sarebbe stato un invito per i sovietici ad entrare nel medio oriente con la forza. Inoltre, lo stato ebraico non sarebbe potuto sopravvivere di fronte all’opposizione del mondo arabo unito. Conclusione: “Il nostro interesse vitale in quelle aree sarà gravemente danneggiato se dovessimo continuare a sostenere la spartizione”.
Kennan, cioè, suggeriva, di fatto, di boicottare la spartizione votata dalle Nazioni Unite; e questo, di concerto con il dipartimento di stato. “Non dovremmo prendere nessun’altra iniziativa per mettere in atto o aiutare la spartizione”, scriveva Kennan in modo inequivocabile.
Tuttavia, il ritiro della Gran Bretagna dal medio oriente rompeva le uova nel paniere di Kennan e di Marshall. Indubbiamente, la posizione del dipartimento di stato e del Policy Planning Staff si era fatta scudo della presenza britannica in Palestina e su di essa contava per contestare e contrastare la decisione della spartizione. Il ragionamento era il seguente: la potenza mandataria aveva svolto il compito di normalizzare la regione, controllando efficacemente le due parti in conflitto, gli ebrei e gli arabi, mantenendo l’ordine e garantendo un’accettabile vita sociale. Per questo motivo – si legge in un successivo documento di Kennan del 29 gennaio – “la posizione britannica è in larga parte la nostra posizione, e deve essere protetta come tale”. La spartizione, per Kennan, costituiva un danno incalcolabile per la politica mediorientale degli Stati Uniti di fronte al pericolo che Mosca si coalizzasse con il mondo arabo contro la presenza di uno stato ebraico appoggiato dagli Stati Uniti. Il ragionamento di Kennan aveva indubbiamente una sua logica, per quanto contingente. Non teneva conto, infatti, di tutto ciò che, nei decenni precedenti, aveva caratterizzato la regione dal punto di vista politico-diplomatico e umano:
la Dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917; la massiccia emigrazione, in varie fasi, di migliaia di ebrei europei che si erano stanziati in Palestina, creando, di fatto, una comunità indipendente; gli esiti della Commissione Peel del 1936-37, che aveva, per la prima volta, definito una spartizione; infine, la decisione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 a proposito della spartizione medesima.
Ora, il ritiro britannico irritava sia Marshall sia Kennan, che perdevano, così, un appoggio decisivo nel loro progetto di annullare le decisioni delle Nazioni Unite. Così, “in queste circostanze – scriveva Kennan, in conclusione del documento del 29 gennaio – penso che non abbiamo altra scelta se non di tentare di uscire dagli impegni presenti il più rapidamente possibile e di non fare nulla che ci coinvolga in ulteriori situazioni”. La sua proposta consisteva nell’attribuzione di un nuovo mandato sulla Palestina, questa volta non più a Londra, ma direttamente alle Nazioni Unite. In definitiva, caduto l’appoggio britannico per una soluzione comune, Kennan suggeriva semplicemente che Washington si ritirasse da ogni implicazione nella questione palestinese. Il che, però, non poteva che lasciare campo aperto alle mire di Mosca.
Questo era un problema cruciale. Infatti, in sede di discussione alle Nazioni Unite, Gromiko aveva affermato l’appoggio sovietico alla nascita di uno stato ebraico in Palestina, spiazzando Washington, posizione, quella sovietica, del tutto assente nelle valutazioni di Kennan. Eppure, il sostegno sovietico alle richieste sioniste e il suo impegno a difendere la spartizione e quindi la creazione di uno stato degli ebrei in Palestina avrebbero dovuto avere come conseguenza la perdita dell’amicizia del mondo arabo.
Ciò poteva avvantaggiare la posizione americana nei confronti degli arabi. Ma Washington, seppure all’ultimo momento, aveva, comunque, votato a favore della spartizione per non essere scavalcata dai sovietici. La situazione era estremamente ingarbugliata. L’unica soluzione che Kennan intravvedeva era l’uscita senza indugi degli Stati Uniti dalla questione e la ripresa attiva delle relazioni con gli arabi: “Mi sembra che quest’atteggiamento [favorevole alla spartizione] non sia affatto in linea con la nostra condotta diplomatica né vantaggioso per la nostra politica nel medio oriente”.
Le analisi del Policy Planning Staff, diretto da George Kennan, erano inequivocabili nelle loro conclusioni. In un documento dell’11 febbraio 1948 si leggeva: “Qualsiasi sostegno alla creazione di uno stato ebraico (…), rifiutato dagli arabi, sarebbe considerato dagli arabi come una virtuale dichiarazione di guerra contro il mondo arabo. L’assistenza americana, in qualsiasi forma, per la realizzazione della spartizione, particolarmente con l’uso della forza, porterebbe a un ulteriore deterioramento della nostra posizione nel medio oriente e a un forte antagonismo verso gli Stati Uniti in molto settori del mondo musulmano per un periodo di molti anni”.
Di conseguenza, l’attenzione di Kennan si spostava completamente verso la parte araba, considerata decisiva per gli interessi americani nella regione, anche in funzione del contrasto alle mire sovietiche: “Il nostro interesse nazionale deve, perciò, essere preservato e la nostra sicurezza nazionale rafforzata, nonostante la contrarietà che questa nostra posizione incontrerebbe negli elementi sionisti”.
La profonda antipatia di Kennan nei confronti del movimento sionista si rivela in una pagina del suo diario, pubblicato di recente, in cui, in data 28 gennaio 1948, accusava il dipartimento di stato – cosa assai strana, data la radicata contrarietà del dipartimento stesso verso la spartizione – “di non aver usato alcun cenno di critica verso i sionisti, la cui posizione appariva, così, irreprensibile”. Si trattava delle infiltrazioni di elementi arabi nel territorio assegnato agli ebrei, infiltrazione segnalata opportunamente in un memorandum del dipartimento di stato, cui probabilmente gli ebrei avevano risposto con i mezzi a loro disposizione.
Questa risposta, non segnalata nel memorandum, aveva irritato Kennan, che metteva, così, sullo stesso piano le infiltrazioni a scopo terroristico da parte degli arabi e la logica difesa della comunità ebraica nello spazio ad essa attribuito dalle Nazioni Unite.
Kennan ribadiva, per l’ennesima volta, che sostenere la spartizione avrebbe danneggiato le relazioni tra Washington e Londra, tra Londra e gli arabi e tra gli arabi e Washington.
Ma Londra era ormai fuori dai giochi mediorientali, o era sul punto di uscirne, e perciò la questione si riduceva ai rapporti tra americani e arabi, con la minacciosa presenza dell’Unione sovietica. Intervenire a favore della spartizione avrebbe comportato l’uso della forza: “Non posso pensare che questo sia nell’interesse degli Stati Uniti o che sarebbe tollerato dal popolo americano. Perciò, non credo che ci sia nulla da guadagnare nel procedere in questa direzione”. Anche perché, concludeva Kennan, le due parti non sarebbero addivenute mai a una composizione pacifica della questione, ragion per cui l’intervento degli Stati Uniti nel groviglio palestinese era da considerarsi inopportuno.
Kennan, in definitiva, considerava il mondo arabo come l’unico referente della politica mediorientale degli Stati Uniti, al fine di sottrarlo all’influenza sovietica. La questione della spartizione e la nascita di uno stato ebraico in Palestina erano un fattore di estrema destabilizzazione della regione, un problema da accantonare al più presto nell’interesse strategico di Washington in un’area cruciale del sistema politico internazionale. Con evidente riferimento al popolo ebraico e al movimento sionista, Kennan così concludeva: “Noi americani dobbiamo capire che non possiamo essere i custodi e i guardiani morali di tutti i popoli del mondo. Dobbiamo diventare più modesti e riconoscere i limiti delle responsabilità che andiamo ad assumere”.
Antonio Di Donno, Il Foglio, 27 Febbraio 2016
(28 febbraio 2016)