SettimanAle – Le parole di Ben Gurion

alessandro-treves“..finché un soldato ebreo non verrà impiccato per aver assassinato un arabo, questi omicidi non cesseranno” affermava David Ben Gurion nel 1951 in una riunione di governo, preoccupato per gli omicidi e le violenze sessuali seguiti alla vittoria nella guerra del 1948. “In generale, chi ha in mano una pistola la usa” continuava, aggiungendo che per alcuni israeliani “gli ebrei sono persone, gli arabi no, e si può perciò fare di loro qualsiasi cosa”. Il ministro degli esteri Sharett, e anche i ministri Yosef e Shapira, nella riunione espressero con toni simili la loro contrarietà all’abolizione della pena di morte, come racconta Gidi Weitz su Haaretz del 1 aprile, vedendovi un utile deterrente per fermare la mano degli assassini.
Interessante che, 64 anni dopo, la reintroduzione della pena di morte sia stata un cavallo di battaglia per la campagna elettorale dell’ex ministro Avigdor Lieberman, propugnata però come deterrente per i nemici d’Israele, non certo per i soldati ebrei che assassinano gli arabi.
Anche interessante, per misurare la distanza percorsa dalla società israeliana in questi decenni (non è chiaro in quale direzione), leggere la controversia sulle opinioni di un altro Yosef, non più il ministro di Ben Gurion ma il rabbino capo sefardita, figlio del più famoso Ovadia. Yair Ettinger riferisce su Haaretz del 29 marzo la smentita di Rav Yosef, che nega di essersi riferito alla situazione attuale quando ha affermato che i non-ebrei dovrebbero essere espulsi dalla terra d’Israele; bensì ad un futuro tempo messianico. Un futuro messianico che forse non è lontano, ad ascoltare l’amaro saluto di Davit Demoz ad Ilan Lior, il 2 Aprile. In Israele da 6 anni e mezzo, Davit, uno dei più noti fra i profughi eritrei, se ne è andato alla fine in Canada, dove ha ottenuto un visto, lamentando che Israele, dove pure si è fatto tanti amici, “segua una politica razzista verso i rifugiati africani”. C’è comunque una differenza fra i rifugiati africani, verso i quali si tratta di mancato accoglimento, ed i cittadini arabi di Gerusalemme, di cui racconta il prof. Menachem Klein a Nir Hasson in un lungo bell’articolo su una comune ‘identità israelo-palestinese’ che sarebbe stata nascente negli anni del Mandato, e poi perduta con l’affermarsi dei due nazionalismi, quello dei vincitori e quello dei vinti. Che la ricostruzione del prof. Klein sia accurata o piuttosto romanticamente ottimista, fatto sta che per i proprietari arabi delle case di Gerusalemme Ovest il tempo messianico è già arrivato, con l’esproprio delle loro case, nel 1948. Per loro l’auspicio di Rav Yosef si è già realizzato.

Alessandro Treves, neuroscienziato

(3 aprile 2016)