Bergamo – Primo Levi tra uomini e animali

26696238712_362808b573_kSono molti i momenti in cui si sorride, o si ride apertamente, durante il convegno “L’uomo e altri animali. Primo Levi etologo e antropologo” organizzato dalle Università di Bergamo e di Milano Bicocca, in quella che è da molti presenti percepita come una vera e propria boccata d’aria fresca. È un Levi diverso dalla rappresentazione solita, che pur essendosi ormai staccata da quella esclusiva del Testimone, normale fino a un periodo non troppo lontano anche grazie a Marco Belpoliti, ideatore della due giorni di convegno (oggi all’Università di Bergamo e domani all’Università di Milano Bicocca), torna sempre a fare riferimento al lager come nucleo centrale e fondante della sua opera. Le molte citazioni offerte dai relatori rendono ai diversi brani, a volte considerati un semplice divertissement di Levi, il loro peso etico, morale e danno il senso di un lavoro di scrittura molto più denso di riferimenti anche filosofici di quanto possa apparire a una lettura superficiale. Ma fra ragni assassini e cani drogati, citando la furia di Giobbe o le parole di Faussone si fa strada in maniera evidente l’uso sottile di un’ironia che prima ancora di colpire, a volte anche dolorosamente, porta un sorriso, e scompaginando ogni rigidezza accademica obbliga a riflettere, a ripensare la profondità e l’importanza di uno scrittore il cui valore pare crescere, se possibile, ancor di più col tempo. Ad aprire la sessione mattutina Francesco Remotti, dell’Università di Torino, che ha parlato di “Primo Levi: la via difficile delle somiglianze”, a cui sono seguiti gli interventi di Marco Aime, dell’Università di Genova, su “Lo specchio dell’altro” e Manuela Consonni, docente della Hebrew University di Gerusalemme e direttrice del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell’Antisemitismo presso la stessa università, su “Teodicea e antropodicea: il dialogo di Levi con Giobbe”. Nel pomeriggio proseguono i lavori del convegno che riprenderà domani alla Bicocca di Milano.
Già nell’intervento di apertura dei lavori odierni, nell’impressionante Aula Magna dell’Università di Bergamo presso il complesso di Sant’Agostino, ulteriormente impreziosita da una Pala della fine del Quattrocento di Giovanni Bonconsiglio, il rettore Remo Morzenti Pellegrini ha sottolineato l’importanza di un approccio – autorizzato e sostenuto dalle opere – che porta al centro il chimico, l’etologo e l’antropologo, il sapere tecnico di Levi. Da lettore, non da studioso – ha sottolineato – ha voluto ricordare come nell’anno della vittoria del Premio Strega, il 1979, La chiave a stella vinse anche il Premio Bergamo, e ribadire come leggere con attenzione e dedizione i suoi libri sia un dovere civico e morale per tutti, ancor più importante per gli studenti di qualsiasi corso di studi. “Sono le pagine scritte che ci hanno portato a pensare a un convegno su Primo Levi incentrato su aspetti non sconosciuti ma di certo meno frequentati – ha sottolineato Belpoliti introducendo la prima sessione e dopo aver ringraziato anche il coordinatore della Bicocca, Mario Barenghi – in quello che non è un azzardo bensì la scelta di una interdisciplinarità che mescola probabilmente per la prima volta studiosi di ambiti anche diversissimi tra loro”. E a rovesciare subito tutti i luoghi comuni ha pensato il professor Francesco Remotti, già docente di antropologia culturale presso l’Università di Torino, che nel suo intervento intitolato “Primo Levi: la via difficile delle somiglianze” ha evidenziato come in vari scritti siano presenti brani “antropologicamente rilevanti”. A partire da una pagina de I sommersi e i salvati dove, dopo aver chiarito di non essere interessato alla vendetta, Levi propone due strade possibili: quella giudiziaria, e quella della comprensione, scegliendo per sé la seconda. “A molti, individui o popoli, – scrive Levi – può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Un passaggio che mostra come alla base della concezione di Levi stia l’idea che pensare allo straniero come a un nemico è una potenzialità nascosta in fondo all’animo umano, ma non è un sistema di pensiero. Può diventare la premessa a un sistema di pensiero, ma si discosta nettamente da una visione dicotomica. Si tratta di una possibilità, non di una necessità, di una concezione in cui il linguaggio e il pensiero concettuale hanno il compito di “decomplessificare” il mondo naturale, sociale, storico. E, spiega Remotti, si può scegliere di forzare un poco le pagine di Levi, per leggervi un rifiuto della dicotomia e del “bianco o nero” che porta a un continuum fra i due estremi, dove nella parte centrale, dove i due colori si mescolano, si arriva al grigio. Ed è proprio questa l’architrave del suo pensiero antropologico: nonostante apparentemente non esista nulla di più dicotomico del lager, con la contrapposizione oppressori/vittime, padroni/schiavi o anche superumani/tutti gli altri, Levi sposta il discorso dalla necessità alla possibilità che ogni grande infelicità contenga almeno un elemento di felicità, così come che ogni grande felicità contenga almeno un grandello di infelicità. Ma seguendo la perigliosa via delle somiglianze, che Levi ha intrapreso per cercare di capire, si può ricordare che Protagora già nel V secolo aev diceva che ogni cosa è in qualche modo simile a qualsiasi altra cosa e che il bianco, in qualche modo, assomiglia al nero. Ma è un ragionamento che si può fare solo se non si è governati da un pensiero dicotomico ma si accetta il rischio di un pensiero continuista, che permette di avvicinarsi anche alla comprensione di un altro tema complesso, quello della vergogna. Le vittime non dovrebbero avere motivo di vergognarsi. Ma, dice Levi, gli aguzzini non erano mostri, erano fatti della nostra stessa stoffa. E all’allontanarsi di Auschwitz avvertiva la minaccia di nuovi massacri.
Con una citazione di Daniele Del Giudice ha scelto Marco Aime, antropologo e scrittore, docente del corso di Antropologia della contemporaneità presso l’Università di Genova, di aprire il suo intervento: “Ogni grande narratore è anche un etnologo, e tale qualità, che in alcuni può risultare accessoria o implicita, in Primo Levi divenne via via centrale”. Non tutti i narratori, la sua tesi, dopo aver analizzato, sviscerato, metabolizzato le categorie del vissuto, fino a restituire non una semplice descrizione della realtà sanno raccontare una nuova visione di quei fatti, elaborata alla luce della storia e del comportamento umano, non limitandosi al descrivere, ma proponendo una nuova teoria attraverso cui guardare il mondo. Un’etnologia, quella di Levi, fatta più di individui che di popoli, che Aime ha affrontato concentrandosi particolarmente su La tregua, il testo in cui più viene raccontata la diversità, e in cui gli unici a comparire come popoli sono tedeschi e russi. Non sovietici, ma russi, come a volerne cogliere l’anima più antica e popolare, uno spirito per cui è evidente una certa simpatia, accompagnata da una mancanza di fiducia, dall’accettazione di una disorganizzazione simile a quella mediterranea. Per Aime la “benefica e singolare incuria russa”, che Levi definisce “negligenza oblomoviana”, si contrappone all’esigenza di abbandonare lo sguardo da lontano per parlare a ogni singolo tedesco, perché dei tedeschi è impossibile chiedersi se sapevano. E se sapevano, come potevano vivere normalmente? E se non sapevano non avrebbero potuto esimersi dal fermarsi ad ascoltare, in un confronto cercato ma che non viene accettato perché “erano ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa”. Ne La tregua il ricco panorama etnologico di Levi è fatto da individui, di cui scrive: “Il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi”. E fra quegli individui è indimenticabile la figura di Mordo Nahun, il Greco, cui era avvicinato “dalle due lingue in comune e dal fatto, assai sensibile in queste circostanze, di essere i soli due mediterranei del piccolo gruppo”. Facendo diventare in effetti il Mediterraneo una sorta di piattaforma su cui costruire un nuovo “noi”, distinto da quello degli europei del nord, in una situazione in cui costruire un qualsiasi senso di appartenenza era praticamente impossibile, ma rimanere aderenti a qualcosa a cui si sente di appartenere può essere una modalità di sopravvivenza.

Ada Treves

(3 maggio 2016)