ORIZZONTI I (presunti) meriti dei buoni e il diverso peso dei morti
Alle solite. L’emozione mediatica per l’uccisione, domenica, da parte di un palestinese di due cittadini di Gerusalemme (una donna e un poliziotto) è stata pressoché nulla. Come se ci si fosse trovati al cospetto di un non evento. Eppure si trattava di un accadimento doloroso ma simile a tanti altri che di trepidazione ne hanno provocata molta. Davide Frattini, su queste pagine, ha opportunamente messo in risalto che l’uccisore non era un palestinese qualsiasi, bensì un aderente al gruppo fondamentalista Murabitun, formazione che, nell’intento di «proteggere» la moschea di Al Aqsa, incita a sparare nel mucchio. Un po’ quel che accade sempre più spesso in Europa e negli Stati Uniti dove ultras islamisti muovono all’attacco di cittadini inermi, colpevoli solo di trovarsi lì per caso. Solo che se questi cittadini sono ebrei, la pietà generale si fa più tenue. Invece di ebrei, stavolta avremmo potuto scrivere «israeliani», mettendo l’accaduto — per le vie subliminali — sul conto di Benjamin Netanyahu. Ma la verità è che da anni ad entrare nel mirino degli jihadisti sono ormai quasi esclusivamente degli ebrei per nessun motivo riconducibili al primo ministro israeliano. E — come fu evidente nel gennaio 2015 quando Amedy Coulibaly ne uccise quattro all’ipermercato kosher di Parigi nelle stesse ore in cui i fratelli Kouachi compivano la strage nella redazione di «Charlie Hebdo» — l’allarme e lo struggimento per le loro morti è meno evidente di quello suscitato dalle uccisioni di altre persone.
È importante far caso a tali «differenze» dal momento che questi momenti di turbamento — peraltro sporadici, discontinui e a corrente alternata — ci impediscono di formulare giudizi destinati a reggere ad alcuni fondamentali test di coerenza. Restiamo sul terreno della commozione ma trasferendoci su un altro versante della grande crisi mediorientale e guardiamo ai bombardamenti su Aleppo (Siria) e Sirte (Libia). Sono casi diversi, molto diversi, soprattutto per la quantità di morti. Ma in entrambe le situazioni si tratta di momenti drammatici nel corso della «liberazione» di città, o di quartieri delle stesse, da qaedisti e jihadisti. A compiere questo complicato genere di operazione sono, sul fronte di Damasco, i «cattivi» di Putin e di Assad (avversati dalle Nazioni Unite), e, su quello di Tripoli, i droni «buoni» e gli aerei di Obama che (apprezzati dalle Nazioni Unite) intervengono in aiuto di Fayez al-Sarraj. Questa ormai introiettata divisione tra buoni e cattivi comporta che, per quel che riguarda la Siria, le orribili stragi di Aleppo (bombe su convogli umanitari, su ospedali, uccisioni di bambini, tutto presumibilmente per responsabilità dei russo-siriani) sono giustamente stigmatizzate, ma se gli americani «per errore» infrangono per primi la tregua di settembre bombardando là dove non avrebbero dovuto, il coro dell’indignazione generale resta silente. Non si alza neanche un voce per chiedere dettagli su come sia stato possibile che — in un frangente così delicato, laddove si era trovato dopo mesi e mesi un accordo tenuto insieme da un filo di seta per far giungere un soccorso medico e alimentare alla popolazione di Aleppo ormai a rischio di estinzione — come sia stato possibile, dicevamo, che sia stato commesso una «svista» del genere. Per carità, un errore è un errore, ma è strano che su quello sbaglio degli aerei statunitensi nessuno abbia chiesto di saperne di più e ci si sia accontentati di scuse peraltro assai generiche. Tutto ciò, ripetiamolo, senza cercare in alcun modo attenuanti al raccapriccio provocatoci dalle nefandezze perpetrate dai carnefici siriani.
Stesso discorso si può fare a proposito del ginepraio libico. Sottolineiamo ancora una volta che non si può mettere sullo stesso piano la realtà di Sirte e quella molto più complessa di Aleppo. Però anche contro Sirte è in atto da tempo (per la precisione da maggio) un’offensiva liberatrice a suon di bombe. Anche lì, come ad Aleppo, si annuncia che la sconfitta degli islamisti armati è prossima. Anzi dovrebbe già essere avvenuta alla fine di agosto, data fissata da Obama come termine ultimo per l’intervento militare americano. Intervento che invece è proseguito nell’indifferenza di tutti. Quando, sempre in agosto, fu conquistata Ouagadougou, si disse da parte di Sarraj che gli armati dell’Isis erano ridotti allo stremo e non potevano più ricevere aiuti dall’esterno. Adesso, trascorsi due mesi da quelle dichiarazioni, si continua a dire che la liberazione di Sirte è imminente ma non si ritiene di offrire qualche dettaglio in più su perché non si sia riuscito a rispettare il termine di fine agosto. Al più viene offerta qualche generica informazione su imprevisti tunnel sotterranei di cui disporrebbero gli uomini di Daesh, su rifornimenti che inaspettatamente sono riusciti a filtrare dall’esterno e poco altro. Pochissimo altro.
È curiosa, nei giudizi del campo democratico, questa inversione dei ruoli rispetto ai tempi della guerra fredda. Adesso gli americani sono messi lì a recitare la parte dei «buoni», i russi quella dei «cattivi» (e pensare che nel caso dell’ex capo del Kgb Vladimir Putin si tratta degli stessi russi di allora, con qualche anno in più!). Ma la pervicacia con cui ci si ostina a vedere soltanto le colpe dei cattivi e i meriti dei buoni è la stessa dei tempi antichi. Bizzarrie della storia. Forse sarebbe il caso di lasciar perdere questa riedizione dei tic comportamentali della guerra fredda (sia pure a parti invertite) e di cominciare a dirci qualche verità. La prima è che probabilmente anche sotto i bombardamenti di Sirte muoiono dei civili e un giorno si scoprirà che tra le vittime ci sono stati anche dei bambini, degli infermi, delle donne non militanti, degli anziani. Di sicuro non saranno stati uccisi deliberatamente come accade ad Aleppo (e questa è una bella differenza!) ma nel contempo sarà arduo sostenere che quelle morti erano assolutamente imprevedibili. Dovremmo completare il ragionamento dicendo chiaro che bombe fatte cadere dagli aerei su quartieri abitati, producono morti tra loro non dissimili, quale che sia la nazionalità del pilota alla guida degli aerei da cui sono state sganciate. E, visto che ci siamo, possiamo cominciare a dircene anche un’altra di verità: la guerra contro l’Isis è diversa da tutte le altre, non prevede trattative dal momento che il mondo a cui apparteniamo non saprebbe con chi trattare e, nel caso lo individuasse, non avrebbe niente da concedergli. Il califfato di al Bagdadi sta riducendo via via la sua estensione territoriale ma nessuno di noi sa quando e di che tipo sarà l’ultima fase di questo conflitto. E neanche cosa ne sarà delle terre «liberate». Purtroppo. E per restare all’oggi, c’è di che rammaricarsi perché quando si è costretti a combattere fino all’ultima stanza, dell’ultimo appartamento, nell’ultimo edificio in mano agli jihadisti di Sirte o dei qaedisti di Aleppo ( e in futuro di altri centri abitati) la guerra è destinata a riservarci ogni giorno nuove sorprese. Tutte sgradevoli.
Paolo Mieli, Il Corriere della Sera, 11 ottobre 2016