ORIZZONTI Elezioni USA, la sconfitta degli analisti
“Tutta la più sensazionale tecnologia, i big data, i sofisticati modelli che le redazioni americane hanno messo al servizio dell’impresa profondamente umana che è la politica non hanno salvato il giornalismo dall’essere rimasto ancora una volta dietro la storia, dietro il resto del paese”. Così si apre sul New York Times una dolorosa analisi sui risultati delle elezioni USA che riflette sul momento di difficoltà dei mezzi di comunicazione. La vittoria del candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump ha colto di sopresa praticamente tutti, compresi molti dei suoi sostenitori o alleati. Dopo migliaia di sondaggi, info-grafiche, mappe e osservazioni offerte da esperti, gli Stati Uniti hanno eletto come quarantacinquesimo presidente l’uomo che nessuno si aspettava. Così sin dalle prime ore dopo l’ufficialità degli esiti, i principali media hanno cominciato a chiedersi come sia stato possibile toppare in maniera così clamorosa, dando quasi per scontata, già da diverse settimane, la vittoria della democratica Hillary Clinton.
“Il presidente-eletto Donald Trump aveva ragione: a supportarlo c’era una maggioranza silenziosa” si legge nell’incipit di un articolo di James Hohmann del Washington Post. Una maggioranza che non è stata registrata dai sondaggi, ma che forse non ha neanche voluto ammettere il proprio voto, se è vero che, come riportato sempre dal quotidiano della capitale americana, negli exit poll a livello nazionale, solo il 38% degli intervistati ha dichiarato di aver indicato Trump come futuro presidente, a fronte del 52% a favore di Clinton.
Tanti i sondaggisti che hanno ammesso la sconfitta, di tutti gli schieramenti politici.
A cercare di spiegare cosa è andato storto, anche il settimanale inglese The Economist.
“Alla vigilia delle elezioni, le rilevazioni davano a Hillary Clinton un vantaggio di circa quattro punti percentuali, che mercato dei bookmaker e modelli statistici traducono in una possibilità di vittoria tra il 70 e il 90%” si evidenzia. Il primo punto chiave che emerge, risiede nel fatto che, se a livello nazionale, i dati si sono rivelati abbastanza precisi (tanto che Clinton ha vinto il cosiddetto “voto popolare” conquistando la preferenza della maggioranza degli americani), a livello dei singoli stati, fondamentali nel sistema elettorale statunitense, gli errori sono stati enormi.
“Ogni sondaggio è il risultato di una combinazione di due variabili: la composizione demografica dell’elettorato e come ci si aspetta che ciascun gruppo voti. Poiché alcuni di questi – per esempio i giovani uomini ispanici – tendono a essere meno disponibili a rispondere di altri (come le anziane donne bianche), i sondaggisti tipicamente danno diverso peso alle risposte che ricevono in mondo da adeguare le proprie proiezioni a come il bacino elettorale apparirà. Gli errori possono derivare sia dal selezionare intervistati di un certo gruppo che non ne sono realmente rappresentativi, sia dal non predire correttamente quanti di ciascuno si recheranno alle urne” sottolinea il settimanale. Così, i risultati di molti stati suggeriscono che ad aver votato sono stati molti più elettori bianchi senza una laurea del previsto (cioè lo zoccolo duro dei supporter di Trump). Considerando però anche quello che viene chiamato in fenomeno “shy (timido) Trump”: gli elettori che pur avendo deciso di sceglierlo non sono stati disponibili ad ammetterlo.
E del resto, come si legge ancora nell’amara riflessione di Jim Rutenberg, esperto di media del New York Times, ad essere mancato nella copertura giornalistica della campagna elettorale è qualcosa di più profondo del quadrare dei numeri.
“Il problema che è emerso martedì sera è molto più grande dei sondaggi. È chiaro che c’è una frattura profonda nel giornalismo, che non ha saputo stare al passo con l’umore anti-establishment che sta mettendo il mondo sotto-sopra. La politica non è solo una questione di numeri, i dati non riescono sempre a catturare la condizione umana che rappresenta il sangue della politica americana. E la funzione del giornalismo politico non consiste solo nel rivelare chi vincerà e chi perderà. Ma questa domanda, l’attenzione alla corsa dei cavalli, ha troppo spesso oscurato tutto il resto”.
In altre parole, siamo di fronte al “fallimento della capacità di catturare la rabbia in ebollizione di una larga porzione di americani che si sentono lasciati indietro da una ripresa economica selettiva, traditi dagli accordi di scambio commerciale che vedono come una minaccia ai loro posti di lavoro, e non rispettati dalla classe dirigente di Washington, di Wall Street, e dei media”.
Dopo che una situazione simile si era proposta qualche mese fa con la Brexit, l’inaspettato risultato del referendum che ha sancito la volontà dei cittadini britannici di lasciare l’Unione Europea, anche ai giornali e ai giornalisti americani il compito di ripartire, perché anche dalla stampa passa la corsa per capire (e forse guarire) le divisioni del paese.
Rossella Tercatin
(nell’immagine una cartina del New York Times che evidenzia come Trump abbia conquistato più sostegno di quanto fatto dal candidato alla presidenza Mitt Romney nel 2012)