ORIZZONTI Destinazione Gerusalemme
Gershom Scholem / DA BERLINO A GERUSALEMME / Einaudi
Da Berlino a Gerusalemme racconta la doppia «scelta di vita» di Gershom Scholem: una contro e una per. La scelta contro ha al centro la Berlino della sua infanzia e adolescenza (all’inizio del Novecento), la sua famiglia, l’ambiente umano e sociale. Una città e un tempo che Giulio Busi ricostruisce con attenzione nel suo saggio introduttivo. Berlino inizio ‘900, vista dal mondo ebraico di lingua tedesca. Un mondo sordo e cieco di fronte ai segnali pur chiari che arrivano dalla società intorno. Un mondo voglioso d’inclusione nella società guglielmina e che risponde con una dichiarazione di lealtà all’ostilità e al processo di crescente nazionalismo e antisemitismo. Una dimensione che Scholem ha davanti a sé, in famiglia (nell’albero di Natale che si fa in casa ogni anno, come ricorda, rievocando una scena che al lettore di oggi risulta tanto comica quanto irreale, p.31) e che s’incarna nella figura del padre e in quella del fratello Reinhold, il quale nel secondo dopoguerra gli dirà di continuare a definirsi orgogliosamente nazionalista tedesco, «perché non mi lascio dettare le mie opinionida Hitler» [pp. 47-48]. Gershom Scholem, invece, è convinto che quella scelta sia il risultato di un autoinganno [p. 28], perché da tempo, sostiene, è finito il processo di assimilazione e di emancipazione inaugurato dalla Rivoluzione francese (una condizione illustrata con attenzione da Hannah Arendt nel suo libro Rahel Vernhahgen, il Saggiatore, e da Zygmunt Bauman con il suo Visti di uscita e biglietti di entrata, Giuntina). Scholem è invece convinto che un progetto di rinnovamento sia possibile solo riandando a trovare le fonti, le domande, il sapere del mondo ebraico est-europeo, mondo incontrato e frequentato in quegli anni Berlino, e con cui la maggioranza degli ebrei tedeschi non vuole avere niente a che fare. La sua scelta per parte da questa opposizione ed è una sfida verticale al suo mondo di provenienza, a quello della sua famiglia e, complessivamente, a quello della Germania, al suo establishment, sia quello ebraico, ma anche quello non ebraico. Una scelta per che ha molti punti di congiunzione con quella, pur diversa, che negli stessi anni fa un altro suo fratello, Werner, dapprima esponente di sinistra della socialdemocrazia tedesca, poi fondatore del Partito comunista tedesco, per morire come deportato politico nel campo di Buchenwald nel 1940. Un’esperienza e un vissuto, quelli di Gershom, fatti di fonti, di passione per le fonti, ma anche di incontri con un mondo umano «altro», intessuto di tipi che Scholem frequenta nella Berlino tra anni ’10 e 1923 (quando emigra in Palestina) e che descrive in queste sue pagine. Sono gli anni in cui entra in contatto con tutte le inquietudini del suo tempo: la mistica anarchica di Gustav Landauer; la passione per il mondo chassidico proposta da Martin Buber, con cui peraltro ha sempre avuto un rapporto inquieto e scettico, perché considera superficiale la sua conoscenza di quel mondo; lo scambio irrequieto e appassionato con Walter Benjamin; l’entusiasmo per il sionismo, non perché convinto della necessità di uno Stato, bensì perché interpreta e vive il sionismo come rivolta contro una condizione «falsa». Condizione che egli riconosce a tutta la sua generazione quando scrive, parlando della sua decisione di andare in Palestina, che il suo «andar via» «era una scelta morale (…) una decisione presa a favore di qualcosa che allora ci sembrava inequivocabilmente un nuovo inizio, [legato] – sia che avesse un fondamento religioso sia laico – a una motivazione di etica sociale più che politica». [pp. 217-218]. Indizio interessante ma che non dice tutto. L’adesione di Scholem al sionismo, infatti, più che da una visione politica nasce da un’interpretazione dell’ebraismo come insieme di redenzione e utopia, vissuto culturale, ma anche emozionale, che coinvolge molte figure del mondo ebraico centro-europeo nei primi trent’anni del Novecento, come ha ricostruito con attenzione Michael Löwy nel suo Redenzione e utopia (Bollati Boringhieri). In Da Berlino a Gerusalemme, Scholem ne scrive in maniera subliminale, almeno per due indizi che emergono soprattutto nel capitolo conclusivo, quello del suo arrivo a Gerusalemme e del suo nuovo inizio di vita lì [pp. 236-277] Da una parte, come richiama Giulio Busi, fornendo uno spaccato umano, prima ancora che urbano, della città(un tratto che in letteratura fu proprio della scrittura del Premio Nobel Agnon, cui Scholem in questo suo libro parla con grande stima e affetto, una città che in anni più vicini a noi ci ha restituito nelle sue inquietudini Amos Oz in Una storia d’amore e di tenebra e in Giuda, Feltrinelli). Dall’altra rendendo un omaggio non previsto a Judah Leon Magnes [p. 269 e sgg.], primo rettore dell’Università ebraica di Gerusalemme, ma soprattutto sostenitore nel 1947 di un progetto di Stato binazionale israelo-palestinese. Un progetto che Scholem non sostenne, ma che tuttavia era in sintonia con il suo impegno politico e culturale tra anni 20 e’30. Una riflessione che forse, implicitamente, sta anche all’origine di questo suo libro «ultimo», in cui lo sguardo indietro non è nostalgia, ma cui non corrisponde un elogio del presente. 1977. II tempo è quello del tramonto di quella realtà non solo politica, ma anche umana e culturale che anni prima gli ha fatto compiere la sua «scelta di vita»: percezione che avverte nel momento in cui la destra di Menachem Begin per la prima volta va al governo (un passaggio che significativamente nel linguaggio pubblico israeliano è indicato come «il rovesciamento»). Un ultimo sguardo a un mondo in declino, che sta scomparendo con lui.
David Bidussa, Il Sole 24 Ore Domenica, 18 marzo 2018