Ferrara – Zikaron Ba Salon
“Papà Gegio e la vita dopo Auschwitz”

Casa Marcella Ravenna“In tutti i momenti e i giorni della mia vita, ho girato con inquietudine e affanno intorno ad Auschwitz, portando, e continuando a portare con me, un grande peso”.
Non le ha vissute direttamente, Marcella Ravenna, la guerra, le persecuzioni e la Shoah, perché non era ancora nata. Eppure, come ha raccontato agli alunni della V G dell’Istituto “Orio Vergani” di Ferrara, suoi ospiti nell’ambito del progetto dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane “Zikaron Ba Salon”, quelle vicende l’hanno segnata profondamente, tanto da condizionare anche il suo percorso di psicologa sociale.
Mentre racconta, ad aleggiare nel salotto di Marcella è la figura di suo padre Eugenio, detto Gegio, ed è un po’ come se a parlare fosse lui: “Ha vissuto in modo molto riservato, perlopiù in silenzio e senza riconoscimenti, la sua esperienza di perseguitato razziale, la perdita dei diritti civili, la carcerazione, l’internamento nel campo di Fossoli, la deportazione ad Auschwitz-Monowitz, dove rimase un anno e perse tutta la famiglia, e infine la condizione di superstite della Shoah. Il 27 gennaio 1945, quando il lager venne liberato, dopo un lungo periodo di cure mediche in un ospedale della Croce Rossa polacca, lavorò per alcuni mesi allo scavo di trincee e al ripristino di ponti per l’esercito russo. A Ferrara tornò solo il 15 settembre 1945”.
Ma chi era Eugenio Ravenna? In piedi, minuta, un po’ emozionata dietro gli occhiali dalla montatura rossa, precisa e partecipe nella sua ricostruzione, Marcella sposta le lancette indietro di venticinque anni: “Nacque nel 1920 in una famiglia ebraica benestante, secondogenito di Letizia Rossi e Gino Ravenna. Frequentò il Liceo Scientifico fino alle soglie della maturità, nel ’38, quando le leggi razziali lo costrinsero ad abbandonare la scuola e il Tennis Club Marfisa. Anche suo padre era stato uno sportivo e nel 1908 aveva partecipato alle Olimpiadi di Londra come ginnasta. Gino aveva, inoltre, combattuto nella prima guerra mondiale, ma il suo patriottismo fu tradito con la deportazione e la morte, come accadde a molti altri ebrei italiani”.
Il ’43 è ormai alle porte e dopo nulla sarà più come prima: “Mentre Marcellino, il fratello più giovane, frequentava la scuola ebraica di Via Vignatagliata, mio papà e la sorella Franca lavoravano nel deposito di alimentari all’ingrosso del padre. In estate dovettero trasferirsi ad Albarea, una frazione di Ferrara, e l’8 ottobre Gegio fu prelevato in casa – come ricordava lui stesso – dalla questura italiana e dalle Brigate nere, trasportato a Bologna, a San Giovanni in Monte, insieme ad altri politici ed ebrei ferraresi. Dopo una settimana, furono riaccompagnati a Ferrara, dove la detenzione continuò nelle carceri di Via Piangipane”.
La tragedia incombente è pronta a materializzarsi e bastano due date per rendere l’idea: il 19 ottobre, sosta a Ferrara il treno con i 1.023 ebrei catturati a Roma e diretti ad Auschwitz. Fra loro, la zia paterna di Gegio, Alba, col marito Mario e il figlio Giorgio. In quella fermata, Alba riesce ad allungare a un ferroviere un biglietto da recapitare ai parenti ferraresi, per avvisarli di mettersi in salvo. E dopo meno di un mese, il 15 novembre, l’eccidio del Castello. Nelle parole di Marcella Ravenna risuona nuovamente la testimonianza del padre: “Ci svegliarono alle 3 o alle 4 di notte. Nel camerone del carcere entrò il capo guardia con due agenti di custodia. Avevano in mano una lista e iniziarono a leggere. Fummo tutti scossi da un brivido e percepimmo che le cose stavano precipitando, che stava per succedere qualcosa d’impensabile. Mi rifugiai sotto le coperte della mia branda, in un gesto di difesa inconscio. Quando finirono di leggere i nomi, un po’ per egoismo, un po’ per la lotta che si fa per sopravvivere, tirai un respiro di sollievo. I quattro che erano stati chiamati si vestirono in fretta, senza sapere dove li avrebbero portati. Dopo mezz’ora sentimmo dei rumori: erano i nuovi detenuti, a centinaia, e ci dissero della fucilazione del Castello Estense”.
Mentre Gegio è in cella, i suoi familiari, incalzati dagli eventi e dall’intensificarsi degli arresti, a fine novembre provano a raggiungere la Svizzera. “Ma dopo un viaggio estenuante, i miei nonni, i miei zii Franca e Marcello, le cugine Novella e Amelia Melli e la prozia Milena Rossi vengono respinti al confine. Fermati a Domodossola, sono trasferiti nel carcere di Ferrara, dove ritrovano Eugenio”.
Quando il bombardamento del 29 gennaio 1944 rende inagibile la prigione, per gli ebrei maschi si aprono le porte della Caserma Bevilacqua di Corso Ercole I d’Este. È da qui che Eugenio invia agli amici più stretti una lettera durissima: “Tra pochi giorni parto per il concentramento. Pongo così fine ad oltre quattro mesi di ansie e di apprensioni, per attendere che questo caotico stato di cose si risolva in qualche maniera. Chissà che tutto vada per il meglio ed è questa la mia speranza suprema. Se non avessi questa, certamente potrei spararmi. Brutto destino davvero, dall’ormai lontano 8 ottobre è stato sempre un peggioramento. Tanti mi invidiavano perché non facevo la guerra ed ora avete visto che razza di guerra mi fanno? Ho perduto tutto, persino il letto mi è stato tolto. Difficilmente, se avrò la fortuna di sopravvivere, avrò a che fare con una masnada di vigliacchi simili. Nemico della Patria: ecco la mia nuova denominazione. Il mio odio è fortissimo; sono sicuro che saprei anche uccidere”.
L’11 febbraio, dopo una notte nell’edificio della Comunità Ebraica di Via Mazzini, all’epoca adibita a campo di concentramento provinciale, Gegio è tra i 48 ebrei ferraresi che vengono caricati su un pullman diretto a Fossoli, dove la sua vita si intreccia indelebilmente con quella di Leonardo De Benedetti, Primo Levi, Luciana Nissim, Italo Moscati, Silvio Barabas. In quattro giorni, il convoglio numero 8, partito da Carpi il 22 febbraio, li porta tutti nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau: “Mio padre e mio nonno – prosegue Marcella – furono impiegati nei lavori di ampliamento dello stabilimento della IG Farben, che produceva benzina e gomma sintetica. Lavoravano all’aperto dodici ore al giorno, caricandosi in spalla sacchetti di cemento e di carbone e pile di mattoni o scavando buche. Nonno Gino, che aveva cinquant’anni, non riuscì a resistere più di un mese e mezzo. Capirono che era un elemento irrecuperabile e alla prima occasione lo fecero ‘trasferire’, cioè eliminare. Avveniva sempre di domenica, per non perdere le ore di lavoro”.
A Monowitz, Eugenio Ravenna fu bastonato davanti a un comandante delle SS e ad altri responsabili del campo, dovette assistere a una decina di impiccagioni, superò non meno di sei selezioni per le camere a gas e venne sottoposto a un intervento chirurgico per una sinusite, oltre che a sperimentazione di farmaci. Fino alla liberazione, il 27 gennaio 1945, dopo essere stato lasciato fra gli intrasportabili dai nazisti in fuga. Alle parole della figlia si sovrappongono e fondono ancora quelle del padre: “Ero al Ka Be con una piaga sulla fronte che gettava pus, dissenteria acuta e un principio di congelamento ai piedi. Ridotto a 38 chili, venti in meno del mio peso normale, giacevo in uno stato di torpore nell’infermeria. Le cannonate erano cessate, un profondo silenzio avvolgeva il lager pieno di morti e di moribondi. Ci trascinammo fuori dalla baracca. C’era gente che piangeva, altra sembrava impazzita. Nella foschia si intravedevano delle ombre avanzare. Erano soldati sovietici con il mitra a tracolla”. Cinquecento persone partite da Fossoli e solo ventitré sopravvissute.
“Ciononostante – sottolinea Marcella con amaro disincanto – non c’è una fine, per riprendere il titolo del libro di Piotr Cywiński, Direttore del Memoriale di Auschwitz. Su un tema come lo sterminio di un popolo, nessuno raggiunge mai la piena consapevolezza del clima, dei fatti e delle esperienze angoscianti vissute dalle vittime. Non ho potuto incontrare nonni, zii, prozie e cugine, ma loro e tutti gli altri massacrati sono al centro del mio essere ebrea. Questo sentimento è fatto anche di una connessione profonda con quei morti. Non ho mai sentito le loro voci, né ho conosciuto le loro idee e aspirazioni, e mio padre è morto troppo presto. Al profondo silenzio della mia infanzia e giovinezza, alla mancanza di lettere, di libri appartenuti a ciascuna di quelle persone, agli oggetti dei quali non mi è stato possibile riannodare la storia, fin da piccola ho reagito leggendo tutto quello che potevo sullo sterminio. E nel 2000, quando sono andata ad Auschwitz con mia madre e i miei fratelli, mi sono sentita inspiegabilmente a casa, in pace. Ho pensato che quello fosse il mio posto, che avrei potuto rimanere lì come una specie di guardiana della memoria”.
Un ruolo che Marcella Ravenna effettivamente ricopre, ma nelle vesti di psicologa sociale: “Da quel momento, mi sono impegnata a dare risposta ad alcune domande attraverso i miei studi. Ho approfondito il funzionamento umano dei carnefici: perché e a quali condizioni le norme che generalmente inducono ad aiutare e a proteggere i propri simili possono perdere la loro funzione di guida delle azioni individuali e dei gruppi, rendendo possibili forme di maltrattamento e di atrocità? Mi sono occupata degli esperimenti di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità, per verificare se potevano aiutare a comprendere meglio le cause dello sterminio degli ebrei in Europa. Quindi, ho considerato i fattori e i processi psicosociali che hanno indotto una quota considerevole di medici e infermieri a partecipare ai programmi AKTION T4 di sterilizzazione e di eutanasia di neonati, bambini, adolescenti, adulti, anziani e disabili. Per poi passare alle vittime, delle quali ho cercato di ricostruire e articolare la psicologia, per mettere alla prova la nota e tuttora diffusa rappresentazione degli ebrei sterminati come un’entità omogenea di persone che andarono alla morte come pecore al macello. Fu davvero così o è solo un’immagine stereotipica? Le vittime non sono, anzi, esempi di coraggiosa resistenza civile al male e alla disgregazione, e non è per questo doveroso custodirne e trasmetterne la memoria?”.

Daniela Modonesi