MILANO – Rodi e la Shoah, una storia italiana: La mostra e il portale sulla comunità distrutta
Dal soffitto del Memoriale della Shoah di Milano scende una selva di fili. Sono 1.817 per la precisione, quasi tutti bianchi, e con lunghezze diverse. Il pubblico è invitato ad attraversarli per capire l’ampiezza della tragedia. Quei fili rappresentano i 1.817 ebrei di Rodi deportati il 23 luglio 1944 dall’isola. Un’intera comunità ebraica spazzata via in un solo giorno dalla ferocia nazifascista. Ma il destino di quelle vite non è stato dimenticato, sottolineano Sara Buda e Daniela Scala della Fondazione Cdec, curatrici della mostra al Memoriale intitolata «Ebrei di Rodi. Eclissi di una comunità 1944-2024» (aperta fino al 2 settembre). «Ogni visitatore è chiamato a contribuire, appendendo a uno dei fili un cartoncino prestampato che rappresenta uno dei deportati. I fili hanno diverse lunghezze, che corrispondono all’età raggiunta il 23 luglio del ’44. I più corti indicano i neonati», spiegano Buda e Scala. Sopra al cartellino sono riportati il nome, la data e il luogo di nascita, il nome del padre e della madre. «Sono i dati essenziali per restituire a ciascun deportato la sua identità».
Tra i fili e i nomi compaiono anche quelli di Sami Modiano, nato a Rodi il 18 luglio 1930, e della sua famiglia. «I nazisti presero tutti gli ebrei presenti sull’isola con l’inganno il 18 luglio 1944. Nessuno riuscì a sfuggire e cinque giorni dopo ci caricarono su un vecchio barcone: oltre 1.800 persone, buttate nella stiva che i tedeschi non avevano neanche pulito dagli escrementi animali», ha raccontato Modiano, partecipando all’inaugurazione della mostra al Memoriale.
Il suo filo è uno dei pochi di colore diverso dagli altri: Verde acqua. Assieme a soli altri 178, Sami è sopravvissuto al viaggio e alla deportazione ad Auschwitz-Birkenau. «Noi sopravvissuti abbiamo una missione precisa: raccontare tutta questa crudeltà della storia che ci ha sopraffatto. Per molto tempo, quando sono uscito fuori da quell’inferno, mi sono chiesto perché sono sopravvissuto, perché proprio io». Per testimoniare l’orrore e non dimenticare le vite e la storia di Rodi, ha spiegato Modiano. Un impegno portato avanti da decenni dal Cdec e dalla storica Liliana Picciotto. Nell’installazione e nel portale dedicato alla Comunità del Dodecaneso (ebreidirodi1944.cdec.it) confluisce una parte del lavoro iniziato proprio da Picciotto sui nomi della Shoah italiana. «Troppo spesso ci si dimentica che il Dodecaneso era un possedimento italiano. E il destino degli ebrei di Rodi è segnato da questa malasorte: quando nel 1924 gli fu offerta la scelta tra la cittadinanza italiana e quella turca (potenza che prima governava l’isola), la stragrande maggioranza scelse la prima con convinzione. Guardavano alla cultura italiana come a un faro di civiltà», racconta a Pagine Ebraiche Picciotto. Quando nel luglio del 1944 i tedeschi presero il controllo dell’isola, solo i pochi ebrei cittadini turchi evitarono l’arresto e la deportazione. Sugli altri, calò l’eclisse raccontata al Memoriale di Milano.
Il progetto è stato possibile grazie all’archivio di Ester Fintz Menascé, donato al Cdec e parte fondamentale per la ricostruzione delle vicende di Rodi, sottolinea Buda, ricercatrice della Fondazione. «L’intera iniziativa però non è un punto di arrivo. Il coinvolgimento del pubblico non è solo legato all’installazione – ideata dall’art director Sara Radice – ma anche per perfezionare o aggiungere informazioni alla nostra ricerca».
L’appello è a chiunque abbia informazioni sulle 1.817 persone a condividerle con il Cdec. La strada privilegiata, aggiunge Scala, è il portale. «L’abbiamo immaginato come un luogo che può essere esteso e arricchito e in cui gli utenti possono interagire con noi. C’è un formulario compilabile in cui inviare nuovi documenti o dati rilevanti per la ricerca», spiega Scala, responsabile dell’area fotografica dell’archivio del Cdec.
Per Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah, la mostra su Rodi rappresenta un passaggio del rapporto con il Cdec. «È un esempio della sinergia tra i due enti, con l’obiettivo di fare memoria ed educare le giovani generazioni».
«La deportazione dalle isole di Rodi e Coo è una storia italiana. A 80 anni da quei fatti, non dobbiamo dimenticarlo», conclude Buda. «Si è trattato di un’eclisse perché la Comunità è sparita temporaneamente a causa della tragedia nazifascista. Ma non è stata annientata del tutto. Oggi alcuni suoi vivono sparsi per il mondo: dal Congo al Belgio, agli Stati Uniti», aggiunge Scala. E il Cdec, con questo progetto, cerca di riportare questo vissuto alla luce.
Daniel Reichel