Chissà come siamo cambiati negli ultimi cinquant’anni

Nel lontano 1964, l’Unione delle Comunità allora presieduta dal Giudice Sergio Piperno Beer, decise di accettare la proposta di Roberto Bachi, professore di statistica all’Università di Gerusalemme, di intraprendere una ricerca sistematica sulle caratteristiche demografiche, socioeconomiche e religiose-identitarie degli ebrei in Italia. Si trattava per la prima volta di creare una grande base di dati destinata a illustrare il profilo di una comunità duramente colpita dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah, e già allora al centro di importanti trasformazioni sociali e culturali legate a una cospicua immigrazione ebraica in Italia da diversi paesi mediterranei ed europei. Per compiere l’indagine Bachi aveva individuato due giovani, Franco Sabatello, studente di economia all’Università di Roma e prematuramente scomparso nel 1995, e il sottoscritto, studente di scienze politiche all’università di Pavia – entrambi attivi nella Fgei, desiderosi di sviluppare una migliore conoscenza dell’ebraismo italiano, e motivati a contribuire a un miglior funzionamento delle sue istituzioni. Entrambi poi, subito dopo il completamento dello studio che costituiva la base delle rispettive tesi di laurea, sarebbero andati a vivere in Israele. Stabilito che sarebbe stato intervistato un campione del 25 per cento di tutte le famiglie iscritte nei registri comunitari, i due giovani ricercatori si recarono in tutte le città d’Italia sedi di comunità per estrarre il campione delle famiglie da contattare. Le Comunità italiane contavano allora 29 mila 184 iscritti (oggi sono poco più di 25 mila). Ricordo che in una piccola Comunità del nord Italia, il rabbino capo locale – un maestro oggi anziano e pensionato ma ancora attivo e molto apprezzato – stava in piedi accanto a me mentre io selezionavo il campione rappresentativo delle famiglie da intervistare. La procedura era del tutto aleatoria e molto semplice. Si trattava di estrarre a sorte un numero da 1 a 4, e poi di procedere a scegliere sistematicamente una famiglia ogni quattro (il 25 per cento) partendo da quella del numero precelto. Mentre annotavo i nomi e gli indirizzi delle unità familiari campionate, il rabbino sorrideva e scuoteva la testa insoddisfatto: “Ma no, questo qui non si vede mai al tempio; quest’altro poi non vuole mai pagare le tasse; ma come si fa a scegliere questa vecchia signora che è antipaticissima. Ma perché non sceglie invece questo qui che è una bravissima persona; oppure il presidente della nostra Comunità che le darà tutte le informazioni del caso. Loro sí che sono rappresentativi”. Io invano cercavo di spiegare che la “rappresentatività” statistica derivava proprio dalla completa cecità o aleatorietà della scelta, e non da una selezione meditata di quelle che a prima vista potevano sembrare “le persone più rappresentative”. È solo cosí infatti che, sempre che il campione totale scelto abbia una cosistenza numerica sufficiente, potrà emergere il profilo reale della popolazione investigata senza deformazioni determinate a priori dal giudizio del ricercatore. Nella primavera del 1965 il questionario d’indagine fu inviato per posta a 3 mila 94 famiglie selezionate aleatoriamente. Di queste, 111 risultavano non più esistenti a causa di decesso, emigrazione, o duplicazione, e 1.243 risposero per posta. Le caratteristiche delle persone che rispondono per posta, notoriamente, sono molto selettive e non rappresentano necessariamente le caratteristiche della popolazione non rispondente. Furono così intervistate direttamente altre 553 famiglie. Tra le rimanenti 1.147 famiglie che non avevano ancora risposto, fu estratto un sottocampione di una famiglia su quattro, ossia 287 famiglie, e di queste 100 furono intervistate direttamente, mentre per le rimanenti 187 furono ottenuti i dati anagrafici disponibili presso le varie comunità. I dati del sottocampione di 287 famiglie venivano poi moltiplicati per quattro, onde restituirli al loro effettivo peso rispetto al campione originale. Dall’indagine risultavano viventi in Italia 30 mila 644 ebrei facenti parte di famiglie reperite attraverso i registri delle diverse comunità. Di queste famiglie facevano parte anche 4 mila 488 membri non ebrei. Inoltre si poteva valutare a circa 1.400 il numero degli ebrei non iscritti a una Comunità e a 1.362 il numero dei non ebrei nelle rispettive unità familiari. Si poteva cosí srimare l’esistenza di una “popolazione ebraica allargata” di circa 37 mila 850 persone, inclusiva di ebrei iscritti e non iscritti e dei rispettivi familiari non ebrei. Si trattava beninteso di un ebraismo italiano molto variegato nelle sue articolazioni di geografia e di dimensione comunitaria, fra Roma, Milano, le sei Comunità medie di Torino, Firenze, Trieste, Venezia, Genova e Livorno, e le altre Comunità più piccole, ma anche fra i diversi gruppi di origine: romani di Roma, italiani di vecchia data, immigrati dal bacino mediterraneo e Medio Oriente, e di origine centro-est europea. Prevedibilmente risultavano molto diversi i livelli socioeconomici delle diverse fasce dell’ebraismo italiano, e in parte legati a questi, i comportamenti riguardanti l’identità ebraica e la pratica religiosa. Emergevano tutte le tipologie possibili di ebraismo, e fra queste anche una certa sovversività molto creativa e italiana di fronte al possibile (anche se concettualmente assai povero) continuum fra conformità alle regole e assimilazione. Per esempio, alla domanda seguente: “Durante la festività di Pesach, voi a casa consumate: solamente azzime; solamente pane lievitato; sia azzime sia pane lievitato”, un anonimo signore rispose per posta: “A Pesach noi consumiano solamente crackers”. È passato quasi mezzo secolo dall’indagine del 1965, e ora sotto la direzione di Enzo Campelli, assistito da un comitato di esperti, sta per incominciare una nuova grande indagine rappresentativa sulle caratteristiche demografiche, socioeconomiche e identitarie dell’ebraismo italiano. Ci auguriamo che il pubblico partecipi di buon grado a questa importante iniziativa che si propone nuovamente di unire la necessaria esplorazione conoscitiva a degli obiettivi di pianificazione comunitaria. Per assicurare il benessere dei membri delle Comunità è necessario capire le loro esigenze, le loro preoccupazioni, la loro valutazione dell’efficienza dei servizi esistenti, e il loro accesso a tali servizi. Viviamo in un periodo di inquietudine non solo per il deteriorarsi della situazione economica in Italia e nei paesi europei, ma anche per quella diffusa atmosfera di ignoranza/allusione/ ostilità/doppio standard che spesso aleggia attorno alle cose ebraiche e alle persone che vi sono coinvolte. Di fronte a queste tendenze è importante conoscersi per meglio sviluppare strumenti di risposta attraverso lo studio, la documentazione, la comunicazione, e l’intervento pubblico. Quello che ci accingiamo a studiare è un ebraismo italiano ridotto numericamente rispetto a quello del 1965, nonostante le numerose immigrazioni verso l’Italia nei decenni intercorsi – dalla Libia, dall’Iran, e da molti altri paesi. Evidentemente il sistema Italia non ha avuto la capacità economica di trattenere presso di sé molti di questi nuovi arrivati, mentre senza dubbio molti altri, nati e cresciuti in Italia, hanno preferito cercare il loro futuro in Israele e altrove. Un altro fattore di erosione è stato senza dubbio l’assimilazione e la conseguente crescita dei matrimoni eterogamici che hanno causato la perdita di una parte della potenziale nuova generazione. Ed esiste oggi una dinamica di scissionismo ideologico interno superiore a quella esistente in passato. Ma va anche riconosciuto che l’ebraismo italiano di oggi è più istruito di quello di allora, possiede migliori strumenti di comunicazione e di diffusione delle proprie idee, ha migliori capacità di difendere i propri interessi, e dispone di molte solide amicizie negli ambienti italiani non ebraici. A tutti sarà utile sapere, con trasparenza e senza timore, quanti e chi siamo oggi.

Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme