Trent’anni – L’Italia non dimentica
“Molte volte avrei voluto intervenire nelle ricorrenti cerimonie di commemorazione. Avrei voluto gridare al mondo la mia tristezza, la disperazione che attanagliava tutta la mia famiglia e la rabbia per una giustizia mai arrivata. Tuttavia, ogni volta mi rinchiudevo in me stesso, assistevo alla cerimonia e poi tornavo a casa e sfogavo le mie emozioni scrivendo e suonando. Oggi le cose sono cambiate. Forse perché crescendo ci si rende conto di quanto sia importante conservare la memoria di eventi così tragici. Oggi sento il dovere di essere qui in qualità di testimone perché adesso sono cosciente che tocca a me fare in modo che il ricordo di Stefano non si dissolva nella nebbia della storia”. A parlare, in uno dei momenti più intensi della cerimonia svoltasi questa mattina in sinagoga in occasione del 30esimo anniversario dell’attentato al Tempio Maggiore di Roma, è un emozionato e commosso Gadiel Gaj Taché. Le sue parole, “di testimone” e allo stesso tempo “di sopravvissuto” all’attacco, pronunciate alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, risuonano in memoria del fratellino caduto sotto i colpi del terrorismo palestinese, Stefano Gaj Taché, e sono accolte con lunghi applausi dalle molte centinaia di persone raccolte al Portico d’Ottavia.
Ad affermare tra gli altri la vicinanza delle istituzioni il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente della Camera Gianfranco Fini, i ministri Annamaria Cancellieri e Andrea Riccardi, il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti e la governatrice dimissionaria della Regione Lazio Renata Polverini. Con loro anche gli ambasciatori d’Israele in Italia e presso la Santa Sede Naor Gilon e Zion Evrony. Prima dell’ingresso in Tempio, per tutti, una silenziosa sosta di fronte alla lapide che ricorda il piccolo Stefano.
La cerimonia si apre con un filmato che riporta a quelle ore drammatiche e con le note di Yerushalaim Shel Zahav, tra le canzoni di speranza più significative per il popolo ebraico. A introdurre gli interventi Ruben Della Rocca, assessore con delega ai rapporti istituzionali della Comunità ebraica di Roma.
“A trenta anni di distanza, la sua prestigiosa presenza qui con noi per commemorare Stefano Gaj Tachè – spiega il presidente Riccardo Pacifici rivolgendosi a Napolitano – ci commuove profondamente. Proprio lei che ha accolto la richiesta dei familiari di inserirlo tra le vittime italiane degli anni bui del terrorismo, un’iniziativa per cui ringrazio l’amico Pierluigi Battista del Corriere della Sera per la sua campagna di sensibilizzazione. Siamo orgogliosi di averla con noi oggi’”. Da Pacifici anche un invito al Capo dello Stato a dissipare “le ombre” e “i dubbi” che ancora gravitano attorno a quei fatti e a proseguire, sulla scia di quanto fatto dall’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, per favorire l’estradizione dalla Libia dell’unico colpevole ad oggi con un volto, Osama Abdel El Zomar. “Perché quel giorno, e sottolineo solo quel giorno, non vi era la presenza delle forze dell’ordine di fronte alla sinagoga. È forse vero, come abbiamo letto da più parti – si chiede – che siamo stati anche noi vittime del cosiddetto Lodo Moro, noi come altre vittime in Italia e all’estero?”.
“Quel bambino – afferma il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna – fu certamente una vittima del terrorismo e se molto abbiamo insistito perché questo fosse riconosciuto non è solo per un atto di giustizia ma anche per riaffermare i valori che ci uniscono”. Gli ebrei, insieme a tutti coloro che in Italia si riconoscono nei valori democratici, dice ancora il presidente dell’Unione, hanno visto in quel gesto criminale “un concentrato di tutto ciò che di più barbarico la mente umana potesse concepire”. L’uso di bombe e armi da guerra contro civili inermi, la violazione di un luogo sacro nel quale si era appena celebrata una festività dedicata ai bambini, il disprezzo per la vita umana e l’intenzione di colpire indiscriminatamente. “Quei fatti – prosegue soffermandosi sul pesante clima politico di quegli anni – denunciarono la mistificazione di chi voleva falsificare e deformare la storia. Come lei stesso, presidente, indicò con grande lucidità usando parole per noi indimenticabili: ‘Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascità, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele. No all’antisemitismo anche quando esso si traveste da antisionismo’”.
“Caro presidente – conclude il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni – conosciamo e apprezziamo il suo impegno a garanzia delle Istituzioni e per questo non dubitiamo che comprenda le nostre angosce e le nostre perplessità come ebrei e cittadini italiani. Il luogo sacro dove ci troviamo fu costruito per festeggiare l’inizio di una nuova era, la conquista di una cittadinanza dignitosa. Purtroppo gli eventi hanno contraddetto queste speranze, trasformandolo in un monumento alla sofferenza. Ma questo luogo, che ha accolto le visite di due papi, e che è sempre più affollato nelle riunioni di preghiera e di studio, è anche simbolo di fedeltà, di dialogo e di apertura. E’ con questo spirito che accogliamo oggi la sua visita, per quanto siano dolorosi i ricordi che l’hanno determinata”.
Sul palco sale infine una giovane studentessa romana, Martina Campagnani, che si dice sicura di come i semi gettati in questi anni nelle numerose classi che hanno partecipato al premio letterario intitolato alla memoria di Stefano continueranno a dare frutti “tra i migliori”.
Adam Smulevich – twitter@asmulevichmoked