Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino
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Nessuna
preghiera va perduta. Perché il rapporto tra Dio ed Israele non è
casuale, come quello con Bilam, ma intenzionale e fondato sull'affetto.
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David
Bidussa,
storico sociale
delle idee
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“In
silenzio, aperti a chi ci vorrà fare visita, per riflettere, in
silenzio, ma insieme, sul valore della vita”. Con lo slogan "aperti per
lutto", giovedì sera a Firenze nei giardini della sinagoga le porte
sono rimaste aperte, come il giovedì della settimana precedente, pur
con un programma diverso dal solito. È stato importante che quel
luogo non fosse “chiuso per lutto”, che nessuno fosse tentato dal
fascino del rinchiudersi, o del ripiegarsi su se stesso. Alle volte il
silenzio può essere inteso come una pratica di rigenerazione. Non è una
soluzione, ma ha un grande valore. La comunicazione è efficace quando
marca la distanza rispetto al previsto. L’intelligenza politica non è
soggiacere all’abitudine, è capacità di replica, senza subire il
ricatto del fatto compiuto.
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Ucei-Fondazione Cantoni Borse di studio per Israele
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Anche
per l’anno accademico 2014-2015 l’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane e la Fondazione Raffaele Cantoni tornano a offrire borse di
studio per ragazzi italiani che intendono sostenere un progetto di
formazione nello Stato di Israele.
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Fecondazione eterologa, una prospettiva ebraica
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L’autopsia
ha dato il suo risultato: Mohammed, il giovane palestinese ucciso negli
scorsi giorni da ignoti, è stato bruciato vivo. Mentre le forze di
sicurezza indagano sul movente dell’omicidio e nessuna ipotesi sembra
esclusa, non si placano le tensioni non solo sul fronte interno ma
anche con la Striscia di Gaza. Ieri infatti due missili lanciati dalla
Striscia hanno puntato la città di Beersheba, 200mila abitanti: sono
stati intercettati dal sistema difensivo Iron Dome (una cronaca, tra
gli altri, di Davide Frattini sul Corriere della sera). Sulla Stampa
Maurizio Molinari traccia l’identikit dei gruppi di lotta palestinese:
“Agiscono a piccoli gruppi, non rispondono ai partiti, odiano Israele,
disprezzano Abu Mazen e includono donne: sono gli shabab di Gerusalemme
Est protagonisti della rivolta di Shuafat che contagia altri centri
arabi, su entrambi i lati del confine del 1967”.
L’inquietante figura di Abu Bakr Al Baghdadi, l’autoproclamatosi
califfo dell’Islam responsabile di migliaia di morti nelle ultime
settimane, si manifesta una prima volta davanti alle telecamere. Dal
pulpito della moschea di Mosul il terrorista rivendica la scia di
sangue e sembra manifestare aspirazioni sempre più estese. “Il luogo,
le circostanze, il momento. Tutto – scrive Alberto Stabile su
Repubblica – spinge a considerare che l’inedita uscita pubblica del
capo dello ‘Stato islamico’, sigla tristemente famosa per le crudeltà
praticate nel mattatoio siriano, oggi orbata della definizione
‘dell’Iraq e del Levante’ (Isis), a significare che non ci si riferisce
più a questa quella regione araba, ma alla comunità intera dei
musulmani, sia stata accuratamente studiata per lanciare una serie di
messaggi”. Il principale dei quali sembra essere: “Non vi fate
illusioni. Siamo qui per restare”.
Una prospettiva ebraica sul tema della fecondazione eterologa. Ad
offrirla è il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni con un intervento
che appare sul domenicale del Sole 24 Ore. “Nella storia di tante
culture – scrive il rav – non vi sono stati grandi dubbi su come
definire chi è la madre; ma oggi abbiamo una madre genetica e una
gestante, tra un po’ forse non ci sarà la gestante, sostituita da
chissà cosa. E allora come si fa a costruire di corsa un nuovo sistema
di valori che sia il più possibile condiviso, dovendo decidere in poco
tempo ciò che prima veniva stratificato sull’esperienza di millenni? La
risposta dei mondi religiosi, come quello ebraico, è di non staccare il
legame con il passato ma di trovare il modo di un’evoluzione coerente.
Questo dà ad ogni decisione autorevolezza, condivisione, sicurezza e,
per chi ci crede, sacralità”.
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iSRAELE "Gli assassini saranno puniti"
“Andremo
in fondo a questa tragedia e i responsabili saranno puniti dalla
giustizia”. È la promessa del presidente della Repubblica israeliana
Shimon Peres, intervenuto in occasione degli arresti dei presunti
responsabili dell’uccisione di Mohammed Abu Khadir, il giovane
palestinese brutalmente ucciso negli scorsi giorni (l’autopsia ha
rivelato che con tutta probabilità è stato bruciato vivo). A prendere
forma con sempre maggiore evidenza, come anticipato dal quotidiano
Yedioth Ahronot e come ormai sostenuto da tutti i principali media
nazionali, è la pista dell’assassinio come atto di vendetta
all’omicidio di Eyal, Gilad e Naftali, i tre studenti di yeshivah
rapiti e uccisi nel Gush Etzion. “Non lasceremo nulla di intentato per
arrivare alla verità su questo orrendo delitto. Israele è uno Stato di
diritto e la legge deve essere rispettata da tutti. Non ci saranno
coperture o omissioni, l’indagine della polizia accetterà la verità e i
killer saranno puniti”, le parole del Capo dello Stato durante un
incontro con la stampa estera svoltosi in mattinata a Sderot, la
località maggiormente bersagliata (da anni e in particolar modo nelle
ultime ore) dal lancio di missili dalla vicina Striscia di Gaza. La
matrice degli arresti (al momento ne sono stati annunciati sei) ha
profondamente turbato l’opinione pubblica israeliana, già scossa dal
video che riprende il pestaggio di un cugino di Mohammed, Tariq Abu
Khdeir, fermato e picchiato da alcuni soldati alla vigilia dei
funerali. Ad intervenire anche la diplomazia americana che, in virtù
del passaporto statunitense detenuto da Tariq, ha richiesto pronti ed
efficaci accertamenti.
La
tensione continua a correre sia sul fronte interno, con violenti
scontri concentrati in particolare nell’area di Gerusalemme Est, sia
con le continue minacce da Gaza. L’ultimo attacco, diretto verso la
città di Beersheba (circa 200mila abitanti), è stato sventato grazie al
sistema anti-missilistico di Iron Dome. Le forze di sicurezza
israeliane hanno intanto catturato un palestinese sospettato di
complicità nell’assassinio di Eyal, Gilad e Naftali.
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BRASILE 2014
Rabbini nel pallone
Si
può guardare ai Mondiali in tanti modi: prendendo in considerazione la
dimensione tecnico-agonistica, appassionandosi alla scenografia e al
circus mediatico che fa da contorno alle partite, vedendo nel torneo un
significativo momento di incontro tra popoli e culture diverse. E ci si
può avvicinare all’evento, atteso in queste settimane dalle ultime fasi
di gioco, con la prospettiva di un religioso. Così ha fatto rav
Jonathan Sacks, ex rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth e tra
le personalità più influenti del pensiero (ebraico e non solo)
contemporaneo. In una brillante intervista alla BBC il rav ha infatti
spiegato il suo rapporto con la manifestazione e, più in generale, con
il mondo del pallone.
“Il calcio è molto più di un semplice gioco. Il calcio, per molti
versi, è come la religione. Ha il suo imprescindibile aspetto di
ritualità perché – afferma Sacks – essere tifosi significa fondare la
nostra identità su un qualcosa più grande di noi. Ma è anche un intenso
momento di fede, perché si tratta di sostenere la tua squadra anche
quando le convinzioni più profonde che puoi aver maturato sono messe a
dura prova dalle circostanze contingenti. E quando arriva il goal della
vittoria, finalmente, ci si stringe in un abbraccio collettivo per
raggiungere quello stato di trascendenza che un grande filosofo come
Hobbes ha definito ‘la gloria improvvisa’. Una terminologia perfetta
per spiegare questa sensazione”. "La verità – prosegue il rav – è che
sono sempre stato riluttante a parlare di calcio. Per capire le ragioni
dobbiamo tornare indietro di 20 anni: George Carey era appena stato
nominato arcivescovo di Canterbury e io Gran Rabbino d’Inghilterra,
quando è emerso che avevamo una grande passione in comune. Tifavamo
entrambi Arsenal. Così un personaggio molto noto ci ha chiesto di
salutarci ‘ecumenicamente’ nel suo box allo stadio di Highbury prima di
assistere, fianco a fianco, al successivo incontro con il Manchester
United. Entrambi abbiamo accettato con entusiasmo. E la grande notte è
arrivata”.
“Prima dell’inizio della partita – ricorda il rav – siamo stati
accompagnati sul terreno di gioco per presentare un’iniziativa di
solidarietà. Lo speaker ha spiegato chi fossimo e un brusio si è
diffuso in tutto lo stadio. In qualunque modo la si pensasse dal punto
di vista teologico, quella sera l’Arsenal sembrava poter contare su
supporter di un certo peso. Non potevamo perdere". E invece quella sera
l’Arsenal avrebbe subito il passivo casalingo più pesante della sua
storia. Una batosta clamorosa: 6 a 2 per i Red Devils. Il giorno
successivo un tabloid avrebbe condito la cronaca sportiva con questa
postilla: “Il fatto che l’arcivescovo di Canterbury e il rabbino capo
non riescano insieme a far vincere l’Arsenal, ma che anzi questo
sprofondi in modo così evidente sotto i colpi degli avversari,
dimostrerebbe la non esistenza di Dio”. Memorabile il commento del rav:
“Al contrario, dimostra che Dio esiste. È solo che tifa Manchester”.
Una forte passione per la disciplina, ma allo stesso tempo un’accesa
rivalità tra le rispettive squadre del cuore, accomuna rav Sacks e il
suo successore rav Ephraim Mirvis. A poche settimane dal suo
insediamento, infatti, quest’ultimo ha voluto diffondere attraverso
Twitter una foto sul prato del White Hart Lane, il fortino di mille
battaglie del Tottenham (tra l’altro, come noto, la squadra più
“ebraica” d’Inghilterra). Era la vigilia di uno snodo fondamentale
della stagione, proprio contro l’Arsenal, e uno speranzoso Mirvis
scriveva: "Good luck to @SpursOfficial in their match”. Morale della
favola: Tottenham 0, Arsenal 1. Un fatto che anche la stampa
anglosassone, il Guardian in primis, non ha mancato di sottolineare con
britannico humour.
Allargando la prospettiva ai mondiali brasiliani, la nazionale inglese
ha tra l’altro nuovamente fallito, e in modo piuttosto plateale,
l’appuntamento con la coppa più ambita. Sconfitta persino dalla
traballante Italia di Prandelli all’esordio e con un ultimo posto nel
girone che non ha mancato di suscitare indignazione per il pubblico
vilipendio dello Union Jack. A questo punto, commenterebbe forse Sacks,
è evidente che le simpatie degli alti quartieri siano rivolte altrove.
Per sapere in che direzione basterà attendere il 13 luglio, data della
finalissima del Maracanà. “Sai che risate se vincesse l’Argentina di
Bergoglio”, è la battuta che circola in questi giorni tra gli ebrei
d’Oltremanica.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche luglio 2014
(Nell'immagine
in alto l'ex rabbino capo d'Inghilterra e del Commonwealth rav Jonathan
Sacks, grande tifoso dell'Arsenal. Nell'immagine in basso il suo
successore rav Ephraim Mirvis, supporter del Tottenham)
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BRASILE 2014
Neymar ko, la satira di Israele
Che
Brasile sarà senza Neymar? Sono in tanti a chiederselo da Rio De
Janeiro a San Paolo, da Manaus a Brasilia, in un paese che vive di
calcio e che si trova ad affrontare le ultime due partite del Mondiale
senza il suo principale protagonista dopo l'infortunio occorso nei
quarti di finale contro la Colombia. Ore di autentica preoccupazione
per la torcida verdeoro così riassunte, con una efficace vignetta (le
mani sulla coppa che coprono le lacrime del calciatore), dal quotidiano
Israel HaYom.
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Capire e reagire |
Al
termine di una settimana luttuosa e, nel medesimo tempo convulsa, dal
momento in cui l’angosciante vicenda dei tre ragazzi rapiti si è
risolta nel peggiore dei modi possibili, e dopo che un corollario di
violenze si è accompagnanto agli esiti della tragedia, l’invito a
comprendere per meglio agire (o reagire), non è in sé un esercizio di
circostanza bensì un atto indispensabile. Capire non vuole dire
giustificare (cosa, poi? Forse degli omicidi a sangue freddo?) ma
definire che cosa certi gesti significhino nel contesto temporale e nei
luoghi in cui si verificano. Al di là dell’emozione e del cordoglio,
frammisti anche ad esasperazione e sconcerto, c’è poi la necessità,
consegnata in prima battuta alle autorità politiche e alle istituzioni
ma, in immediato riflesso a tutta la comunità israeliana e anche a
quella diasporica, di articolare una risposta che riesca a sancire
durevolmente l’impraticabilità – o quanto meno i costi politici
insostenibili – che una prassi mortifera quale quella dei rapimenti e
degli assassini di civili dovrebbe da subito comportare per i loro
responsabili. Cosa, quest’ultima, che invece non è mai stata, avendo
potuto operare non tanto in un vuoto di risposta da parte dei congiunti
e dei connazionali delle vittime, ma nella sostanziale diffidenza della
comunità internazionale verso il diritto di un Paese all’autodifesa.
Claudio Vercelli
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Nugae
- Intromissioni |
La
vita procede placida tra un acquazzone e l'altro, sempre cercando se
stessi e trovando solo vestiti in saldo, sempre immergendosi in libri
dalla copertina appariscente e dimenticandosi di scendere alla fermata
del tram, sempre con l'ambizione di riuscire a fare tutto e non
riuscendo nemmeno in quella di tenere a bada i capelli. Nel frattempo
la realtà, che a volte da una vietta del centro a volte da più lontano
(ma poi non molto) omaggia di tormenti gli individui dall'esistenza
magari anche un po' meno fatua di questa, decide d'intromettersi. Ma la
cosa interessante è che lo fa senza per forza strillare e in momenti
non per forza scontati.
Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche
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Identità: Salomon Pereira
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Nel
1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion
si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità
ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che
avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di
Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del
professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa
significa essere ebreo?” - scaricabile dai siti www.proedieditore.it e
www.hansjonas.it - ha messo in luce per la prima volta in Italia quella
discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul
nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le
loro risposte. Oggi la risposta di Salomon Rodrigues Pereira (1887-1969), che è stato rabbino capo sefardita di Amsterdam.
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"Non sono un militante"
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Ringrazio
l’amico Sergio Della Pergola per avere involontariamente creato
l’opportunità che ora mi permette di scrivere sul notiziario quotidiano
Pagine Ebraiche 24: è un onore parlare ai lettori della stampa ebraica.
E sono costernato per ciò che un omonimo di Sergio Della Pergola ha
scritto di me in un articolo intitolato “La crociata dei falsari” e
pubblicato qualche giorno fa. L’occhiello del commento era “Pilpul”: in
realtà, più che spaccare il capello in quattro quel Sergio che non
conosco ha usato il napalm.
Ho impiegato un po’ per chiedere ospitalità a Guido Vitale, perché ero
deluso. Di solito non rispondo agli insulti e alle minacce: sono
infortuni del mestiere che vanno accettati. Ma Sergio per me era
speciale: 39 anni fa celebrai a casa sua il mio primo Shabbat. Il tono
del suo intervento non rende onore alla cultura, l’intelligenza e
l’equilibrio dell’uomo che conosco e seguo da molto tempo.
Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore
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