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1 ottobre 2014 - 7 Tishri 5775
PAGINE EBRAICHE 24
ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav
David
Sciunnach,
rabbino
“Questa è la benedizione con cui Moshè l’uomo del Signore, benedisse i figli d’Israele…”(Devarìm 33, 1). Ci fa notare Rabbì Chanòch Tzvì di Bendin, nel suo libro Yechaèn Peèr: In base a quanto ci insegnano i Maestri l’Eterno mostrò a Moshè Rabbenù nel giorno della sua morte tutte le generazioni del popolo d’Israele fino alla fine dei tempi. Da questo è chiaro che quando Moshè Rabbenù benedisse i figli d’Israele incluse in tale benedizione anche le generazioni future. È per questo l’uso in mezzo al popolo d’Israele che nel giorno di Simchàt Torà tutti i presenti salgono alla lettura. Con tale lettura ogni uomo prende la sua benedizione particolare da Moshè Rabbenù. È per questo che bisogna adempiere a questo uso con osservanza, e non rinunciare, poiché con tale azione diveniamo tutti soci nella benedizione che Moshè Rabbenù ha dato a tutte le generazioni.
 
David
Assael,
ricercatore
Dopo il fallimento dell’esportazione della democrazia (cosa che doveva essere chiara con Napoleone) e delle cosiddette primavere arabe, si guarda con occhi disincantati alla sollevazione popolare che sta attraversando Hong Kong. Obama fa il tifo per i manifestanti, e questo, visti i precedenti, potrebbe non essere una buona notizia per loro. Io, però, ho un amico russo, che mi ricorda come, dopo Tienammen, la Cina si sia avviata a diventare la strapotenza economica mondiale, mentre il suo Paese d’origine, abbattuti i tiranni, si è indirizzato verso il default, per ripendersi solo dopo la presa del potere dell’attuale inquilino del Cremlino, non esattamente un esempio di leader democratico. Così, oltre il governo di Pechino, i ragazzi di Hong Kong dovranno sconfiggere anche lo scetticismo dello stanco Occidente.
 
Pio XII e la Shoah,
storici a confronto
Continua a far discutere il ruolo di papa Pio XII in vista del convegno che si terrà domani a Roma presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi dal titolo “Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale: eventi, ipotesi e novità dagli archivi” nel quale interverranno Andrea Riccardi (Roma Tre), Anna Foa (La Sapienza), Umore Yagil (University of Tel Aviv), Eduard Housson (Parigi IV). Su Avvenire un articolo del responsabile scientifico Matteo Luigi Napolitano che riesamina le posizioni del papa durante la Shoah. Napolitano chiama a testimonianza le riflessioni dei giornalisti dell’epoca che vedevano Pacelli come un ostacolo per l’avanzata nazista: “In ambienti francesi bene informati – scriveva da Parigi Edmond Taylor – vige la convinzione che Pio XII seguirà una linea estremamente ferma verso i tentativi degli Stati totalitari di invadere ciò che la Chiesa ritiene essere le sue prerogative spirituali e materiali”. E, alla luce di possibili nuovi documenti provenienti dagli archivi, Napolitano ipotizza: “Anzitutto non ci sorprenderebbe scoprire legami tra il Papa e le agenzie di soccorso ebraiche internazionali più forti di quanto non si creda, e alimentati da mutua fiducia. In secondo luogo, non esiteremmo a parlare di ‘priorità divergenti’ tra Vaticano e Alleati: per questi ultimi debellare la Germania era la precondizione per occuparsi d’altro; ma per il Papa era prioritario salvare vite umane, concentrandosi sugli ebrei e sulle vittime della guerra. Un terzo elemento potrebbe essere la ripresa di un dialogo tra il Vaticano e Mosca, forse già sul finire della guerra. Timidi segnali si erano colti già dopo il 1919″.

“Non dovrebbe essere difficile per gli europarlamentari della lista Tsipras: ammettere al più presto l’errore commesso con leggerezza e ritirare la candidatura per il premio intitolato a Sacharov e alla libertà di pensiero a favore di un blogger che odia i ‘sionisti’ e invoca la fine (proprio così, testuale, ‘la fine’) di Israele”, questo l’incipit di Pierluigi Battista del Corriere della Sera, dopo l’azzardata mossa della lista di Tsipras che sceglie di mettere in lizza Alaa Abd El-Fattah per il riconoscimento istituito dal Parlamento europeo. Il blogger che si era schierato contro la politica egiziana di Mubarak, più volte ha infatti ribadito frasi intrise di odio “improntate a un antisionismo così radicale e oltranzista da farle sconfinare nel più vieto antisemitismo”.

Si parla ancora delle indagini sull’Ospedale israelitico di Roma sui giornali di oggi. Mentre si annunciano alcuni avvisi di garanzia, si arriva anche alla definizione del danno erariale definito nel primo troncone dell’indagine: otto milioni di euro. “Un nuovo buco nei già martoriati conti della Regione Lazio. E questo solo per quanto riguarda le cure odontoiatriche, per le quali vigeva il consueto protocollo: ritoccare all’insù la contabilità in modo da ottenere maggiori rimborsi della Asl sulle prestazioni effettuate”, scrive Ilaria Sacchettoni sul Corriere della Sera Roma.
Su Repubblica Roma ( Lorenzo D’Albergo, Salvatore Francesco) si raccolgono intanto le voci preoccupate dei dipendenti dell’Ospedale e la richiesta di chiarezza da parte dei sindacati di categoria, al lavoro per un incontro con il governatore della Regione Lazio Nicola Zingaretti.
 
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  davar
VITTORIO DAN SEGRE (1922-2014)
Responsabili della nostra identità
Tra le tante e preziose perle di saggezza che ci ha regalato l’amico Vittorio Dan Segre z.l, una in particolare riecheggia spesso in me con vigore. “È meno impegnativo sentirsi ebrei per via di un nonno deportato ad Auschwitz che per legarsi i Tefillin sul braccio e sulla testa tutte le mattine”.


(L'immagine è di Giorgio Albertini)

Roberto Della Rocca, rabbino
VITTORIO DAN SEGRE (1922- 2014)
L'ultimo libro per raccontare       il rigore che vola in alto
Delle tante cose che ha detto, qui ed altrove, lui che era anche un retore di una potenza assai rara, una colpisce più delle altre. Ad un certo punto, infatti, parlando di sé, delle sue vocazioni, ma anche delle circostanze come del caso, commenta alcune scelte professionali affermando che «le scienze politiche sembrano fatte apposta per me o per tipi come me, che della scienza hanno le pretese ma non le capacità e della politica l’ambizione ma non la responsabilità».
Così Vittorio Dan Segre, nel suo ultimo libro, postumo, dedicato alla Storia dell’ebreo che volle essere eroe (Bollati Boringhieri, Torino 2014). Un’autobiografia che letteralmente ci cade tra capo e collo nel mentre l’autore si è da poco congedato da noi e
dal resto del mondo. Di lui sapevamo già molto, ma non troppo e mai a sufficienza. Se ne è andato quasi in punta dei piedi, in accordo con uno stile, il suo, che gli era anche e soprattutto sostanza morale, in pieno contrappasso ad una vita trascorsa invece a tamburo battente, attraversando le temperie del Novecento. Vivendole, condividendole e combattendo, con le armi della critica ma anche con la critica delle armi. Fin troppo facile cadere nell’elogio postumo, in una retorica celebrativa che rende omaggio ad una figura fondamentale dell’ebraismo italiano riconducendo la persona concreta al solo personaggio pubblico. L’avrebbe aborrito lui medesimo, odiando i pantheon e le musealizzazioni, dove si mettono le sacre salme per accertarsi che sono scomparse davvero una volta per sempre. E tuttavia la tentazione di leggere la sua esistenza come una sorta di cartina di tornasole di eventi, avvenimenti e soggetti collettivi, ovvero proiettando la sua persona su qualcosa di più grande, è troppo forte perché venga lasciata a se stessa, ossia insoddisfatta. La sua biografia in forma letteraria è quindi la summa del suo registro personale, quello che intratteneva nei rapporti individuali come nel suo modo di agire in pubblico. Lo stile a tratti caustico, un po’ sornione, sempre arguto e pensieroso, problematico e non rassicurante a prescindere, introduce e accompagna ognuno di noi a quell’intreccio tra pubblico e privato che per tutta la sua lunga esistenza, novantadue anni in piena lucidità, gli ha fatto da cornice. Il tratto d’unione tra le tante cose dette e qui scritte è la cognizione del corpo come potenza e come vincolo, come opportunità ma anche come limite. Laddove il sogno di potenza illimitata del giovane si stempera, passo dopo passo, in consapevolezza di una ragionevole e amministrabile impotenza.
L’ombra della malattia è presente quasi in ogni pagina, anche dove non se ne fa menzione alcuna. Non per atterrire anticipatamente il lettore e neanche per giustificare, tanto meno per assolvere, bensì per dare spazio al senso della vanità dell’esistenza, soprattutto quand’essa si erge a giudice del mondo. La coscienza di Vittorio è allora quella di un liberale che vive, nel corpo e nello spirito, la lotta
consapevole tra gli esiti dell’emancipazione risorgimentale, che in certi momenti si è fatta assimilazione, e una domanda radicale sull’identità. Laddove quest’ultima non coincide con l’anima bensì con il senso dello stare al mondo, ossia in questo mondo.
L’ebraismo è il pacchetto delle spezie in questa cucina della comprensione di sé e degli altri. Per questo la sua autobiografia, nel libro che ci consegna adesso che non c’è più, come negli altri testi che lo hanno preceduto nel tempo, diventa anche biografia di gruppo. Il tutto mediato attraverso il dolore fisico, che è un filtro nelle relazioni con se stesso, perimetrando attraverso la cognizione del peso della carne il proprio spazio, così come il rapporto con le donne lo diventa nel legame che aiuta a stabilire con ciò che appartiene a quanto ci circonda. Qui, a contare, più che i fatti sono le impressioni sui fatti medesimi. Un sottile anatema contro chi ha la pretesa di capirli e di spiegarli agli altri, quasi che fossero sempre e comunque riconducibili ad una secca razionalità, ad una causalità che l’autore non vuole in alcun modo riconoscergli, è il punto di partenza, e di arrivo, della serie di quadri di vita che compongono il testo. Mille volte lontano da tentazioni spiritualiste, saldamente ancorato alla sua identità laica, tuttavia nelle sue pagine si incrocia spesso il rimando ad una sfera di inconoscibilità che non deve essere messa in discussione. Così come il cruccio persistente è quello di governare romanticismo e realismo senza essere travolto dall’uno o dall’altro.
Prende in tale modo forma un autoritratto attraverso interposte figure, femminili e maschili, come se il senso della propria identità derivasse inevitabilmente da quella consapevolezza che è una costruzione che passa attraverso il legame con il proprio corpo, la spinta passionale e pulsionale, la proiezione verso gli altri, la restituzione che quegli altri, per noi significativi, ci fanno di noi stessi, inducendoci a formularci dei quesiti e non solo a prescrivere condotte. La cifra unitaria delle note, dei tableaux vivants che si susseguono nel testo è, inoltre, la cognizione dell’imperio della vecchiaia. Che si intrufola un po’ ovunque, compagna tanto inconfondibile quanto necessaria nella maturazione di una forma di saggezza che fa dell’esperienza la capacità di offrire uno sguardo pacato e profondo verso un presente che diventa l’unico tempo ancora disponibile. Vittorio non ha paura se non di lasciare qualcosa di incompiuto alle sue spalle, nella sua esistenza a tratti quasi rocambolesca, senz’altro piena di incontri, parole, eventi e impressioni. Una vita di relazioni, per come è raccontata da questo libro, sospeso, nella sua forma letteraria, tra piena resa autobiografica e insieme di racconti a sé stanti. In quella che sembrerebbe essere altrimenti una trama tutta intimista Vittorio Dan Segre inserisce il “resto del mondo”. Così come l’ha conosciuto e così come in parte non è più, anche se noi ci illudiamo che possa essere ancora tale.
C’è il senso del cammino, del percorso, e del trascorre delle cose. Non darsene troppa cura ed evitare i rimpianti, in buona sostanza, come probabilmente avrebbe pensato lui stesso, nel momento in cui il mondo medesimo, invece, ci obbliga a intervenirvi. La coscienza di un liberale novecentesco a tutto tondo, estraneo a qualsiasi velleitarismo, rigorosamente ancorato all’oggettività delle cose, emerge così nelle pagine che, raccontandoci di una vita, raccolgono il senso di tante esistenze.
Anche per questo, in tutta probabilità, è stimato per quel rigore che non era mai autoritarismo ma sempre e solo autorevolezza. Tanto più in un’epoca dove invece è risorsa assai scarsa.


(Nell'immagine la copertina del libro di Vittorio Dan Segre, Storia dell’ebreo che volle essere eroe ed.Bollati Boringhieri, Torino 2014)

Claudio Vercelli
QUI ROMA -  FOTOGRAFIA
Indagine sul sacro

“Non avrei mai fatto questo lavoro se non fossi stata ebrea. L'ebraismo è il punto di partenza, un osservatorio dal quale guardare al rapporto degli 'altri' con la religione e in particolare al significato che, in questo ambito, è incarnato dall'immagine”. Nata a Parigi, all'attivo molte mostre tra Europa, Stati Uniti e Asia, la fotografa Chantal Stoman si apre al pubblico romano con la personale “L'image Culte” inaugurata ieri a Palazzo Poli, monumentale struttura che si affaccia sulla Fontana di Trevi. Un viaggio intenso, tra scatti e interviste video, che approfondisce l'immagine nel culto cattolico e la pratica religiosa nella quotidianità. Tra case private, esercizi commerciali, vicoli e piazze, luoghi di culto: un volto di Roma, ha spiegato Chantal, che l'ha immediatamente stimolata. Iniziando proprio dall'ebraismo, religione che non contempla raffigurazioni sacre, e con l'ambizione di proporre una diversa prospettiva sul tema. A conferma dell'importanza del rapporto con le proprie origini la mostra infatti si apre con un'immagine, l'unica non relativa al mondo cattolico, che raffigura il salotto di una famiglia ebraica romana. Una famiglia tradizionale, attaccata alla propria identità come testimoniano la menorah e altri oggetti peculiari che vi si trovano esposti. In calce alla fotografia, denominata Bereshit (“inizio”), una citazione dal Talmud: “Ciò che è visibile – si legge – non è che il riflesso di ciò che è invisibile”.
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UNIVERSITà - ISRAELE
Psicometrico alla prova
Ancora pochi giorni prima della chiusura delle iscrizioni allo psicometrico in lingua italiana. C’è tempo fino al 13 ottobre infatti per poter richiedere di sostenere il test di ingresso necessario per accedere alle università israeliane durante la sessione di febbraio. L’iniziativa, realizzata grazie all’impegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, permetterà una nuova opportunità: facendo lo psicometrico in italiano il 17 febbraio (necessario però un minimo di 100 iscritti), in caso di esito negativo o non soddisfacente, lo si potrà eventualmente rifare in un secondo momento.
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QUI NUOVA GORIZIA
Babele e la salvezza nel teatro
La stagione dello Slovensko Narodno Gledališče di Nova Gorica (il Teatro stabile di Nuova Gorizia, Slovenia) si apre con prima assoluta di “Nora Gregor – Il continente nascosto della memoria”. Un’operazione culturale importantissima, nata dalle lunghe ricerche del Kinoatelje di Gorizia e che propone, attraverso la vicenda storica reale, un percorso che favorisca il superamento dei conflitti latenti ancora oggi, a distanza di cent’anni. “Nessuno torna pulito dalla guerra” è una battuta essenziale di questo spettacolo in cui le vite di persone realmente esistite che appaiono nella narrazione scenica, si alternano a quelle dei personaggi di pura invenzione presenti nel film appositamente girato a Trieste. Entrambe le vicende si basano su fatti storici reali e ruotano intorno alla figura della protagonista, Nora Gregor, attrice di cinema e teatro nata nella Gorizia austroungarica, da padre originario di Zohsee in Boemia (oggi Sázava in Cechia) e madre carinziana che, in fuga dalla città con la famiglia probabilmente già nel 1915, dopo aver calcato le scene dei teatri di Klagenfurt, Graz, Vienna, Berlino e Salisburgo con il grande Max Reinhardt, debutta sul grande schermo recitando anche con registi del calibro di Carlo Theodor Dreyer e Jean Renoir, l’allora sceneggiatore Billy Wilder, per approdare a Hollywood. Amica di Alma Mahler e Hedy Lamarr, lavora con Robert Montgomery e Douglas Fairbanks jr., alternando cinema e teatro.
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pilpul
Ticketless - Serpentine
La figura geometrica dominante in questo libro (Paolo Veziano, “Ombre al confine”, Fusta editore) è la “serpentina”, o meglio bisognerebbe dire le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga dall’Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone prossimo alla frontiera. I luoghi che fanno da sfondo al libro tornano nella nostra attualità quotidiana. La pressione migratoria al confine tra Italia e Francia percorre oggi quelle stesse serpentine. Foscolo le chiamava le fauci del Mediterraneo, là dove la Roja incomincia ad avere più spazio per la sua discesa verso il mare. Tra i documenti nuovi che questo libro ci restituisce spicca un disegno a matita di piccole dimensioni.

Alberto Cavaglion
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Periscopio - Responsabilità
Nel leggere i numerosi commenti dedicati, in questi giorni, all’analisi del fenomeno ISIS – la sua rapida e imprevedibile crescita, i suoi metodi brutali e sanguinari, il sinistro fascino esercitato anche su tanti giovani occidentali -, ho notato la grande frequenza con la quale, nel cercare un responsabile dell’inquietante minaccia, molti commentatori, di varia estrazione e orientamento, hanno fatto insistente riferimento alle “colpe dell’Occidente”.

Francesco Lucrezi, storico
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