David
Sciunnach,
rabbino
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“Questa
è la benedizione con cui Moshè l’uomo del Signore, benedisse i figli
d’Israele…”(Devarìm 33, 1). Ci fa notare Rabbì Chanòch Tzvì di Bendin,
nel suo libro Yechaèn Peèr: In base a quanto ci insegnano i Maestri
l’Eterno mostrò a Moshè Rabbenù nel giorno della sua morte tutte le
generazioni del popolo d’Israele fino alla fine dei tempi. Da questo è
chiaro che quando Moshè Rabbenù benedisse i figli d’Israele incluse in
tale benedizione anche le generazioni future. È per questo l’uso in
mezzo al popolo d’Israele che nel giorno di Simchàt Torà tutti i
presenti salgono alla lettura. Con tale lettura ogni uomo prende la sua
benedizione particolare da Moshè Rabbenù. È per questo che bisogna
adempiere a questo uso con osservanza, e non rinunciare, poiché con
tale azione diveniamo tutti soci nella benedizione che Moshè Rabbenù ha
dato a tutte le generazioni.
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David
Assael,
ricercatore
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Dopo
il fallimento dell’esportazione della democrazia (cosa che doveva
essere chiara con Napoleone) e delle cosiddette primavere arabe, si
guarda con occhi disincantati alla sollevazione popolare che sta
attraversando Hong Kong. Obama fa il tifo per i manifestanti, e questo,
visti i precedenti, potrebbe non essere una buona notizia per loro. Io,
però, ho un amico russo, che mi ricorda come, dopo Tienammen, la Cina
si sia avviata a diventare la strapotenza economica mondiale, mentre il
suo Paese d’origine, abbattuti i tiranni, si è indirizzato verso il
default, per ripendersi solo dopo la presa del potere dell’attuale
inquilino del Cremlino, non esattamente un esempio di leader
democratico. Così, oltre il governo di Pechino, i ragazzi di Hong Kong
dovranno sconfiggere anche lo scetticismo dello stanco Occidente.
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Pio XII e la Shoah,
storici a confronto |
Continua
a far discutere il ruolo di papa Pio XII in vista del convegno che si
terrà domani a Roma presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi
dal titolo “Pio XII e la Seconda Guerra Mondiale: eventi, ipotesi e
novità dagli archivi” nel quale interverranno Andrea Riccardi (Roma
Tre), Anna Foa (La Sapienza), Umore Yagil (University of Tel Aviv),
Eduard Housson (Parigi IV). Su Avvenire un articolo del responsabile
scientifico Matteo Luigi Napolitano che riesamina le posizioni del papa
durante la Shoah. Napolitano chiama a testimonianza le riflessioni dei
giornalisti dell’epoca che vedevano Pacelli come un ostacolo per
l’avanzata nazista: “In ambienti francesi bene informati – scriveva da
Parigi Edmond Taylor – vige la convinzione che Pio XII seguirà una
linea estremamente ferma verso i tentativi degli Stati totalitari di
invadere ciò che la Chiesa ritiene essere le sue prerogative spirituali
e materiali”. E, alla luce di possibili nuovi documenti provenienti
dagli archivi, Napolitano ipotizza: “Anzitutto non ci sorprenderebbe
scoprire legami tra il Papa e le agenzie di soccorso ebraiche
internazionali più forti di quanto non si creda, e alimentati da mutua
fiducia. In secondo luogo, non esiteremmo a parlare di ‘priorità
divergenti’ tra Vaticano e Alleati: per questi ultimi debellare la
Germania era la precondizione per occuparsi d’altro; ma per il Papa era
prioritario salvare vite umane, concentrandosi sugli ebrei e sulle
vittime della guerra. Un terzo elemento potrebbe essere la ripresa di
un dialogo tra il Vaticano e Mosca, forse già sul finire della guerra.
Timidi segnali si erano colti già dopo il 1919″.
“Non dovrebbe essere difficile per gli europarlamentari della lista
Tsipras: ammettere al più presto l’errore commesso con leggerezza e
ritirare la candidatura per il premio intitolato a Sacharov e alla
libertà di pensiero a favore di un blogger che odia i ‘sionisti’ e
invoca la fine (proprio così, testuale, ‘la fine’) di Israele”, questo
l’incipit di Pierluigi Battista del Corriere della Sera, dopo
l’azzardata mossa della lista di Tsipras che sceglie di mettere in
lizza Alaa Abd El-Fattah per il riconoscimento istituito dal Parlamento
europeo. Il blogger che si era schierato contro la politica egiziana di
Mubarak, più volte ha infatti ribadito frasi intrise di odio
“improntate a un antisionismo così radicale e oltranzista da farle
sconfinare nel più vieto antisemitismo”.
Si parla ancora delle indagini sull’Ospedale israelitico di Roma sui
giornali di oggi. Mentre si annunciano alcuni avvisi di garanzia, si
arriva anche alla definizione del danno erariale definito nel primo
troncone dell’indagine: otto milioni di euro. “Un nuovo buco nei già
martoriati conti della Regione Lazio. E questo solo per quanto riguarda
le cure odontoiatriche, per le quali vigeva il consueto protocollo:
ritoccare all’insù la contabilità in modo da ottenere maggiori rimborsi
della Asl sulle prestazioni effettuate”, scrive Ilaria Sacchettoni sul
Corriere della Sera Roma.
Su Repubblica Roma ( Lorenzo D’Albergo, Salvatore Francesco) si
raccolgono intanto le voci preoccupate dei dipendenti dell’Ospedale e
la richiesta di chiarezza da parte dei sindacati di categoria, al
lavoro per un incontro con il governatore della Regione Lazio Nicola
Zingaretti.
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VITTORIO DAN SEGRE (1922- 2014)
L'ultimo libro per raccontare il rigore che vola in alto
Delle
tante cose che ha detto, qui ed altrove, lui che era anche un retore di
una potenza assai rara, una colpisce più delle altre. Ad un certo
punto, infatti, parlando di sé, delle sue vocazioni, ma anche delle
circostanze come del caso, commenta alcune scelte professionali
affermando che «le scienze politiche sembrano fatte apposta per me o
per tipi come me, che della scienza hanno le pretese ma non le capacità
e della politica l’ambizione ma non la responsabilità».
Così Vittorio Dan Segre, nel suo ultimo libro, postumo, dedicato alla
Storia dell’ebreo che volle essere eroe (Bollati Boringhieri, Torino
2014). Un’autobiografia che letteralmente ci cade tra capo e collo nel
mentre l’autore si è da poco congedato da noi e dal resto del mondo. Di
lui sapevamo già molto, ma non troppo e mai a sufficienza. Se ne è
andato quasi in punta dei piedi, in accordo con uno stile, il suo, che
gli era anche e soprattutto sostanza morale, in pieno contrappasso ad
una vita trascorsa invece a tamburo battente, attraversando le temperie
del Novecento. Vivendole, condividendole e combattendo, con le armi
della critica ma anche con la critica delle armi. Fin troppo facile
cadere nell’elogio postumo, in una retorica celebrativa che rende
omaggio ad una figura fondamentale dell’ebraismo italiano riconducendo
la persona concreta al solo personaggio pubblico. L’avrebbe aborrito
lui medesimo, odiando i pantheon e le musealizzazioni, dove si mettono
le sacre salme per accertarsi che sono scomparse davvero una volta per
sempre. E tuttavia la tentazione di leggere la sua esistenza come una
sorta di cartina di tornasole di eventi, avvenimenti e soggetti
collettivi, ovvero proiettando la sua persona su qualcosa di più
grande, è troppo forte perché venga lasciata a se stessa, ossia
insoddisfatta. La sua biografia in forma letteraria è quindi la summa
del suo registro personale, quello che intratteneva nei rapporti
individuali come nel suo modo di agire in pubblico. Lo stile a tratti
caustico, un po’ sornione, sempre arguto e pensieroso, problematico e
non rassicurante a prescindere, introduce e accompagna ognuno di noi a
quell’intreccio tra pubblico e privato che per tutta la sua lunga
esistenza, novantadue anni in piena lucidità, gli ha fatto da cornice.
Il tratto d’unione tra le tante cose dette e qui scritte è la
cognizione del corpo come potenza e come vincolo, come opportunità ma
anche come limite. Laddove il sogno di potenza illimitata del giovane
si stempera, passo dopo passo, in consapevolezza di una ragionevole e
amministrabile impotenza.
L’ombra della malattia è presente quasi in ogni pagina, anche dove non
se ne fa menzione alcuna. Non per atterrire anticipatamente il lettore
e neanche per giustificare, tanto meno per assolvere, bensì per dare
spazio al senso della vanità dell’esistenza, soprattutto quand’essa si
erge a giudice del mondo. La coscienza di Vittorio è allora quella di
un liberale che vive, nel corpo e nello spirito, la lotta consapevole
tra gli esiti dell’emancipazione risorgimentale, che in certi momenti
si è fatta assimilazione, e una domanda radicale sull’identità. Laddove
quest’ultima non coincide con l’anima bensì con il senso dello stare al
mondo, ossia in questo mondo.
L’ebraismo è il pacchetto delle spezie in questa cucina della
comprensione di sé e degli altri. Per questo la sua autobiografia, nel
libro che ci consegna adesso che non c’è più, come negli altri testi
che lo hanno preceduto nel tempo, diventa anche biografia di gruppo. Il
tutto mediato attraverso il dolore fisico, che è un filtro nelle
relazioni con se stesso, perimetrando attraverso la cognizione del peso
della carne il proprio spazio, così come il rapporto con le donne lo
diventa nel legame che aiuta a stabilire con ciò che appartiene a
quanto ci circonda. Qui, a contare, più che i fatti sono le impressioni
sui fatti medesimi. Un sottile anatema contro chi ha la pretesa di
capirli e di spiegarli agli altri, quasi che fossero sempre e comunque
riconducibili ad una secca razionalità, ad una causalità che l’autore
non vuole in alcun modo riconoscergli, è il punto di partenza, e di
arrivo, della serie di quadri di vita che compongono il testo. Mille
volte lontano da tentazioni spiritualiste, saldamente ancorato alla sua
identità laica, tuttavia nelle sue pagine si incrocia spesso il rimando
ad una sfera di inconoscibilità che non deve essere messa in
discussione. Così come il cruccio persistente è quello di governare
romanticismo e realismo senza essere travolto dall’uno o dall’altro.
Prende in tale modo forma un autoritratto attraverso interposte figure,
femminili e maschili, come se il senso della propria identità derivasse
inevitabilmente da quella consapevolezza che è una costruzione che
passa attraverso il legame con il proprio corpo, la spinta passionale e
pulsionale, la proiezione verso gli altri, la restituzione che quegli
altri, per noi significativi, ci fanno di noi stessi, inducendoci a
formularci dei quesiti e non solo a prescrivere condotte. La cifra
unitaria delle note, dei tableaux vivants che si susseguono nel testo
è, inoltre, la cognizione dell’imperio della vecchiaia. Che si
intrufola un po’ ovunque, compagna tanto inconfondibile quanto
necessaria nella maturazione di una forma di saggezza che fa
dell’esperienza la capacità di offrire uno sguardo pacato e profondo
verso un presente che diventa l’unico tempo ancora disponibile.
Vittorio non ha paura se non di lasciare qualcosa di incompiuto alle
sue spalle, nella sua esistenza a tratti quasi rocambolesca, senz’altro
piena di incontri, parole, eventi e impressioni. Una vita di relazioni,
per come è raccontata da questo libro, sospeso, nella sua forma
letteraria, tra piena resa autobiografica e insieme di racconti a sé
stanti. In quella che sembrerebbe essere altrimenti una trama tutta
intimista Vittorio Dan Segre inserisce il “resto del mondo”. Così come
l’ha conosciuto e così come in parte non è più, anche se noi ci
illudiamo che possa essere ancora tale.
C’è il senso del cammino, del percorso, e del trascorre delle cose. Non
darsene troppa cura ed evitare i rimpianti, in buona sostanza, come
probabilmente avrebbe pensato lui stesso, nel momento in cui il mondo
medesimo, invece, ci obbliga a intervenirvi. La coscienza di un
liberale novecentesco a tutto tondo, estraneo a qualsiasi
velleitarismo, rigorosamente ancorato all’oggettività delle cose,
emerge così nelle pagine che, raccontandoci di una vita, raccolgono il
senso di tante esistenze.
Anche per questo, in tutta probabilità, è stimato per quel rigore che
non era mai autoritarismo ma sempre e solo autorevolezza. Tanto più in
un’epoca dove invece è risorsa assai scarsa.
(Nell'immagine
la copertina del libro di Vittorio Dan Segre, Storia dell’ebreo che
volle essere eroe ed.Bollati Boringhieri, Torino 2014)
Claudio Vercelli
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QUI ROMA - FOTOGRAFIA
Indagine sul sacro
“Non
avrei mai fatto questo lavoro se non fossi stata ebrea. L'ebraismo è il
punto di partenza, un osservatorio dal quale guardare al rapporto degli
'altri' con la religione e in particolare al significato che, in questo
ambito, è incarnato dall'immagine”. Nata a Parigi, all'attivo molte
mostre tra Europa, Stati Uniti e Asia, la fotografa Chantal Stoman si
apre al pubblico romano con la personale “L'image Culte” inaugurata
ieri a Palazzo Poli, monumentale struttura che si affaccia sulla
Fontana di Trevi. Un viaggio intenso, tra scatti e interviste video,
che approfondisce l'immagine nel culto cattolico e la pratica religiosa
nella quotidianità. Tra case private, esercizi commerciali, vicoli e
piazze, luoghi di culto: un volto di Roma, ha spiegato Chantal, che
l'ha immediatamente stimolata. Iniziando proprio dall'ebraismo,
religione che non contempla raffigurazioni sacre, e con l'ambizione di
proporre una diversa prospettiva sul tema. A conferma dell'importanza
del rapporto con le proprie origini la mostra infatti si apre con
un'immagine, l'unica non relativa al mondo cattolico, che raffigura il
salotto di una famiglia ebraica romana. Una famiglia tradizionale,
attaccata alla propria identità come testimoniano la menorah e altri
oggetti peculiari che vi si trovano esposti. In calce alla fotografia,
denominata Bereshit (“inizio”), una citazione dal Talmud: “Ciò che è
visibile – si legge – non è che il riflesso di ciò che è invisibile”.
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QUI NUOVA GORIZIA
Babele e la salvezza nel teatro
La
stagione dello Slovensko Narodno Gledališče di Nova Gorica (il Teatro
stabile di Nuova Gorizia, Slovenia) si apre con prima assoluta di “Nora
Gregor – Il continente nascosto della memoria”. Un’operazione culturale
importantissima, nata dalle lunghe ricerche del Kinoatelje di Gorizia e
che propone, attraverso la vicenda storica reale, un percorso che
favorisca il superamento dei conflitti latenti ancora oggi, a distanza
di cent’anni. “Nessuno torna pulito dalla guerra” è una battuta
essenziale di questo spettacolo in cui le vite di persone realmente
esistite che appaiono nella narrazione scenica, si alternano a quelle
dei personaggi di pura invenzione presenti nel film appositamente
girato a Trieste. Entrambe le vicende si basano su fatti storici reali
e ruotano intorno alla figura della protagonista, Nora Gregor, attrice
di cinema e teatro nata nella Gorizia austroungarica, da padre
originario di Zohsee in Boemia (oggi Sázava in Cechia) e madre
carinziana che, in fuga dalla città con la famiglia probabilmente già
nel 1915, dopo aver calcato le scene dei teatri di Klagenfurt, Graz,
Vienna, Berlino e Salisburgo con il grande Max Reinhardt, debutta sul
grande schermo recitando anche con registi del calibro di Carlo Theodor
Dreyer e Jean Renoir, l’allora sceneggiatore Billy Wilder, per
approdare a Hollywood. Amica di Alma Mahler e Hedy Lamarr, lavora con
Robert Montgomery e Douglas Fairbanks jr., alternando cinema e teatro.
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Ticketless
- Serpentine
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La
figura geometrica dominante in questo libro (Paolo Veziano, “Ombre al
confine”, Fusta editore) è la “serpentina”, o meglio bisognerebbe dire
le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga
dall’Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone
prossimo alla frontiera. I luoghi che fanno da sfondo al libro tornano
nella nostra attualità quotidiana. La pressione migratoria al confine
tra Italia e Francia percorre oggi quelle stesse serpentine. Foscolo le
chiamava le fauci del Mediterraneo, là dove la Roja incomincia ad avere
più spazio per la sua discesa verso il mare. Tra i documenti nuovi che
questo libro ci restituisce spicca un disegno a matita di piccole
dimensioni.
Alberto Cavaglion
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Periscopio
- Responsabilità |
Nel leggere i numerosi commenti dedicati, in questi giorni, all’analisi
del fenomeno ISIS – la sua rapida e imprevedibile crescita, i suoi
metodi brutali e sanguinari, il sinistro fascino esercitato anche su
tanti giovani occidentali -, ho notato la grande frequenza con la
quale, nel cercare un responsabile dell’inquietante minaccia, molti
commentatori, di varia estrazione e orientamento, hanno fatto
insistente riferimento alle “colpe dell’Occidente”.
Francesco Lucrezi, storico
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