Paolo Sciunnach,
insegnante
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Spesso,
al giorno d'oggi, sussiste la tendenza a leggere storicamente la
tradizione ebraica, per esempio: molti di noi sarebbero interessati a
studiare lo sviluppo storico del siddur piuttosto che usarlo come porta
verso il cielo. Si è portati spesso a pensare che le Mitzvot siano
“usanze, costumi, cerimonie” e che abbiano un mero significato storico,
simbolico, un significato sociale. Questo genere di approccio può al
massimo servire da punto di partenza per "avvicinare i lontani" (sempre
che si sia tutti d'accordo sul significato che diamo all'espressione
"avvicinare i lontani": "kiruv rechokim"). Tuttavia, non bisognerebbe
fermarsi all'aspetto storico-culturale della tradizione ebraica. Può
essere controproducente. Può far cadere nel vuoto il presupposto
spirituale che è alla base di qualsiasi tradizione religiosa. E
l'ebraismo è (anche?) religione. E c'è qualcosa di più: le Mitzvot
hanno un significato spirituale.
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Anna
Foa,
storica
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Un
bell’articolo di Bernard-Henri Lévy sul Corriere di ieri ripropone il
tema dell’”Islam moderato”. Lévy esalta il coraggio dei musulmani che
in questi giorni, a Londra, in Germania, in Francia e anche, con
condanne aperte degli imam, in molti paesi arabi, manifestano contro i
crimini dell’islamismo. E polemizza non contro chi fa di tutt’erba un
fascio, e crede impossibile che esista un Islam “moderato”, come si
potrebbe pensare guardando ai toni della stampa italiana, ma invece
contro quanti, in nome dell’ideologia di sinistra, credono che questi
musulmani si facciano manipolare dall’Occidente e condannino i crimini
dell’Isis solo per conformismo. Quasi non ci volesse invece un grande
coraggio a farlo pubblicamente, di fronte a nemici che maneggiano con
disinvoltura non le parole ma le spade. La guerra attuale contro l’Isis
è anche una guerra interna al mondo islamico, ci ricorda. “Siamo tutti
nella stessa barca. Ma loro sono in prima linea: bisogna che vincano”.
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L'avanzata dell'Isis
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L’avanzata
dell’Isis continua inesorabile: ieri Arin Merka, una giovane donna
curda, si è fatta esplodere nei pressi di un fortino nemico a Kobane.
Nella cronaca di Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, vengono
riportate le parole dei compagni di battaglia di Arin: “Merkan non
aveva la cintura esplosiva dei fanatici islamici. Lei è una donna
soldato. Ha usato le bombe a mano che aveva nel tascapane. Sappiamo che
alcuni jihadisti sono morti con lei, non è chiaro però quanti”. Viene
delineato poi il ruolo delle donne nella lotta anti-Isis: “In tutto i
miliziani curdi in Siria sono circa 40.000 (con loro ci sono anche
volontari yazidi e cristiani), circa un terzo donne: combattenti a
tutti gli effetti. Negli ultimi giorni il ruolo di queste ultime è
diventato sempre più visibile. Sembra che la loro presenza sia di
grande fastidio per i jihadisti. Due settimane fa si sarebbero sentiti
umiliati dal fatto che proprio un drappello di donne curde aveva avuto
la meglio in uno scontro a fuoco centro le loro pattuglie avanzate”.
Proprio questo sarebbe il motivo che si cela dietro la scelta di
decapitare tre prigioniere la scorsa settimana: “Le combattenti curde
sanno ormai che, se catturate, non avranno scampo”.
Critiche le parole del politologo Edward Luttwak, intervistato oggi dal
Messaggero, nei confronti del ruolo USA nel conflitto: “I raid arei
sono efficaci contro una forza militare compatta e visibile, ma questo
non è il caso dell’ Isis, che più che un esercito è un movimento. Fa
muovere i propri militanti nascosti tra le carovane dei rifugiati, e
che evita di incolonnare i suoi carri armati nel deserto. Le bandiere
nere dello Stato Islamico sono invisibili sul territorio, e spuntano
invece a Baghdad e a Mosul dove non possono essere raggiunte dalle
bombe, che farebbero strage tra i civili”. Cosa fare dunque? la
risposta di Luttwak è dura: “La cosa migliore sarebbe andarcene e
occuparci dei fatti nostri, e permettere che l’Isis si sviluppi contro
l’Iran che è nostro nemico, e trovare un equilibrio naturale nella
regione senza la presenza di forze americane. Oppure lasciare le cose
come stanno. In fondo quello americano è un intervento di facciata e
non altererà lo sviluppo naturale della situazione”. Prosegue inoltre
il dibattito sulla pubblicazione dei video che mostrano le cruente
decapitazioni dei fanatici dell’Isis, da parte dei media: sul Giornale
si legge che l’Indipendent on Sunday ha deciso di pubblicare uno sfondo
nero invece delle immagini della vittima Alan Hemming, titolando: “Qui
ci sono notizie, non la propaganda”. Si esprime anche il direttore del
tg5 Clemente Mimun: “Non sarà trasmesso più un solo fotogramma diffuso
dallo Stato islamico”. A Repubblica John Micklethwait, direttore
dell’Economist dichiara: “Dubito che dovremmo approvare una legge che
proibisce la pubblicazione di proclami di organizzazioni come l’Is.
Sarebbe l’equivalente di una censura. Spetta piuttosto a ogni singolo
giornale decidere cosa pubblicare e cosa no, cercando di distinguere
fra ciò che costituisce una notizia di cui è necessario informare il
pubblico e quello che invece è solo propaganda”.
Intanto nuove decapitazioni ispirate al metodo dell’Isis si replicano
sul Sinai. Il Tempo riporta l’esistenza di un video, rimosso dalla
rete, che mostra tre uomini uccisi con l’accusa di essere informatori
del Mossad: “Continua la messe di spie degli ebrei” annuncia un
portavoce del gruppo del gruppo islamista Ansar Beit al-Maqdis. Una
scena drammatica, simile a quella dello scorso 28 agosto nella quale
venivano decapitate quattro presunte spie.
“Perché Israele teme gli effetti del riconoscimento dello Stato
palestinese?”, con questa domanda si apre il focus di Maurizio
Molinari, firma de La Stampa, dopo la dichiarazione dell’intenzione del
premier svedese Steven Lovfen di riconoscere la Palestina. Molinari
spiega: “L’adesione della Svezia conta di più delle precedenti,
trattandosi di un Paese dell’Ue ovvero il maggior partner commerciale
dello Stato ebraico”. Le parole di Benjamin Netanyahu sulla questione
sono inequivocabili: “I passi unilaterali sono contrari agli accordi
esistenti, non avvicinano la pace ma la allontanano”.
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FORMULA 1
Il rosso Ferrari a Gerusalemme
Sotto le antiche mura. Bolidi a trecento chilometri orari. Il profilo
inconfondibile del cavallino di Maranello. Un incredibile mix tra
storia e modernità che poche città al mondo sono in grado di regalare.
La grande famiglia della Formula Uno – scossa in queste ore dal
terribile incidente occorso al pilota francese Jules Bianchi – trasloca
per due giorni a Gerusalemme per animare la seconda edizione del
“Jerusalem Formula Peace Road Show”.
Seguito nel 2013 da oltre 250mila spettatori, l’evento prevede
dimostrazioni da parte di piloti professionisti, corse acrobatiche e
una gara con superbike e leggende viventi della Formula 1. Una vetrina
internazionale che si apre oggi e che avrà come colore dominante il
rosso Ferrari.
La scuderia italiana, rappresentata lo scorso anno da Giancarlo
Fisichella, sarà infatti protagonista e sfreccerà in un percorso che
vede, nel suo itinerario, luoghi peculiari e ricchi di fascino come la
Piscina del Sultano, la Torre di Davide, il Mamila Mall, il King David
Hotel, il parco Liberty Bell e la vecchia stazione dei treni. Con la
Ferrari anche Audi e Mercedes.
Tra i principali sponsor dell’iniziativa, che ha anche una finalità di
sensibilizzazione contro ogni forma di odio e intolleranza tra culture
diverse, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat. “Le immagini delle
vetture di Formula 1 in competizione sulle nostre strade – afferma –
sono un formidabile veicolo per comunicare al mondo che la città in cui
viviamo è aperta, accogliente e pronta a mettersi in gioco per regalare
momenti di sport e intrattenimento ai suoi residenti così come ai
turisti”. Parole che ben si sposano con il concetto espresso nel 2013:
“Abbiamo 5mila anni di storia alle spalle ma non vogliamo restare
fermi”.
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PAGINE EBRAICHE INTERNATIONAL EDITION
Milano capitale del welfare
Dopo le giornate da protagonista nella cultura ebraica, con il festival
Jewish and the City che si è svolto a metà settembre, Milano si prepara
a diventare capitale del welfare: in programma dal 21 al 23 novembre la
quinta Meeting of Presidents of Jewish Organizations organizzata da
European Council of Jewish Communities (ECJC) e American Joint
Distribution Committee (JDC) in collaborazione con l’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità del capoluogo lombardo.
Educazione, assistenza, lotta all’antisemitismo, leadership e
sostenibilità finanziare fra i temi al centro della conferenza,
anticipata al pubblico internazionale.
Inaugurata proprio in occasione di Jewish and the City, prosegue con
grande successo a Milano anche la mostra su Marc Chagall, e sul mondo
colorato ritratto nei suoi quadri che lo hanno reso uno degli artisti
più apprezzati del ‘900.
Per i giovani italiani interessati a proseguire i propri studi nelle
università israeliane arriva una buona notizia: anche quest’anno verrà
offerta loro l’opportunità di sostenere lo psicometrico, il test di
ammissione agli atenei dello Stato ebraico in lingua italiana. Su
Pagine Ebraiche international edition la riflessione di alcuni giovani.
Appena lasciato alle spalle lo Yom Kippur, il direttore della redazione
Guido Vitale ricorda che il tradizionale intervento rabbinico che
chiude la giornata è divenuto, in Italia come altrove nel mondo
ebraico, un'occasione straordinaria per ascoltare e valutare
l'efficacia, la consistenza e la coerenza dei discorsi che abbiamo
appen ascoltato.
Parla di Kippur anche la rubrica dedicata alla parola italiana della
settimana (sorpresa in questo caso), mentre a riflettere sulla
preghiera di apertura dello Shabbat Shabbaton è il professore di
letteratura dell’Università di Bar Ilan Yaacov Mascetti.
Nella nuova edizione internazionale di Pagine Ebraiche si raccontano
anche gli sviluppi delle vicende relative al Museo della Shoah di Roma,
e l'opzione di allestire una sede provvisoria dell’istituzione nella
Casina di Vallati, un edificio di proprietà municipale a pochi passi da
Portico d’Ottavia, cuore dell’antico ghetto. In occasione del prossimo
27 gennaio, Giorno della Memoria, nelle intenzioni dichiarate dal
sindaco di Roma Marino sarà poi posata la prima pietra della sede
definitiva, Villa Torlonia, dove Benito Mussolini visse dal 1925 al 25
luglio 1943.
È dedicata al libro “La Mennulara” (la raccoglitrice di mandorle) di
Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli) la rubrica Bechol Lashon firmata
questa settimana dalla docente dell’Università di Torino Sarah Kaminski.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
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QUI ROMa - i family movies dell'italia ebraica
Dagli archivi di famiglia
una testimonianza straordinaria Silenzio
in sala: la famiglia Della Seta – Di Segni va in scena, muovendosi con
disinvoltura sullo schermo. L’anno 1923 torna in vita, vibra, sorride,
corre graziosamente. Tantissimi spettatori sono accorsi ieri al
Istituto centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio
Archivistico e Libraio per assistere alla prima proiezione dei family
movies portati alla luce da Claudio Della Seta, restaurati e
digitalizzati grazie a Maria Cristina Misiti dell’ICRCPAL, Mario
Musumeci responsabile Ufficio Restauri Cineteca Nazionale e il loro
team. Un evento realizzato all’interno dell”iniziativa La valigia dei
sogni, un open lab dedicato al restauro. Minuti gioiosi strappati
all’inesorabile incedere del tempo nei quali le due famiglie ebraiche
celebrano un matrimonio, scherzano insieme, giocano, leggono il
giornale in spiaggia, sciano tra strati e strati di cappotti. “Ci siamo
trovati di fronte immagini fragili -spiega Maria Cristina Misiti- e
tutto questo è stato possibile grazie all’entusiasmo che gli
specialisti hanno messo in questo lavoro: dal mastro cartaio a Barbara
Zonetti, che si è letteralmente presa cura delle bobine”. Lascia poi la
parola al giornalista Fabio Isman che modera gli interventi: “Ci
troviamo di fronte a scene di vita quotidiana, girati grazie alla
passione per le novità del cugino Salvatore, che si improvvisò regista
della vita famigliare. Bisogna sottolineare l’importanza di quello che
scorre sotto i nostri occhi; probabilmente questi sono primi family
movies italiani e le prime immagini di ebrei italiani precedenti alla
Shoah che ci sono giunte”.
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QUI FERRARA - FESTIVAL INTERNAZIONALE
Un successo, qualche ombra
Le
presenze sono salite ben al di sopra della barra dei settantamila.
Internazionale a Ferrara, che ha chiuso ieri la sua ottava edizione, ha
registrato un aumento di pubblico del dodici percento rispetto allo
scorso anno: 71mila sono le persone registrate, e il pubblico è
composto prevalentemente da giovani che vogliono ascoltare, capire,
confrontarsi. Un successo simile era difficilmente prevedibile
nonostante il trend sia ormai evidente: i festival culturali sembrano
al riparo dalla crisi. Dal Festivaletteratura di Mantova a
Pordenonelegge, passando per la folla che ha invaso Torino per la prima
Notte bianca della spiritualità organizzata per la decima edizione
dell’omonimo festival, tutti i principali appuntamenti autunnali con la
cultura hanno chiuso con numeri decisamente rassicuranti.
Quando la programmazione è studiata con cura, quando i contenuti ci
sono, quando la passione per la conoscenza e per la sua condivisione è
il motore primo di tutto, allora esiste sempre un pubblico numeroso e
partecipe che risponde alla chiamata ed è disposto a viaggiare, a
spostarsi, a vedere, visitare, comprare biglietti, attendere
pazientemente in coda e, nonostante la crisi dell’editoria, a comprare
libri.
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Oltremare - La Guerra del Kippur
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Fra
i programmi tivù stagionali in Israele, ci sono i film documentario o
docu-fiction sulle nostre innumerevoli guerre. Più di tutte le altre
messe insieme, sulla guerra del Kippur. Prima di ogni Yom Hazikaron (il
Memorial Day che gela il paese a poche ore dai festeggiamenti
dell’Indipendenza), e di ogni Yom Kippur, la televisione passa un menù
di storie di guerra da far impallidire anche i più intrepidi Minoli. E
siccome io, da nuova immigrata, ci ho messo i miei anni per poter
capire i telegiornali e i programmi in ebraico, adesso quando ne ho il
tempo me li sciroppo senza filtro e senza pietà. Non sono programmi da
guardare con la ciotola di pop-corn e una birra ben fredda. Anche per
chi l’ebraico non se lo guadagna parola per parola ogni giorno come me,
sono pugni nello stomaco, che richiedono concentrazione e kleenex. Ma
nei giorni intorno a Yom Kippur tutti i mezzi di comunicazione fanno
spazio per la guerra del 1973: non è solo la tivù. Chi non vive in
Israele e non è immerso nella società che produce annualmente questo
ritorno alla guerra che avrebbe davvero potuto spazzare via Israele a
25 anni dalla fondazione, potrebbe giudicare anche con durezza questo
accostamento di sacro e profano, purificazione delle anime e memoria,
per quando presente, di una tragedia nazionale. A volte il passaggio
fra i due Yom Kippur è così improvviso, che si fatica a ricollocare
intervistato ed intervistatore, rabbino e reduce, tempio e tank. A
vedere giornali, programmi radio e docu-fiction in televisione, a
quarantun anni da quell’ottobre una parte consistente di Israele non è
ancora uscita dal Yom Kippur 1973. Per fortuna invece uscire illesi dal
Yom Kippur religioso, dopo il digiuno e il giudizio divino, è tutto
sommato questione di ore: dopo 25 ore tutti a casa, a mangiare e a
ritornare alla vita di tutti i giorni, un po’ più santi, un po’ più
leggeri.
Daniela Fubini, Tel Aviv twitter @d_fubini
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Questa è la nostra musica |
Torno
da Nahariya. Ho accompagnato uno dei miei figli che va trascorrere
Kippur dalla sua ragazza. Lo lascio al treno e me ne torno a casa. È
tutto pronto. La casa brilla, pronta per accogliere una giornata
speciale di riflessione e pensiero, sorrido mentre l’auto arranca su
per le colline della Galilea. Accendo la radio su Galgalaz, una
stazione che trasmette in continuo buona musica. La presentatrice
annuncia: “State ascoltando Questa è la nostra musica”, un’altra ora ,
la decima da stamattina, del programma dedicato alle 72 vittime della
Guerra Zuk Eitan, Operazione Margine protettivo: “Le famiglie
raccontano dei loro cari e scelgono una canzone che amavano ascoltare”.
Guido in silenzio, il fratello di Gal Basson di 19 anni racconta che
era campione di atletica, non si dava mai per vinto, con sforzi
sovrumani era riuscito a superare gli allenamenti per essere accettato
nella sua squadra in Zahal: è rimasto ucciso in un attacco mentre era
di guardia al Kibbuz Nahal Oz. Elisheva racconta di Zvika, 29 anni, che
lascia moglie e due figli ed era un ufficiale. Tutti lo ricordano come
una persona di una bontà e una disponibilità senza pari. È caduto a
Sajaiya. Adar di 20 anni e Oren di 22. Parlano i padri, le madri. Guido
e quasi non vedo più la strada. La vista appannata.
Angelica Edna Calò Livne
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