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6 ottobre 2014 - 12 Tishiri 5775
PAGINE EBRAICHE 24
ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Paolo Sciunnach,
insegnante
Spesso, al giorno d'oggi, sussiste la tendenza a leggere storicamente la tradizione ebraica, per esempio: molti di noi sarebbero interessati a studiare lo sviluppo storico del siddur piuttosto che usarlo come porta verso il cielo. Si è portati spesso a pensare che le Mitzvot siano “usanze, costumi, cerimonie” e che abbiano un mero significato storico, simbolico, un significato sociale. Questo genere di approccio può al massimo servire da punto di partenza per "avvicinare i lontani" (sempre che si sia tutti d'accordo sul significato che diamo all'espressione "avvicinare i lontani": "kiruv rechokim"). Tuttavia, non bisognerebbe fermarsi all'aspetto storico-culturale della tradizione ebraica. Può essere controproducente. Può far cadere nel vuoto il presupposto spirituale che è alla base di qualsiasi tradizione religiosa. E l'ebraismo è (anche?) religione. E c'è qualcosa di più: le Mitzvot hanno un significato spirituale.
 
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Anna
Foa,
storica
Un bell’articolo di Bernard-Henri Lévy sul Corriere di ieri ripropone il tema dell’”Islam moderato”. Lévy esalta il coraggio dei musulmani che in questi giorni, a Londra, in Germania, in Francia e anche, con condanne aperte degli imam, in molti paesi arabi, manifestano contro i crimini dell’islamismo. E polemizza non contro chi fa di tutt’erba un fascio, e crede impossibile che esista un Islam “moderato”, come si potrebbe pensare guardando ai toni della stampa italiana, ma invece contro quanti, in nome dell’ideologia di sinistra, credono che questi musulmani si facciano manipolare dall’Occidente e condannino i crimini dell’Isis solo per conformismo. Quasi non ci volesse invece un grande coraggio a farlo pubblicamente, di fronte a nemici che maneggiano con disinvoltura non le parole ma le spade. La guerra attuale contro l’Isis è anche una guerra interna al mondo islamico, ci ricorda. “Siamo tutti nella stessa barca. Ma loro sono in prima linea: bisogna che vincano”.
 
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L'avanzata dell'Isis
L’avanzata dell’Isis continua inesorabile: ieri Arin Merka, una giovane donna curda, si è fatta esplodere nei pressi di un fortino nemico a Kobane. Nella cronaca di Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, vengono riportate le parole dei compagni di battaglia di Arin: “Merkan non aveva la cintura esplosiva dei fanatici islamici. Lei è una donna soldato. Ha usato le bombe a mano che aveva nel tascapane. Sappiamo che alcuni jihadisti sono morti con lei, non è chiaro però quanti”. Viene delineato poi il ruolo delle donne nella lotta anti-Isis: “In tutto i miliziani curdi in Siria sono circa 40.000 (con loro ci sono anche volontari yazidi e cristiani), circa un terzo donne: combattenti a tutti gli effetti. Negli ultimi giorni il ruolo di queste ultime è diventato sempre più visibile. Sembra che la loro presenza sia di grande fastidio per i jihadisti. Due settimane fa si sarebbero sentiti umiliati dal fatto che proprio un drappello di donne curde aveva avuto la meglio in uno scontro a fuoco centro le loro pattuglie avanzate”. Proprio questo sarebbe il motivo che si cela dietro la scelta di decapitare tre prigioniere la scorsa settimana: “Le combattenti curde sanno ormai che, se catturate, non avranno scampo”.
Critiche le parole del politologo Edward Luttwak, intervistato oggi dal Messaggero, nei confronti del ruolo USA nel conflitto: “I raid arei sono efficaci contro una forza militare compatta e visibile, ma questo non è il caso dell’ Isis, che più che un esercito è un movimento. Fa muovere i propri militanti nascosti tra le carovane dei rifugiati, e che evita di incolonnare i suoi carri armati nel deserto. Le bandiere nere dello Stato Islamico sono invisibili sul territorio, e spuntano invece a Baghdad e a Mosul dove non possono essere raggiunte dalle bombe, che farebbero strage tra i civili”. Cosa fare dunque? la risposta di Luttwak è dura: “La cosa migliore sarebbe andarcene e occuparci dei fatti nostri, e permettere che l’Isis si sviluppi contro l’Iran che è nostro nemico, e trovare un equilibrio naturale nella regione senza la presenza di forze americane. Oppure lasciare le cose come stanno. In fondo quello americano è un intervento di facciata e non altererà lo sviluppo naturale della situazione”. Prosegue inoltre il dibattito sulla pubblicazione dei video che mostrano le cruente decapitazioni dei fanatici dell’Isis, da parte dei media: sul Giornale si legge che l’Indipendent on Sunday ha deciso di pubblicare uno sfondo nero invece delle immagini della vittima Alan Hemming, titolando: “Qui ci sono notizie, non la propaganda”. Si esprime anche il direttore del tg5 Clemente Mimun: “Non sarà trasmesso più un solo fotogramma diffuso dallo Stato islamico”. A Repubblica John Micklethwait, direttore dell’Economist dichiara: “Dubito che dovremmo approvare una legge che proibisce la pubblicazione di proclami di organizzazioni come l’Is. Sarebbe l’equivalente di una censura. Spetta piuttosto a ogni singolo giornale decidere cosa pubblicare e cosa no, cercando di distinguere fra ciò che costituisce una notizia di cui è necessario informare il pubblico e quello che invece è solo propaganda”.

Intanto nuove decapitazioni ispirate al metodo dell’Isis si replicano sul Sinai. Il Tempo riporta l’esistenza di un video, rimosso dalla rete, che mostra tre uomini uccisi con l’accusa di essere informatori del Mossad: “Continua la messe di spie degli ebrei” annuncia un portavoce del gruppo del gruppo islamista Ansar Beit al-Maqdis. Una scena drammatica, simile a quella dello scorso 28 agosto nella quale venivano decapitate quattro presunte spie.

“Perché Israele teme gli effetti del riconoscimento dello Stato palestinese?”, con questa domanda si apre il focus di Maurizio Molinari, firma de La Stampa, dopo la dichiarazione dell’intenzione del premier svedese Steven Lovfen di riconoscere la Palestina. Molinari spiega: “L’adesione della Svezia conta di più delle precedenti, trattandosi di un Paese dell’Ue ovvero il maggior partner commerciale dello Stato ebraico”. Le parole di Benjamin Netanyahu sulla questione sono inequivocabili: “I passi unilaterali sono contrari agli accordi esistenti, non avvicinano la pace ma la allontanano”.
 
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  davar
FORMULA 1
Il rosso Ferrari a Gerusalemme
Sotto le antiche mura. Bolidi a trecento chilometri orari. Il profilo inconfondibile del cavallino di Maranello. Un incredibile mix tra storia e modernità che poche città al mondo sono in grado di regalare.
La grande famiglia della Formula Uno – scossa in queste ore dal terribile incidente occorso al pilota francese Jules Bianchi – trasloca per due giorni a Gerusalemme per animare la seconda edizione del “Jerusalem Formula Peace Road Show”.
Seguito nel 2013 da oltre 250mila spettatori, l’evento prevede dimostrazioni da parte di piloti professionisti, corse acrobatiche e una gara con superbike e leggende viventi della Formula 1. Una vetrina internazionale che si apre oggi e che avrà come colore dominante il rosso Ferrari.
La scuderia italiana, rappresentata lo scorso anno da Giancarlo Fisichella, sarà infatti protagonista e sfreccerà in un percorso che vede, nel suo itinerario, luoghi peculiari e ricchi di fascino come la Piscina del Sultano, la Torre di Davide, il Mamila Mall, il King David Hotel, il parco Liberty Bell e la vecchia stazione dei treni. Con la Ferrari anche Audi e Mercedes.
Tra i principali sponsor dell’iniziativa, che ha anche una finalità di sensibilizzazione contro ogni forma di odio e intolleranza tra culture diverse, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat. “Le immagini delle vetture di Formula 1 in competizione sulle nostre strade – afferma – sono un formidabile veicolo per comunicare al mondo che la città in cui viviamo è aperta, accogliente e pronta a mettersi in gioco per regalare momenti di sport e intrattenimento ai suoi residenti così come ai turisti”. Parole che ben si sposano con il concetto espresso nel 2013: “Abbiamo 5mila anni di storia alle spalle ma non vogliamo restare fermi”.

PAGINE EBRAICHE INTERNATIONAL EDITION
Milano capitale del welfare
Dopo le giornate da protagonista nella cultura ebraica, con il festival Jewish and the City che si è svolto a metà settembre, Milano si prepara a diventare capitale del welfare: in programma dal 21 al 23 novembre la quinta Meeting of Presidents of Jewish Organizations organizzata da European Council of Jewish Communities (ECJC) e American Joint Distribution Committee (JDC) in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità del capoluogo lombardo. Educazione, assistenza, lotta all’antisemitismo, leadership e sostenibilità finanziare fra i temi al centro della conferenza, anticipata al pubblico internazionale.
Inaugurata proprio in occasione di Jewish and the City, prosegue con grande successo a Milano anche la mostra su Marc Chagall, e sul mondo colorato ritratto nei suoi quadri che lo hanno reso uno degli artisti più apprezzati del ‘900.
Per i giovani italiani interessati a proseguire i propri studi nelle università israeliane arriva una buona notizia: anche quest’anno verrà offerta loro l’opportunità di sostenere lo psicometrico, il test di ammissione agli atenei dello Stato ebraico in lingua italiana. Su Pagine Ebraiche international edition la riflessione di alcuni giovani.
Appena lasciato alle spalle lo Yom Kippur, il direttore della redazione Guido Vitale ricorda che il tradizionale intervento rabbinico che chiude la giornata è divenuto, in Italia come altrove nel mondo ebraico, un'occasione straordinaria per ascoltare e valutare l'efficacia, la consistenza e la coerenza dei discorsi che abbiamo appen ascoltato.
Parla di Kippur anche la rubrica dedicata alla parola italiana della settimana (sorpresa in questo caso), mentre a riflettere sulla preghiera di apertura dello Shabbat Shabbaton è il professore di letteratura dell’Università di Bar Ilan Yaacov Mascetti.
Nella nuova edizione internazionale di Pagine Ebraiche si raccontano anche gli sviluppi delle vicende relative al Museo della Shoah di Roma, e l'opzione di allestire una sede provvisoria dell’istituzione nella Casina di Vallati, un edificio di proprietà municipale a pochi passi da Portico d’Ottavia, cuore dell’antico ghetto. In occasione del prossimo 27 gennaio, Giorno della Memoria, nelle intenzioni dichiarate dal sindaco di Roma Marino sarà poi posata la prima pietra della sede definitiva, Villa Torlonia, dove Benito Mussolini visse dal 1925 al 25 luglio 1943.
È dedicata al libro “La Mennulara” (la raccoglitrice di mandorle) di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli) la rubrica Bechol Lashon firmata questa settimana dalla docente dell’Università di Torino Sarah Kaminski.


Rossella Tercatin  twitter @rtercatinmoked
 
QUI ROMa - i family movies dell'italia ebraica
Dagli archivi di famiglia

una testimonianza straordinaria
Silenzio in sala: la famiglia Della Seta – Di Segni va in scena, muovendosi con disinvoltura sullo schermo. L’anno 1923 torna in vita, vibra, sorride, corre graziosamente. Tantissimi spettatori sono accorsi ieri al Istituto centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Libraio per assistere alla prima proiezione dei family movies portati alla luce da Claudio Della Seta, restaurati e digitalizzati grazie a Maria Cristina Misiti dell’ICRCPAL, Mario Musumeci responsabile Ufficio Restauri Cineteca Nazionale e il loro team. Un evento realizzato all’interno dell”iniziativa La valigia dei sogni, un open lab dedicato al restauro. Minuti gioiosi strappati all’inesorabile incedere del tempo nei quali le due famiglie ebraiche celebrano un matrimonio, scherzano insieme, giocano, leggono il giornale in spiaggia, sciano tra strati e strati di cappotti. “Ci siamo trovati di fronte immagini fragili -spiega Maria Cristina Misiti- e tutto questo è stato possibile grazie all’entusiasmo che gli specialisti hanno messo in questo lavoro: dal mastro cartaio a Barbara Zonetti, che si è letteralmente presa cura delle bobine”. Lascia poi la parola al giornalista Fabio Isman che modera gli interventi: “Ci troviamo di fronte a scene di vita quotidiana, girati grazie alla passione per le novità del cugino Salvatore, che si improvvisò regista della vita famigliare. Bisogna sottolineare l’importanza di quello che scorre sotto i nostri occhi; probabilmente questi sono primi family movies italiani e le prime immagini di ebrei italiani precedenti alla Shoah che ci sono giunte”.
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QUI FERRARA - FESTIVAL INTERNAZIONALE
Un successo, qualche ombra
Le presenze sono salite ben al di sopra della barra dei settantamila. Internazionale a Ferrara, che ha chiuso ieri la sua ottava edizione, ha registrato un aumento di pubblico del dodici percento rispetto allo scorso anno: 71mila sono le persone registrate, e il pubblico è composto prevalentemente da giovani che vogliono ascoltare, capire, confrontarsi. Un successo simile era difficilmente prevedibile nonostante il trend sia ormai evidente: i festival culturali sembrano al riparo dalla crisi. Dal Festivaletteratura di Mantova a Pordenonelegge, passando per la folla che ha invaso Torino per la prima Notte bianca della spiritualità organizzata per la decima edizione dell’omonimo festival, tutti i principali appuntamenti autunnali con la cultura hanno chiuso con numeri decisamente rassicuranti.
Quando la programmazione è studiata con cura, quando i contenuti ci sono, quando la passione per la conoscenza e per la sua condivisione è il motore primo di tutto, allora esiste sempre un pubblico numeroso e partecipe che risponde alla chiamata ed è disposto a viaggiare, a spostarsi, a vedere, visitare, comprare biglietti, attendere pazientemente in coda e, nonostante la crisi dell’editoria, a comprare libri.
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pilpul
Oltremare - La Guerra del Kippur
Fra i programmi tivù stagionali in Israele, ci sono i film documentario o docu-fiction sulle nostre innumerevoli guerre. Più di tutte le altre messe insieme, sulla guerra del Kippur. Prima di ogni Yom Hazikaron (il Memorial Day che gela il paese a poche ore dai festeggiamenti dell’Indipendenza), e di ogni Yom Kippur, la televisione passa un menù di storie di guerra da far impallidire anche i più intrepidi Minoli. E siccome io, da nuova immigrata, ci ho messo i miei anni per poter capire i telegiornali e i programmi in ebraico, adesso quando ne ho il tempo me li sciroppo senza filtro e senza pietà. Non sono programmi da guardare con la ciotola di pop-corn e una birra ben fredda. Anche per chi l’ebraico non se lo guadagna parola per parola ogni giorno come me, sono pugni nello stomaco, che richiedono concentrazione e kleenex. Ma nei giorni intorno a Yom Kippur tutti i mezzi di comunicazione fanno spazio per la guerra del 1973: non è solo la tivù. Chi non vive in Israele e non è immerso nella società che produce annualmente questo ritorno alla guerra che avrebbe davvero potuto spazzare via Israele a 25 anni dalla fondazione, potrebbe giudicare anche con durezza questo accostamento di sacro e profano, purificazione delle anime e memoria, per quando presente, di una tragedia nazionale. A volte il passaggio fra i due Yom Kippur è così improvviso, che si fatica a ricollocare intervistato ed intervistatore, rabbino e reduce, tempio e tank. A vedere giornali, programmi radio e docu-fiction in televisione, a quarantun anni da quell’ottobre una parte consistente di Israele non è ancora uscita dal Yom Kippur 1973. Per fortuna invece uscire illesi dal Yom Kippur religioso, dopo il digiuno e il giudizio divino, è tutto sommato questione di ore: dopo 25 ore tutti a casa, a mangiare e a ritornare alla vita di tutti i giorni, un po’ più santi, un po’ più leggeri.

Daniela Fubini, Tel Aviv twitter @d_fubini



Questa è la nostra musica 
Torno da Nahariya. Ho accompagnato uno dei miei figli che va trascorrere Kippur dalla sua ragazza. Lo lascio al treno e me ne torno a casa. È tutto pronto. La casa brilla, pronta per accogliere una giornata speciale di riflessione e pensiero, sorrido mentre l’auto arranca su per le colline della Galilea. Accendo la radio su Galgalaz, una stazione che trasmette in continuo buona musica. La presentatrice annuncia: “State ascoltando Questa è la nostra musica”, un’altra ora , la decima da stamattina, del programma dedicato alle 72 vittime della Guerra Zuk Eitan, Operazione Margine protettivo: “Le famiglie raccontano dei loro cari e scelgono una canzone che amavano ascoltare”. Guido in silenzio, il fratello di Gal Basson di 19 anni racconta che era campione di atletica, non si dava mai per vinto, con sforzi sovrumani era riuscito a superare gli allenamenti per essere accettato nella sua squadra in Zahal: è rimasto ucciso in un attacco mentre era di guardia al Kibbuz Nahal Oz. Elisheva racconta di Zvika, 29 anni, che lascia moglie e due figli ed era un ufficiale. Tutti lo ricordano come una persona di una bontà e una disponibilità senza pari. È caduto a Sajaiya. Adar di 20 anni e Oren di 22. Parlano i padri, le madri. Guido e quasi non vedo più la strada. La vista appannata.

Angelica Edna Calò Livne
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