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26 maggio 2015 - 8 Sivan 5775
PAGINE EBRAICHE 24
ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav
Roberto
Della Rocca,
rabbino
Il giorno successivo alle tre feste di pellegrinaggio, Pesakh, Shavuot, Sukkot, è chiamato 'Isrù Chag', letteralmente 'legate la festa', dal verso 27 del Salmo 118 che ci invita a “legare la vittima del sacrificio festivo agli angoli dell’altare  con delle funi...”.  Ciò induce i Maestri del Talmud (Sukkah, 45 b) ad affermare che: "chiunque protrae la festa per un altro giorno, mangiando e bevendo, è considerato come se costruisse un altare sul quale offre un sacrificio...”.  Con un mirabile paradosso, senza un Santuario operante, oggi il 'sacrificio festivo' consiste nel mangiare e bere con parenti ed amici. In un mondo frenetico e consumistico come il nostro, i giorni festivi, soprattutto quando sono contigui allo Shabbat, costituiscono per alcuni un distacco troppo lungo dalla realtà quotidiana. Isrù Chag ci invita, viceversa, a legarci alla festa anche nella sua uscita. Il distacco dalla kedushah della festa deve essere graduale perché l’intensità del fervore e della trepidazione che proviamo nel suo avvicinarsi è proporzionale alla separazione dalla sua conclusione.
 
Dario
Calimani,
anglista
Ogni tornata di elezioni potrebbe proporsi come oggetto di studio per socio-psicanalisti. È interessante osservare se i candidati parlino di sé, degli altri, o dei loro programmi. E, soprattutto, se parlino del passato o del futuro. Del presente e dei suoi guai, chissà perché, nessuno ama mai parlare. E il futuro, poi, è quello su cui si può speculare di più. Il passato è meglio dimenticarlo: è un deserto, ed è sempre colpa degli altri.
 
Nuove tensioni 
a Gerusalemme
Clima teso nella Capitale israeliana. Nei pressi del Monte del Tempio ieri vi sono stati alcuni scontri tra manifestanti palestinesi e israeliani, conclusi con l’arresto di 12 persone da parte della polizia israeliana. “Sei palestinesi sono stati fermati mentre cercavano di impedire agli ebrei di accedere al Monte del Tempio”, ha riferito la portavoce della polizia Luba Samri. Inoltre, domenica due diciassettenni israeliani sono stati feriti da un palestinese mentre stavano andando al Muro del Pianto in occasione della festa di Shavuot (Avvenire).

 
Polonia, la destra nazionalista alla presidenza. Sarà il leader della destra nazionalista Andrzej Duda il nuovo presidente polacco (Il Messaggero). Questo il verdetto delle recenti elezioni in Polonia ma occorrerà aspettare le elezioni politiche di ottobre per capire se sarà davvero chiusa la lunga epoca del governo liberale del partito Piattaforma Civica. Il programma dell'euroscettico Duda contiene preoccupa l'Europa, con i suoi richiami alla difesa degli interessi della nazione in linea con i programmi del premier ungherese Viktor Orbán.
 
Migranti, i limiti delle nuove misure. Alla vigilia della riunione prevista per domani, la Commissione europea mette a punto il nuovo piano di accoglienza per i migranti. Dopo l’opposizione di Francia e Spagna, presidente Jean-Claude Junker ha rivisto all’ultimo alcuni punti che sembravano decisi, proponendo di lasciare fissata la quota di 24 mila per i migranti da distribuire in Europa al loro arrivo in Italia, ma il trasferimento andrà spalmato su due anni, riguarderà solo gli arrivi successivi all’approvazione definitiva delle nuove misure, e sarà applicabile solo a immigrati di nazionalità eritrea e sirana. La proposta dovrà essere esaminata da tutti i componenti dell’Unione Europea, e le trattative sono ancora in corso (Corriere della sera).
 
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  davar
rav di segni - pagine ebraiche
"Preghiamo per l'Italia,

ma evitiamo forzature"
Pregare orgogliosamente per il bene della propria patria? Un dovere di ogni ebreo. Così il Gran Rabbino di Francia Haim Korsia, ospite d’onore del recente Moked di Milano Marittima, ricordando come fu sua la scelta di far inserire nella preghiera che gli ebrei d’Oltralpe recitano per il bene della Repubblica una parte dedicata ai militari attivi in operazioni militari e che la stessa fosse recitata in francese e non soltanto durante eventi istituzionali in modo da farla accettare senza difficoltà. Rav Korsia aveva poi affermato: “Sarebbe auspicabile che gli ebrei italiani facessero lo stesso per il loro Stato”.

Sul numero di giugno del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni interviene con una sua riflessione a riguardo.

Un’interessante provocazione lanciata dal rabbino capo di Francia Haim Korsia al Moked primaverile, su una questione religiosa con implicazioni politiche ed identitarie – la preghiera per la pace dello Stato – sta provocando insieme a qualche risposta ragionata delle polemiche inutili e strumentali. Per ricondurre la discussione nei giusti binari è opportuno riproporre i dati essenziali di questa storia.
Nella tradizione ebraica antica vengono identificate due fonti principali. La prima è una frase del profeta Geremia, in un suo messaggio indirizzato agli ebrei esuli in Babilonia che gli chiedevano come comportarsi in una terra lontana dalla patria originaria; a loro Geremia rispose dicendo tra l’altro: “E cercate la pace della città dove vi ho esiliato e pregate per lei al Signore, perché nella sua pace voi avrete pace” (cap. 29 v. 7); in altri termini, perché voi possiate essere tranquilli e prosperare, la città che vi ospita deve essere in pace, non avete nulla da guadagnare dall’instabilità, anche se vi trovate nella terra di chi ha sconfitto la Giudea e vi ha portato in esilio e quindi adoperatevi per la sua pace. La seconda sollecitazione in questo senso viene da una fase famosa pronunciata da rabbì Chaninà segan haKohanim, Maestro dell’epoca della distruzione del Tempio: “Prega per la pace del regno, perché se non fosse per il timore [che incute] ognuno divorerebbe il suo prossimo vivo” (Avòt 3:2). Anticipando di molti secoli il senso politico del famoso homo homini lupus, invocava e giustificava la forza del potere come elemento necessario per la sicurezza sociale. Parlava così riferendosi al regno, che poteva essere un regno qualsiasi, ma aveva davanti a lui quello romano, che aveva appena distrutto il Tempio e soggiogato la Giudea. Altre fonti bibliche parlano di benedizioni o preghiere per i re; per il re ebreo (Salomone) il verso di 1 Re 8:66 che parla dell’inaugurazione del Tempio, alla fine della quale il popolo si congeda benedicendo il re; per il re non ebreo la richiesta – paradossale – del Faraone a Mosè di pregare per lui (Es. 8:24). Le due principali indicazioni classiche hanno determinato o almeno costituito il riferimento di appoggio per una tradizione che si è sviluppata in molte diaspore. Le prime e principali informazioni su una preghiera per il re le abbiamo per l’area askenazita dal Kolbo (Qeriat haTorà 19) del XIV secolo e, per l’area sefardita, dal contemporaneo David Abudiram (denominazione più corretta del popolare Abudraham), dove si parla di un uso seguito da qualche (ma non tutte) comunità. Una fonte più antica per il mondo tedesco sarebbe un registro della comunità di Worms, su un testo composto all’epoca delle prime crociate: “Colui che ha benedetto i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe benedica il nostro signore … e gli mandi benedizione e successo perché sieda nel suo trono con giustizia nella terra per vita e pace, e abbia pace lui e la sua discendenza, e diremo Amèn”. Per l’Italia (in senso geografico, ma non è detto che la cosa riguardi il minhag italiano) la fonte più antica sembra essere Azarià de Rossi (Mantova c.1513-1578, in Meor ‘Enaym, Imre Binà 55) che cita anche fonti apocrife, i libri dei Maccabei e Giuseppe Flavio per dimostrare la presenza dell’uso già presso gli ebrei sotto le dominazioni greche e romane e riferisce che vi sono “alcuni posti” che fanno questa benedizione (per questa e altre informazioni v. Shut Beth Mordekhai [Vogelman] 1:18).
Che quindi ci sia stata una benedizione recitata almeno dal medioevo non c’è dubbio, ma le formule antiche si ignorano (a parte quella del registro di Worms). Per veder comparire la formula più diffusa, che sarebbe stata composta intorno alla metà del XV secolo, bisogna aspettare. Chi sfoglia vecchi testi di preghiera potrà trovarvi il testo base con l’aggiunta al centro del nome del sovrano (Re, Duca ecc.) regnante. Ma non la troverà stampata nei machazorim classici di rito italiano. In Italia comunque molte comunità l’hanno recitata, ognuna per il suo sovrano, e praticamente tutte dalla nascita del regno d’Italia. La preghiera prende il nome dalle parole iniziali Hanoten teshu’à la melakhim, “Colui che dà salvezza ai Re” ed è un ricamo di citazioni bibliche, a cominciare dall’inizio, ripreso dal v. 10 del Salmo 144, seguito dal v. 16 di Isaia 43. Dopo i versi iniziali che invocano il Signore, gli si chiede di benedire, proteggere, custodire, aiutare, e rendere sempre più grande il sovrano, il consorte, la famiglia reale e c’è chi aggiunge governo, ministri ecc.; si prosegue con l’invocazione di protezione da ogni disgrazia e di sconfitta dai nemici; quindi si invoca la misericordia divina perché induca nel sovrano e i governanti la volontà di fare del bene al popolo d’Israele; si chiude con l’invocazione: “Ai suoi giorni Yehudà sarà salvato e Israel starà in sicurezza” (Ger. 23:6), “E verrà il redentore a Sion” (Is. 59:20), “E così sia, Amèn.”
Anche un esame superficiale di questo testo rivela delle difficoltà. La sperticata preghiera per il re è seguita dalla richiesta di protezione del popolo ebraico, come per dire: noi preghiamo per te, ma tu fa la tua parte; e si chiude con la speranza di redenzione di Israele, che in altri termini significa che si prega per quel re ma si aspetta, mentre lui è in vita, un re nostro. Chi l’ha composta ha avuto cura di costruire il testo cucendo citazioni bibliche, che per loro origine sono inattaccabili dal pubblico cristiano che le legge a suo modo (il redentore ha ovviamente un significato diverso per ebrei e cristiani). Si nota anche che il seguito delle prime citazioni, che cominciano con la lode del re, contiene richieste di altro tipo; il verso 11 del Salmo 144, non citato nella preghiera, dice: “Salvami dalla mano degli stranieri, la cui bocca dice menzogne e la cui destra è bugiarda”. Ancora peggio il seguito dell’altra citazione. Molti anni fa, nel 1970, ne discutevo a Ramat Gan con un uomo dotto e pieno di fede, il dottor Genazzani, pediatra fiorentino, maskìl del Collegio Rabbinico, salito in Israele nel 1938; gli dicevo che per me era una preghiera di schiavi, e lui mi rispondeva che era stata scritta con saggezza. Ora direi che è una preghiera di schiavi scritta con saggezza. Con tutti questi limiti o pregi, dipende dai punti di vista, la preghiera è stata recitata per secoli, anche in luoghi dove il re non c’era più o non c’era mai stato (come gli Stati Uniti), interpretando “re” e “regno” come sinonimi di stato e governo. Nel Regno Unito viene recitata solennemente, in alcune sinagoghe in inglese, ma usando ancora la versione classica della Bibbia di King James: “He that giveth salvation unto Kings…”. Negli Sati Uniti non c’è una diffusione omogenea, nei nuovi libri di preghiera dell’Art Scroll non compare, ma in compenso in ogni sinagoga c’è la bandiera a stelle e strisce. Persino la benedizione per lo Stato d’Israele, con una formula del tutto diversa, nasce anche come seguito/evoluzione della benedizione diasporica, partendo dal comune presupposto che bisogna invocare la benedizione per lo Stato in cui si vive. Nell’Europa delle persecuzioni si pose, a cominciare dalla Germania, il problema del senso di questa preghiera. Francamente era imbarazzante pregare per la salute e il successo di Adolf Hitler. Persino le sinagoghe liberal, dopo qualche adattamento iniziale, la eliminarono. In Italia la crisi arrivò nel 1938, con le leggi razziali, quando qualcuno si chiese che senso avesse pregare per Vittorio Emanuele, firmatario delle leggi razziali e per il duce persecutore, e ne invocò l’abolizione. Tra questi “qualcuno” va ricordato in particolare rav Elio Toaff, che racconta nelle sue memorie che mentre officiava a Livorno disse chiaramente “Vittorio Emanuele III re di paglia”, invece che “d’Italia” e la cosa gli costò l’allontanamento dal servizio (Perfidi Giudei Fratelli Maggiori, p.16). In occasione della sua scomparsa molti hanno cercato di presentare e deformare a loro modo la sua opera, dimenticando che in questa opera ci fu anche la sua “spallata” per far smettere la preghiera. Con la liberazione, persistendo la monarchia, la preghiera fu da qualcuno ripresa (vi sono correzioni manoscritte che mettono Umberto al posto di Vittorio Emanuele) ma poi passando alla repubblica non ci fu un’automatica reintroduzione. Pesava ancora l’amarezza e il risentimento per il tradimento dello Stato. Ma c’era anche il bruciante ricordo della lacerante polemica con gli ebrei della Nostra Bandiera e della loro esasperata rivendicazione della loro italianità fascista; in questa preghiera i “bandieristi” vedevano un segno della loro integrazione. E poi nel dopoguerra gli occhi degli ebrei italiani (e dei loro rabbini, pensiamo a rav Prato) erano puntati sulla nascita dello Stato d’Israele; dal settembre del 1948 comparve la benedizione per lo Stato che fu rapidamente adottata in tutte le comunità. Effettivamente la domanda sul ripristino della preghiera in Italia (che sarebbe per la repubblica e non per il re) ha un senso e va discussa serenamente, anche se bisognerebbe lavorare su un testo differente (come quello più antico, sobrio e non equivoco della comunità di Worms). Ma non c’è bisogno per gli ebrei italiani di fare preghiere “politiche” per dimostrare quello che sono e sentono, cittadini di identità complessa e non esclusiva, in cui la parte italiana è comunque essenziale, profonda e radicale come è l’amore per questa terra; basterebbe magari evitare esagerazioni in tutti i sensi, dall’esposizione di bandiere (d’Israele) all’esterno di edifici ebraici ma non israeliani o delle foto di soldati (italiani o israeliani) sui cancelli della sinagoga (mai visti sui cancelli delle chiese), fermi restando il nostro legame con Israele e la solidarietà con i soldati italiani, tanto più in questi giorni in cui sono a guardia delle sinagoghe. Sembra ancora non guarito il complesso che
induceva le nostre precedenti generazioni a dichiararsi “italianissimi”, non bastava l’aggettivo normale, ci voleva il superlativo. Ma dentro e fuori il Beth haKnesset la preghiera, qualsiasi preghiera, si fa per un sentimento e un dovere condiviso, non per opportunità politiche. Ben venga allora, ciò chiarito, una bella e sobria preghiera per questa terra e questo stato. In questo dibattito però non sono molto utili, come modello da seguire, le sollecitazioni che vengono dalla Francia (dove è stato scelto come Grand Rabbin proprio il rabbino capo delle forze armate), tanto più in un momento come questo in cui l’identità degli ebrei francesi è sottoposta a dura prova e qualcuno sente bisogno di sottolineature che qua non sono né richieste né necessarie. Ogni paese ha la sua storia e la sua sensibilità e in questa faccenda la dimensione halakhica è inevitabilmente mescolata a quella storico-politica e i modelli (e forse le forzature) differenti non sono qui applicabili. Tantomeno devono essere accolte le sollecitazioni che provengono da alcuni nostri reform, che non hanno perso anche questa occasione per dimostrare quella che per loro è la chiusura mentale del rabbinato italiano; purtroppo alcuni loro rappresentanti (non italiani di origine) si sono dimenticati (ammesso che l’abbiano mai studiata)non solo la storia dell’ebraismo italiano del Novecento con i suoi drammi e lacerazioni, ma anche quella della riforma nell’Ottocento; uno dei primi passi della riforma fu l’eliminazione dal testo delle preghiere di tutti i riferimenti al ritorno a Sion, perché ormai si era (o si pensava di essere) solo cittadini patriottici fino in fondo; e allora non stupisce che siano proprio i loro eredi a rimpiangere l’antica preghiera per casa Savoia anche se in salsa repubblicana facendola passare per un segno di apertura mentale.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(Pagine Ebraiche giugno 2015) 
l'autorevole voce dell'economist
Israele e la sfida diplomatica
Cambiare strategie diplomatiche per non rischiare di indebolire i rapporti con gli altri paesi, in alcuni casi già molto difficili. È quanto scrive l'autorevole rivista britannica The Economist in merito alla gestione delle relazioni internazionali da parte del nuovo governo di Israele. Secondo l'Economist infatti non si preannuncia una stagione facile per il Primo ministro Benjamin Netanyahu dal punto di vista dei rapporti diplomatici. Primo ostacolo, l'iniziativa francese di riconoscere uno Stato palestinese, poi il possibile boicottaggio nell'Unione europea di prodotti realizzati negli insediamenti, e in conclusione la richiesta palestinese di sospendere il calcio israeliano dal partecipare alle manifestazioni internazionali. E mentre l'articolo analizza questi tre punti, funzionari del governo di Gerusalemme parlano – proprio sul fronte diplomatico - di una disponibilità del premier Netanyahu a riaprire i negoziati con i palestinesi.
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dafdaf 57 - estate
Dall'Expo al Pesce di guerra
Si avvicina la fine dell’anno scolastico e con il numero di giugno DafDaf inizia la serie estiva, ancora più allegra e giocosa del solito. È riconoscibile già dalla testata, disegnata come sempre da Paolo Bacilieri, in cui il nome del giornale si prepara alle agognate vacanze estive con secchiello e paletta, indossando maschera e pinne, oppure con la macchina fotografica e gli scarponcini, insieme al retino per le farfalle e all’immancabile pallone. La prima pagina, firmata da Luisa Valenti, propone per il numero 57 di DafDaf un’immagine che la stessa illustratrice ha definito “un po’ più leggera”, che è immediatamente seguita dalla prima sorpresa di questo mese: lo speciale Expo!
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qui cannes
Il trionfo di László Nemes,

una luce di Memoria
“Un capolavoro”. Questo il commento unanime con il quale viene accolto “Il figlio di Saul”, opera prima del regista ungherese László Nemes, vincitore del Grand Prix della Giuria del 68° Festival di Cannes. Ambientato nell’autunno del 1944 ad Auschwitz, il film ripercorre il dramma di Saul Ausländer, prigioniero membro del Sondekommando (il gruppo di ebrei costretti a collaborare con le SS naziste che si occupava della rimozione dei cadaveri delle camere a gas) incaricato di bruciare le vittime del lager, che ritrova il corpo di quello che crede essere il proprio figlio. Questo il nodo dal quale inizia il calvario di un padre che tenta di dare una sepoltura degna e cerca disperatamente un rabbino che possa occuparsi delle esequie. Acclamato dalla critica, il film ha conquistato anche il Vulcan Award, il premio di Cannes dedicato ai film indipendenti e il Fipresci, il riconoscimento della federazione dei critici cinematografici che in passato ha premiato registi come Jean-Luc Godard, Roman Polanski e Woody Allen. .
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qui roma
A scuola di startup
Un nuovo percorso di educazione alla digitalizzazione per accrescere le possibilità in campo educativo e formativo. A sperimentarlo 14 studenti del liceo ebraico Renzo Levi, che saranno premiati quest'oggi (Luiss Enlabs, “La Fabbrica delle Startup”, ore 17) per il lavoro svolto all'interno del progetto  DoLab Educational Tech. Impadronitisi dei principi basilari della programmazione mobile, i giovani protagonisti sono infatti riusciti a programmare un videogame e ad acquisire tecniche professionali che potrebbero avere effetti benefici per un loro futuro ingresso nel mondo del lavoro digitale.
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mondo del giornalismo in lutto
Roberto Delera (1952-2015)
Mondo del giornalismo in lutto per la scomparsa del collega Roberto Delera. Da Diario a Epoca, da Sette al Corriere della sera, da Vanity Fair all’Huffington Post: la sua è stata una vita professionalmente intensa e scandita da molte soddisfazioni. “Indelebile resta il ricordo del suo coraggio nell’affrontare la sfida più importante. Battagliero fino alla fine, non si è arreso mai. La stessa caparbietà che ha messo nella vita, lo ha accompagnato nel lavoro” scrive la redazione dell’Huffington Post, sua ultima avventura professionale. E tanti sono i compagni d’avventura a ricordarne in queste ore i meriti giornalistici, l’umanità, la lealtà, oltre alla straordinaria forza d’animo che gli ha permesso di affrontare a testa alta la malattia. La redazione del portale dell’ebraismo italiano www.moked.it e di Pagine Ebraiche si stringe a Betti Guetta e a tutti i suoi cari.
pilpul
Palmira
Lo scrittore americano Jonathan Safran Foer ha scritto anni fa un bel libro sul consumo di animali da parte degli umani. Si intitola ‘Eating animals’ e in italiano è stato tradotto ‘Se niente importa’. Non parlerò di questo tema – un mio chiodo fisso – anche se in questi giorni si è ricominciato, per fortuna, a denunciare le condizioni degli animali negli allevamenti intensivi. Vorrei soltanto prendere spunto da questo titolo. Foer racconta che sua nonna, in fuga dai nazisti e prossima a morir di fame, rifiutò di cibarsi col maiale, nonostante il precetto ebraico prescriva di mangiarne in caso di pericolo di vita. La donna motivò così la sua rigidità: “Se niente importa, non c’è niente da salvare”. Ho ripensato a questa frase nei giorni scorsi, vedendo le immagini della città di Palmira nelle mani dei fondamentalisti dell’Isis. Visitai la città nel 2009 – una delle cose più belle che abbia visto in tutta la mia vita – e il pensiero che possa venire distrutta da guerriglieri d
                                                                                                    Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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Storie - Germania 1945
Il settantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich, caduto l’8 e il 9 maggio scorso, ripropone un interrogativo storico sul giudizio del popolo tedesco su quel momento: si sentirono sconfitti o liberati? A riflettere su questo tema è stato Gerhard Hirschfeld, professore allo Historisches Institut dell’Università di Stoccarda, uno dei massimi storici tedeschi contemporanei, in una lezione tenuta al Festival “È storia” a Gorizia qualche giorno fa. Secondo Hirschfeld, nella Germania del 1945 inizialmente per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo Reich non fu vissuta come una liberazione ma come una tragica sconfitta. “Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina”, ha affermato lo storico.

Mario Avagliano
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