|
Roberto
Della Rocca,
rabbino
|
Il
giorno successivo alle tre feste di pellegrinaggio, Pesakh, Shavuot,
Sukkot, è chiamato 'Isrù Chag', letteralmente 'legate la festa', dal
verso 27 del Salmo 118 che ci invita a “legare la vittima del
sacrificio festivo agli angoli dell’altare con delle
funi...”. Ciò induce i Maestri del Talmud (Sukkah, 45 b) ad
affermare che: "chiunque protrae la festa per un altro giorno,
mangiando e bevendo, è considerato come se costruisse un altare sul
quale offre un sacrificio...”. Con un mirabile paradosso, senza
un Santuario operante, oggi il 'sacrificio festivo' consiste nel
mangiare e bere con parenti ed amici. In un mondo frenetico e
consumistico come il nostro, i giorni festivi, soprattutto quando sono
contigui allo Shabbat, costituiscono per alcuni un distacco troppo
lungo dalla realtà quotidiana. Isrù Chag ci invita, viceversa, a
legarci alla festa anche nella sua uscita. Il distacco dalla kedushah
della festa deve essere graduale perché l’intensità del fervore e della
trepidazione che proviamo nel suo avvicinarsi è proporzionale alla
separazione dalla sua conclusione.
|
|
Dario
Calimani,
anglista
|
Ogni
tornata di elezioni potrebbe proporsi come oggetto di studio per
socio-psicanalisti. È interessante osservare se i candidati parlino di
sé, degli altri, o dei loro programmi. E, soprattutto, se parlino del
passato o del futuro. Del presente e dei suoi guai, chissà perché,
nessuno ama mai parlare. E il futuro, poi, è quello su cui si può
speculare di più. Il passato è meglio dimenticarlo: è un deserto, ed è
sempre colpa degli altri.
|
|
|
Nuove tensioni
a Gerusalemme |
Clima
teso nella Capitale israeliana. Nei pressi del Monte del Tempio ieri vi
sono stati alcuni scontri tra manifestanti palestinesi e israeliani,
conclusi con l’arresto di 12 persone da parte della polizia israeliana.
“Sei palestinesi sono stati fermati mentre cercavano di impedire agli
ebrei di accedere al Monte del Tempio”, ha riferito la portavoce della
polizia Luba Samri. Inoltre, domenica due diciassettenni israeliani
sono stati feriti da un palestinese mentre stavano andando al Muro del
Pianto in occasione della festa di Shavuot (Avvenire).
Polonia, la destra nazionalista alla presidenza. Sarà il leader della
destra nazionalista Andrzej Duda il nuovo presidente polacco (Il
Messaggero). Questo il verdetto delle recenti elezioni in Polonia ma
occorrerà aspettare le elezioni politiche di ottobre per capire se sarà
davvero chiusa la lunga epoca del governo liberale del partito
Piattaforma Civica. Il programma dell'euroscettico Duda contiene
preoccupa l'Europa, con i suoi richiami alla difesa degli interessi
della nazione in linea con i programmi del premier ungherese Viktor
Orbán.
Migranti, i limiti delle nuove misure. Alla vigilia della riunione
prevista per domani, la Commissione europea mette a punto il nuovo
piano di accoglienza per i migranti. Dopo l’opposizione di Francia e
Spagna, presidente Jean-Claude Junker ha rivisto all’ultimo alcuni
punti che sembravano decisi, proponendo di lasciare fissata la quota di
24 mila per i migranti da distribuire in Europa al loro arrivo in
Italia, ma il trasferimento andrà spalmato su due anni, riguarderà solo
gli arrivi successivi all’approvazione definitiva delle nuove misure, e
sarà applicabile solo a immigrati di nazionalità eritrea e sirana. La
proposta dovrà essere esaminata da tutti i componenti dell’Unione
Europea, e le trattative sono ancora in corso (Corriere della sera).
|
|
Leggi
|
|
|
rav di segni - pagine ebraiche
"Preghiamo per l'Italia,
ma evitiamo forzature"
Pregare
orgogliosamente per il bene della propria patria? Un dovere di ogni
ebreo. Così il Gran Rabbino di Francia Haim Korsia, ospite d’onore del
recente Moked di Milano Marittima, ricordando come fu sua la scelta di
far inserire nella preghiera che gli ebrei d’Oltralpe recitano per il
bene della Repubblica una parte dedicata ai militari attivi in
operazioni militari e che la stessa fosse recitata in francese e non
soltanto durante eventi istituzionali in modo da farla accettare senza
difficoltà. Rav Korsia aveva poi affermato: “Sarebbe auspicabile che
gli ebrei italiani facessero lo stesso per il loro Stato”.
Sul
numero di giugno del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche
attualmente in distribuzione il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni
interviene con una sua riflessione a riguardo.
Un’interessante provocazione lanciata dal rabbino capo di Francia Haim
Korsia al Moked primaverile, su una questione religiosa con
implicazioni politiche ed identitarie – la preghiera per la pace dello
Stato – sta provocando insieme a qualche risposta ragionata delle
polemiche inutili e strumentali. Per ricondurre la discussione nei
giusti binari è opportuno riproporre i dati essenziali di questa storia.
Nella tradizione ebraica antica vengono identificate due fonti
principali. La prima è una frase del profeta Geremia, in un suo
messaggio indirizzato agli ebrei esuli in Babilonia che gli chiedevano
come comportarsi in una terra lontana dalla patria originaria; a loro
Geremia rispose dicendo tra l’altro: “E cercate la pace della città
dove vi ho esiliato e pregate per lei al Signore, perché nella sua pace
voi avrete pace” (cap. 29 v. 7); in altri termini, perché voi possiate
essere tranquilli e prosperare, la città che vi ospita deve essere in
pace, non avete nulla da guadagnare dall’instabilità, anche se vi
trovate nella terra di chi ha sconfitto la Giudea e vi ha portato in
esilio e quindi adoperatevi per la sua pace. La seconda sollecitazione
in questo senso viene da una fase famosa pronunciata da rabbì Chaninà
segan haKohanim, Maestro dell’epoca della distruzione del Tempio:
“Prega per la pace del regno, perché se non fosse per il timore [che
incute] ognuno divorerebbe il suo prossimo vivo” (Avòt 3:2).
Anticipando di molti secoli il senso politico del famoso homo homini
lupus, invocava e giustificava la forza del potere come elemento
necessario per la sicurezza sociale. Parlava così riferendosi al regno,
che poteva essere un regno qualsiasi, ma aveva davanti a lui quello
romano, che aveva appena distrutto il Tempio e soggiogato la Giudea.
Altre fonti bibliche parlano di benedizioni o preghiere per i re; per
il re ebreo (Salomone) il verso di 1 Re 8:66 che parla
dell’inaugurazione del Tempio, alla fine della quale il popolo si
congeda benedicendo il re; per il re non ebreo la richiesta –
paradossale – del Faraone a Mosè di pregare per lui (Es. 8:24). Le due
principali indicazioni classiche hanno determinato o almeno costituito
il riferimento di appoggio per una tradizione che si è sviluppata in
molte diaspore. Le prime e principali informazioni su una preghiera per
il re le abbiamo per l’area askenazita dal Kolbo (Qeriat haTorà 19) del
XIV secolo e, per l’area sefardita, dal contemporaneo David Abudiram
(denominazione più corretta del popolare Abudraham), dove si parla di
un uso seguito da qualche (ma non tutte) comunità. Una fonte più antica
per il mondo tedesco sarebbe un registro della comunità di Worms, su un
testo composto all’epoca delle prime crociate: “Colui che ha benedetto
i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe benedica il nostro signore … e
gli mandi benedizione e successo perché sieda nel suo trono con
giustizia nella terra per vita e pace, e abbia pace lui e la sua
discendenza, e diremo Amèn”. Per l’Italia (in senso geografico, ma non
è detto che la cosa riguardi il minhag italiano) la fonte più antica
sembra essere Azarià de Rossi (Mantova c.1513-1578, in Meor ‘Enaym,
Imre Binà 55) che cita anche fonti apocrife, i libri dei Maccabei e
Giuseppe Flavio per dimostrare la presenza dell’uso già presso gli
ebrei sotto le dominazioni greche e romane e riferisce che vi sono
“alcuni posti” che fanno questa benedizione (per questa e altre
informazioni v. Shut Beth Mordekhai [Vogelman] 1:18).
Che quindi ci sia stata una benedizione recitata almeno dal medioevo
non c’è dubbio, ma le formule antiche si ignorano (a parte quella del
registro di Worms). Per veder comparire la formula più diffusa, che
sarebbe stata composta intorno alla metà del XV secolo, bisogna
aspettare. Chi sfoglia vecchi testi di preghiera potrà trovarvi il
testo base con l’aggiunta al centro del nome del sovrano (Re, Duca
ecc.) regnante. Ma non la troverà stampata nei machazorim classici di
rito italiano. In Italia comunque molte comunità l’hanno recitata,
ognuna per il suo sovrano, e praticamente tutte dalla nascita del regno
d’Italia. La preghiera prende il nome dalle parole iniziali Hanoten
teshu’à la melakhim, “Colui che dà salvezza ai Re” ed è un ricamo di
citazioni bibliche, a cominciare dall’inizio, ripreso dal v. 10 del
Salmo 144, seguito dal v. 16 di Isaia 43. Dopo i versi iniziali che
invocano il Signore, gli si chiede di benedire, proteggere, custodire,
aiutare, e rendere sempre più grande il sovrano, il consorte, la
famiglia reale e c’è chi aggiunge governo, ministri ecc.; si prosegue
con l’invocazione di protezione da ogni disgrazia e di sconfitta dai
nemici; quindi si invoca la misericordia divina perché induca nel
sovrano e i governanti la volontà di fare del bene al popolo d’Israele;
si chiude con l’invocazione: “Ai suoi giorni Yehudà sarà salvato e
Israel starà in sicurezza” (Ger. 23:6), “E verrà il redentore a Sion”
(Is. 59:20), “E così sia, Amèn.”
Anche un esame superficiale di questo testo rivela delle difficoltà. La
sperticata preghiera per il re è seguita dalla richiesta di protezione
del popolo ebraico, come per dire: noi preghiamo per te, ma tu fa la
tua parte; e si chiude con la speranza di redenzione di Israele, che in
altri termini significa che si prega per quel re ma si aspetta, mentre
lui è in vita, un re nostro. Chi l’ha composta ha avuto cura di
costruire il testo cucendo citazioni bibliche, che per loro origine
sono inattaccabili dal pubblico cristiano che le legge a suo modo (il
redentore ha ovviamente un significato diverso per ebrei e cristiani).
Si nota anche che il seguito delle prime citazioni, che cominciano con
la lode del re, contiene richieste di altro tipo; il verso 11 del Salmo
144, non citato nella preghiera, dice: “Salvami dalla mano degli
stranieri, la cui bocca dice menzogne e la cui destra è bugiarda”.
Ancora peggio il seguito dell’altra citazione. Molti anni fa, nel 1970,
ne discutevo a Ramat Gan con un uomo dotto e pieno di fede, il dottor
Genazzani, pediatra fiorentino, maskìl del Collegio Rabbinico, salito
in Israele nel 1938; gli dicevo che per me era una preghiera di
schiavi, e lui mi rispondeva che era stata scritta con saggezza. Ora
direi che è una preghiera di schiavi scritta con saggezza. Con tutti
questi limiti o pregi, dipende dai punti di vista, la preghiera è stata
recitata per secoli, anche in luoghi dove il re non c’era più o non
c’era mai stato (come gli Stati Uniti), interpretando “re” e “regno”
come sinonimi di stato e governo. Nel Regno Unito viene recitata
solennemente, in alcune sinagoghe in inglese, ma usando ancora la
versione classica della Bibbia di King James: “He that giveth salvation
unto Kings…”. Negli Sati Uniti non c’è una diffusione omogenea, nei
nuovi libri di preghiera dell’Art Scroll non compare, ma in compenso in
ogni sinagoga c’è la bandiera a stelle e strisce. Persino la
benedizione per lo Stato d’Israele, con una formula del tutto diversa,
nasce anche come seguito/evoluzione della benedizione diasporica,
partendo dal comune presupposto che bisogna invocare la benedizione per
lo Stato in cui si vive. Nell’Europa delle persecuzioni si pose, a
cominciare dalla Germania, il problema del senso di questa preghiera.
Francamente era imbarazzante pregare per la salute e il successo di
Adolf Hitler. Persino le sinagoghe liberal, dopo qualche adattamento
iniziale, la eliminarono. In Italia la crisi arrivò nel 1938, con le
leggi razziali, quando qualcuno si chiese che senso avesse pregare per
Vittorio Emanuele, firmatario delle leggi razziali e per il duce
persecutore, e ne invocò l’abolizione. Tra questi “qualcuno” va
ricordato in particolare rav Elio Toaff, che racconta nelle sue memorie
che mentre officiava a Livorno disse chiaramente “Vittorio Emanuele III
re di paglia”, invece che “d’Italia” e la cosa gli costò
l’allontanamento dal servizio (Perfidi Giudei Fratelli Maggiori, p.16).
In occasione della sua scomparsa molti hanno cercato di presentare e
deformare a loro modo la sua opera, dimenticando che in questa opera ci
fu anche la sua “spallata” per far smettere la preghiera. Con la
liberazione, persistendo la monarchia, la preghiera fu da qualcuno
ripresa (vi sono correzioni manoscritte che mettono Umberto al posto di
Vittorio Emanuele) ma poi passando alla repubblica non ci fu
un’automatica reintroduzione. Pesava ancora l’amarezza e il
risentimento per il tradimento dello Stato. Ma c’era anche il bruciante
ricordo della lacerante polemica con gli ebrei della Nostra Bandiera e
della loro esasperata rivendicazione della loro italianità fascista; in
questa preghiera i “bandieristi” vedevano un segno della loro
integrazione. E poi nel dopoguerra gli occhi degli ebrei italiani (e
dei loro rabbini, pensiamo a rav Prato) erano puntati sulla nascita
dello Stato d’Israele; dal settembre del 1948 comparve la benedizione
per lo Stato che fu rapidamente adottata in tutte le comunità.
Effettivamente la domanda sul ripristino della preghiera in Italia (che
sarebbe per la repubblica e non per il re) ha un senso e va discussa
serenamente, anche se bisognerebbe lavorare su un testo differente
(come quello più antico, sobrio e non equivoco della comunità di
Worms). Ma non c’è bisogno per gli ebrei italiani di fare preghiere
“politiche” per dimostrare quello che sono e sentono, cittadini di
identità complessa e non esclusiva, in cui la parte italiana è comunque
essenziale, profonda e radicale come è l’amore per questa terra;
basterebbe magari evitare esagerazioni in tutti i sensi,
dall’esposizione di bandiere (d’Israele) all’esterno di edifici ebraici
ma non israeliani o delle foto di soldati (italiani o israeliani) sui
cancelli della sinagoga (mai visti sui cancelli delle chiese), fermi
restando il nostro legame con Israele e la solidarietà con i soldati
italiani, tanto più in questi giorni in cui sono a guardia delle
sinagoghe. Sembra ancora non guarito il complesso che
induceva le nostre precedenti generazioni a dichiararsi
“italianissimi”, non bastava l’aggettivo normale, ci voleva il
superlativo. Ma dentro e fuori il Beth haKnesset la preghiera,
qualsiasi preghiera, si fa per un sentimento e un dovere condiviso, non
per opportunità politiche. Ben venga allora, ciò chiarito, una bella e
sobria preghiera per questa terra e questo stato. In questo dibattito
però non sono molto utili, come modello da seguire, le sollecitazioni
che vengono dalla Francia (dove è stato scelto come Grand Rabbin
proprio il rabbino capo delle forze armate), tanto più in un momento
come questo in cui l’identità degli ebrei francesi è sottoposta a dura
prova e qualcuno sente bisogno di sottolineature che qua non sono né
richieste né necessarie. Ogni paese ha la sua storia e la sua
sensibilità e in questa faccenda la dimensione halakhica è
inevitabilmente mescolata a quella storico-politica e i modelli (e
forse le forzature) differenti non sono qui applicabili. Tantomeno
devono essere accolte le sollecitazioni che provengono da alcuni nostri
reform, che non hanno perso anche questa occasione per dimostrare
quella che per loro è la chiusura mentale del rabbinato italiano;
purtroppo alcuni loro rappresentanti (non italiani di origine) si sono
dimenticati (ammesso che l’abbiano mai studiata)non solo la storia
dell’ebraismo italiano del Novecento con i suoi drammi e lacerazioni,
ma anche quella della riforma nell’Ottocento; uno dei primi passi della
riforma fu l’eliminazione dal testo delle preghiere di tutti i
riferimenti al ritorno a Sion, perché ormai si era (o si pensava di
essere) solo cittadini patriottici fino in fondo; e allora non stupisce
che siano proprio i loro eredi a rimpiangere l’antica preghiera per
casa Savoia anche se in salsa repubblicana facendola passare per un
segno di apertura mentale.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(Pagine Ebraiche giugno 2015)
|
qui cannes
Il trionfo di László Nemes,
una luce di Memoria
“Un
capolavoro”. Questo il commento unanime con il quale viene accolto “Il
figlio di Saul”, opera prima del regista ungherese László Nemes,
vincitore del Grand Prix della Giuria del 68° Festival di Cannes.
Ambientato nell’autunno del 1944 ad Auschwitz, il film ripercorre il
dramma di Saul Ausländer, prigioniero membro del Sondekommando (il
gruppo di ebrei costretti a collaborare con le SS naziste che si
occupava della rimozione dei cadaveri delle camere a gas) incaricato di
bruciare le vittime del lager, che ritrova il corpo di quello che crede
essere il proprio figlio. Questo il nodo dal quale inizia il calvario
di un padre che tenta di dare una sepoltura degna e cerca
disperatamente un rabbino che possa occuparsi delle esequie. Acclamato
dalla critica, il film ha conquistato anche il Vulcan Award, il premio
di Cannes dedicato ai film indipendenti e il Fipresci, il
riconoscimento della federazione dei critici cinematografici che in
passato ha premiato registi come Jean-Luc Godard, Roman Polanski e
Woody Allen. .
Leggi
|
mondo del giornalismo in lutto
Roberto Delera (1952-2015)
Mondo
del giornalismo in lutto per la scomparsa del collega Roberto Delera.
Da Diario a Epoca, da Sette al Corriere della sera, da Vanity Fair
all’Huffington Post: la sua è stata una vita professionalmente intensa
e scandita da molte soddisfazioni. “Indelebile resta il ricordo del suo
coraggio nell’affrontare la sfida più importante. Battagliero fino alla
fine, non si è arreso mai. La stessa caparbietà che ha messo nella
vita, lo ha accompagnato nel lavoro” scrive la redazione
dell’Huffington Post, sua ultima avventura professionale. E tanti sono
i compagni d’avventura a ricordarne in queste ore i meriti
giornalistici, l’umanità, la lealtà, oltre alla straordinaria forza
d’animo che gli ha permesso di affrontare a testa alta la malattia. La
redazione del portale dell’ebraismo italiano www.moked.it e di Pagine
Ebraiche si stringe a Betti Guetta e a tutti i suoi cari.
|
Palmira |
Lo
scrittore americano Jonathan Safran Foer ha scritto anni fa un bel
libro sul consumo di animali da parte degli umani. Si intitola ‘Eating
animals’ e in italiano è stato tradotto ‘Se niente importa’. Non
parlerò di questo tema – un mio chiodo fisso – anche se in questi
giorni si è ricominciato, per fortuna, a denunciare le condizioni degli
animali negli allevamenti intensivi. Vorrei soltanto prendere spunto da
questo titolo. Foer racconta che sua nonna, in fuga dai nazisti e
prossima a morir di fame, rifiutò di cibarsi col maiale, nonostante il
precetto ebraico prescriva di mangiarne in caso di pericolo di vita. La
donna motivò così la sua rigidità: “Se niente importa, non c’è niente
da salvare”. Ho ripensato a questa frase nei giorni scorsi, vedendo le
immagini della città di Palmira nelle mani dei fondamentalisti
dell’Isis. Visitai la città nel 2009 – una delle cose più belle che
abbia visto in tutta la mia vita – e il pensiero che possa venire
distrutta da guerriglieri d
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
Leggi
|
|
Storie
- Germania 1945
|
Il
settantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich, caduto l’8 e il 9
maggio scorso, ripropone un interrogativo storico sul giudizio del
popolo tedesco su quel momento: si sentirono sconfitti o liberati? A
riflettere su questo tema è stato Gerhard Hirschfeld, professore allo
Historisches Institut dell’Università di Stoccarda, uno dei massimi
storici tedeschi contemporanei, in una lezione tenuta al Festival “È
storia” a Gorizia qualche giorno fa. Secondo Hirschfeld, nella Germania
del 1945 inizialmente per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo
Reich non fu vissuta come una liberazione ma come una tragica
sconfitta. “Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono
la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina”, ha affermato
lo storico.
Mario Avagliano
Leggi
|
|
|