
Elia Richetti,
rabbino
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Dopo
aver elencato ed abbondantemente esemplificato gli innumerevoli segni
dell’attenzione e dell’amore divino per Israel, Moshè osserva:
“We-‘attà Israel, ma Ha-Shèm E-lokékha sho’èl me-‘immàkh, ki im
le-yir’à eth Ha-Shèm E-lokékha?”, “Ed ora, Israel, che cosa il Signore
tuo D.o ti chiede, se non di venerare il Signore tuo D.o?”.
Rashì spiega questo verso sottolineando che nonostante tutto ciò che
gli ebrei hanno fatto di male, tuttavia Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ Si
accontenta del semplice rispetto dell’impegno a venerarLo ed amarLo, e
non chiede particolari atti di contrizione o penitenza.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
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Mi
è sembrata insufficiente la reazione dei rabbini in Israele e nel mondo
di fronte agli abbietti omicidi perpetrati nei giorni scorsi da alcuni
giovani israeliani nei confronti di un infante arabo in un villaggio
della Cisgiordania e di una ragazza ebrea nelle strade di Gerusalemme.
Gli uccisori, così come l’assassino del primo ministro Rabin nel 1995,
erano o erano stati tutti allievi di accademie rabbiniche, o presunte
tali, agivano in nome di principi che, a loro dire, derivavano dalla
tradizione ebraica, e si prefiggevano obiettivi dettati, sempre a loro
dire, dalle norme dell’ebraismo. In sintesi, il programma degli
assassini e delle altre (non molte) migliaia di persone che sono
accomunate nella stessa ideologia, è lo stabilimento di uno stato
fondato sull’applicazione integrale della halachah (il diritto ebraico
tradizionale) su tutto l’antico territorio storico della Terra
d’Israele, qualunque esso sia, e senza alcuna esclusione di mezzi,
compreso l’omicidio.
Gli ultimi sanguinari episodi sono stati condannati dai capi-rabbini di
Israele Yizhak Yosef e David Lau insieme a molti altri noti rabbini
israeliani di diverse correnti e a diversi rabbini italiani. Da una
quindicina di voci autorevoli raccolte in internet emergono queste
direttrici di pensiero: “Gli autori dei delitti sono dei criminali.
Sono atti feroci e senza logica. Preghiamo per la salute e il pronto
ricupero dei feriti. Questa barbarie va condannata. Condanniamo il
sangue versato dagli assassini in nome della religione. Questi
comportamenti sono contrari a qualsiasi valore ebraico. È impensabile
che un uomo sollevi la sua mano contro l’anima di un altro ebreo in
nome della religione. Chiunque sia coinvolto in spargimenti di sangue
non ci rappresenta. La Legge del Popolo d’Israele è contro la violenza
e a favore della vita. Nell’ebraismo il valore della vita sta al di
sopra di ogni altra cosa. La Torah dice non uccidere. Ci sono persone
che compiono azioni due volte criminali: uccidono e lo fanno nel nome
di D.o, che ci comanda di non farlo. Guai a coloro che sono vergogna
per la Torah e il popolo di Israele. Dobbiamo riflettere sulla
responsabilità individuale e collettiva. Gli errori del nostro popolo
ci procurano dolore più degli errori di altri popoli. Anche quanto non
siamo d’accordo dobbiamo trovare una via per esserlo in modo rispettoso
e dobbiamo evitare a ogni costo situazioni che portino al versamento di
altro sangue. Richiamiamo l’intero popolo ebraico a tornare all’unità
in uno spirito di gentilezza e di tolleranza. Le parti coinvolte devono
maturare la consapevolezza che non vi è né vi può essere altra
soluzione al di fuori del dialogo”.
Tutte queste parole sono giuste, nobili e di grande buon senso, ma
avrebbero potuto essere proposte da un quasiasi bravo giornalista
oppure da un onesto docente universitario. Dal rabbinato ci aspettiamo
qualche cosa di diverso e di più. E più in particolare pretendiamo tre
cose. La prima è che venga sviluppata con ben maggiore profondità
l’analisi del punto di vista ebraico sugli atti criminali commessi e
sulle loro aberranti premesse ideologiche. La seconda è una condanna
esplicita e senza attenuanti nei confronti di quelle specifiche scuole
rabbiniche all’interno delle quali e su istruzione dei cui maestri sono
maturati gli infami assassini. E la terza è una chiara e non equivoca
specifica delle sanzioni e delle pene alle quali, secondo il diritto
ebraico, devono essere sottoposti i vili criminali che nello stroncare
giovani vite innocenti hanno infamato l’immagine di tutto il popolo
ebraico e di tutto lo stato d’Israele.
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Obama sull'Iran:
"Accordo evita la guerra” |
L'alternativa
all'accordo siglato tra le potenze occidentali e l'Iran è la guerra.
“Magari non domani, neanche tra qualche mese, ma certo abbastanza
presto”, ha avvisato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama,
difendento l'intesa raggiunta poche settimane fa sul nucleare iraniano
e chiedendo al Congresso americano, che dovrà votarlo a settembre, di
non affossarlo. Come sottolineano i quotidiani oggi, Obama ha scelto lo
stesso palco – quello dell'American University di Washington – da cui
John F. Kennedy nel 1963, in piena Guerra Fredda si schierò a favore
della pace e dei negoziati con i sovietici per evitare il conflitto sul
campo. Lo stesso Obama ha richiamato quel discorso e difeso la sua
scelta con l'Iran, “sostenendo che l’accordo è la soluzione migliore
per impedire alla Repubblica islamica di costruire l’arma atomica,
perché blocca l’arricchimento, elimina le scorte di materiali nucleari
prodotti finora, e crea un sistema di controlli che consentirà di
capire subito se gli iraniani imbrogliano” (La Stampa). Il presidente
americano ha poi cercato di rassicurare Israele, affermando di capire
le preoccupazioni del suo premier, Benjamin Netanyahu, ma definendole
sbagliate. Secondo la Casa Bianca l'accordo non solo eviterebbe un
guerra con il regime degli Ayatollah ma l'auspicio è che la
“normalizzazione dei rapporti possa portare a un ruolo attivo di
Teheran nel risolvere la crisi siriana e battere lo Stato Islamico”
(Repubblica). “Non ci fidiamo di loro. Questa è la chiave
dell'accordo”, spiega a Repubblica l'ex segretario Usa Madeleine
Albright: “L'importanza di cio che è stato firmato non è nella fiducia
ma nelle verifiche e nel fatto che è un accordo multilaterale, non solo
con gli Stati Uniti, e che coinvolge l'Onu”.
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QUI NEW YORK - IL RICORDO DEL CICLISTA EROE
Nel nome di Ginettaccio
"C’è
un ponte che parte da New York e arriva fino a Firenze. E su quel ponte
torna a correre Gino Bartali”. Sulle pagine fiorentine del Corriere
della sera l’avvincente racconto di come un giovane ebreo americano,
Jonathan Freedman (nell’immagine), è riuscito a costituire un team di
ciclisti che correranno negli Stati Uniti per diffondere i valori e la
profonda umanità testimoniati dal ciclista Giusto.
Una squadra di volontari, si racconta, costituitasi nel solco delle
storie emerse dopo la campagna per la raccolta di nuove prove lanciata
sul mensile Pagine Ebraiche dal giornalista Adam Smulevich e dalla
psicologa Sara Funaro, attuale assessore del Comune di Firenze al
Welfare. Due i testimonial d’eccezione: l’ex maglia gialla George
Hincapie e Christian Vande Velde, quarto al Tour del 2008. Entrambi
indossano la maglia del “Team Bartali” e partecipano oggi a un evento
benefico in New Jersey a favore dei bambini malati di cancro.
“Bartali è stato uno straordinario campione del Novecento – racconta
Smulevich al Corriere – un uomo che ha segnato la storia dello sport
italiano ed europeo. Commuove che ci siano persone che, di là
dall’Oceano, spinte da forti valori e concretezza, riescano a portare
avanti azioni così significative”.
A colpire Freedman anche la storia di Giorgio Goldenberg, il giovane
ebreo fiumano che fu nascosto assieme ai suoi cari in una casa di via
del Bandino, prima periferia di Firenze. Raggiunto anche grazie
all’intermediazione di Nardo Bonomi, Giorgio avrebbe rivelato il suo
segreto a Pagine Ebraiche. Era il dicembre del 2010 e Goldenberg
affermava: “Se sono vivo lo devo a Bartali”. Le sue parole avrebbero
presto fatto il giro del mondo.
Nuovi omaggi sono intanto in vista nel capoluogo toscano. Come ci
anticipa Silvia Costantini, vicepresidente della fondazione dedicata
all'eroico diplomatico svedese Raoul Wallenberg, l’aeroporto cittadino
Amerigo Vespucci accoglierà prossimamente un contributo artistico in
ricordo del ciclista, che sarà posto all'ingresso della struttura.
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Mostre - Tel Aviv
I colori dell’ebraismo
Le
tinte sono brillanti e si mescolano senza incertezza, gli occhi, a
forma da pallone da rugby, sembrano usciti da un cartone animato. Ci
sono uomini con tuniche, colbacchi di pelliccia, camicie a mezze
maniche e turbanti bianchi e azzurri. Donne con lunghe trecce bionde e
dispettosi fenicotteri rosa riempiono la tela. Questi sono tutti i
colori dell’ebraismo, gli “United Colors of Judaica”, protagonisti
della mostra temporanea a firma dell’artista franco-tunisino Eliahou
Eric Bokobza che sarà possibile visitare fino al prossimo 28 gennaio al
Beit Hatfutsot, il museo di Tel Aviv, che racconta la storia e
l’evoluzione del popolo ebraico.
“United Colors of Judaica” è concepito in tre sezioni tematiche: La
Famiglia, le feste e il ciclo della vita. La Famiglia altri non è che
un tavolo apparecchiato con sedie e 13 piatti decorati. Dentro i
piatti, decorati con acquerelli e inchiostro giapponese, spiccano
altrettanti volti dalle fattezze diverse e copricapi tradizionali. Un
tavolo, che può essere identificato sia come quello del Seder di Pesach
o dello Shabbat, che è il simbolo della vita ebraica vissuta
intensamente; consumata nell’intima dimensione domestica del pasto, tra
piccoli drammi familiari, chiacchiere condivise e rituali millenari. A
corredare il tavolo, tre alberi genealogici da fumetto che descrivono i
legami parentali frutto della stessa eredità di Bokobza.
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jciak
Tikkun e la rinascita impossibile
Se
torno a nascere… È uno di quei pensieri capaci di assediarci la mente.
Ma se davvero potessimo ricominciare, che cosa faremmo?
Ruota attorno a quest’interrogativo “Tikkun”, ultimo bellissimo lavoro
di Avishai Sivan che, dopo aver spuntato il premio come miglior
lungometraggio al Jerusalem Film Festival, martedì è in concorso
internazionale al festival di Locarno. Il film prende spunto dal
termine ebraico ‘tikkun’, che indica la correzione o il miglioramento,
e mette in scena un’impossibile seconda opportunità, resa ancora più
drammatica dal mondo ultraortodosso di Mea Shearim in cui l’intera
storia si dipana e dalla crudezza di alcune scene.
“L’ebraismo sostiene l’idea della reincarnazione, la credenza in un
ciclo dell’anima, nel ritorno al mondo dopo la morte biologica”, spiega
il regista. “Tikkun è l’anima che torna al mondo dei vivi per
correggere una questione irrisolta nella sua vita passata e redimersi
prima di muovere verso il prossimo mondo”. Il film narra la storia di
Haim-Aron, studente di yeshiva brillante e destinato a un grande
futuro. Una sera sviene durante un digiuno che si è autoimposto e perde
conoscenza. I paramedici lo danno per morto, ma il padre – interpretato
dal bravo Khalifa Natour, attore arabo israeliano – cerca in tutti i
modi di rianimarlo.
Daniela Gross
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Setirot
- Silenzio |
Sbigottito
e profondamente lacerato dall’uso ideologico che del dolore di questi
ultimi giorni è stato fatto da molte parti, chiedo scusa al direttore,
alla redazione e ai lettori di questo notiziario, ma l’unica cosa che
mi sento di fare è tacere. Silenzio e rispetto per i lutti altrui.
Ognuno parli con la propria coscienza.
Stefano Jesurum, giornalista
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Sei sensi |
Allora
ti dirò solo questo: se Dio esiste, ha molte ragioni per essere triste.
E se non esiste, secondo me anche questo Lo rattrista non poco.
Insomma, per rispondere alla tua domanda, Dio deve essere triste”
(Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, p. 97).
Un posto particolare occupa “Ogni cosa è illuminata” nel personalissimo
mio ‘Lessico famigliare’ imbastito di neologismi, espressioni infantili
(non nel senso negativo che attribuiamo scioccamente noi adulti ma:
‘formulate da bambini’), gergo memoriale e citazioni dai classici – e
per classici intendo, alla Calvino, quei libri che non ci si accontenta
di leggere ma si rileggono ancora e ancora, che arricchiscono e
influenzano il modo di sentire e di pensare e dunque di vivere, che
continuano a parlarci e ogni volta in modo un po’ diverso e nuovo, e
assaporarli è sempre una gioia inedita; quei libri che non ci lasciano
mai indifferenti e risuonano in noi nel proseguo della nostra vita.
Perché, come scrive ancora Jonathan Safran Foer, gli ebrei hanno sei
sensi e il sesto senso è la memoria. La prima parola delle Asseret Ha
Dibberot non dice infatti semplicemente che dobbiamo ricordare D-o ma
specifica che Io sono il Signore D-o tuo che ti fece uscire dalla terra
d’Egitto, dalla casa degli schiavi: dobbiamo allora ricordare il dono
della libertà che ci ha fatto D-o.
Noi siamo dunque memoria, memoria di libertà, accettando la quale
accettiamo la Legge che ci dona D-o con la Sua Torah e ci facciamo
popolo. Questo Patto inciso su pietra tra Am Israel e D-o, ci insegna
la Mishnah è sì Harut, inciso ma anche Herut, libertà (Avot 6:2). Forse
cerchiamo oggi il libero accordo con D-o non nella pietra incisa, ma
nel provare a farci una realtà sacrale di preghiere e di testi, rivolti
a D-o e volti a raffigurare il mondo e la nostra comprensione di esso,
la creazione dei Cieli e della Terra e la necessità di consolarci e di
consolare D-o della sua tristezza.
Opere che noi scriviamo, testi, nel senso etimologico di textus,
intessuto e intrecciato: filare il legame tra significante e
significato, tra noi e D-o che ‘prima’ ci ha liberato dall’Egitto e
‘poi’ ha creato il mondo, senza possibilità di logica temporale.
“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come
ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato”, esordisce Alex
scrivendo a Jonathan (Safran Foer) anzi Jonfen, e riferendosi (credo
io) alla luce della Presenza divina che dà senso a quanto è stato, ci
aiuta ad accettare gli accadimenti e a provare a vivere al meglio il
presente.
Per farlo abbiamo la preghiera, ma anche la poesia, la scrittura,
l’arte, il tessere lode al Creatore e dirGli che cerchiamo di portare
avanti in qualche modo, sbagliando anche e ritornando sui nostri passi,
il Tikkun Olam.
Ognuno come può; Jonathan Safran Foer raccontando l’amore e il dolore
del passato e la faticosa certezza che l’unico modo di vivere davvero è
essere coerenti con noi stessi; l’artista Grisha Bruskin con il ciclo
Alefbet, perché esprimersi intessendo arazzi tiene insieme trama e
ordito, tessuto e tessitura, le scintille di luce cadute nella
Creazione del mondo e il nostro tentativo maldestro e imperfetto di
riportare nei Cieli quelle scintille.
I tappeti di Bruskin diventano quadri, e i quadri sono animati di
lettere e di figure, ognuna dotata di un particolare significato
religioso e mitologico e allineata alle altre fuori dal continuum
temporale, perché la Torah c’era già prima di tutto.
Nei cinque arazzi, si dispiegano così diversi personaggi (per la
precisione centosessanta, ma potrebbero essere molti di meno o molti di
più) costituiti da coppie umane, demoni e angeli, uomini in preghiera o
accompagnati da simboli, a costituire un vocabolario della memoria del
Popolo Ebraico in dialogo con D-o, fuori dal tempo e dalla Storia ma
illuminato dalla Shekinah e dalla luce del passato. Popolo che ha il
dovere della memoria, scolpita sulla pietra, even / av, ben di padre in
figlio, di generazione in generazione.
E immagino (o forse sogno): negli angeli che risalgono la scala vista
da Jakov c’è l’uomo che cerca D-o e vuole consolarne la tristezza. E
immagino, o forse sogno, di risalire un poco la scala dietro agli
angeli, soffiando verso il cielo una delle centosessanta figure prese
dagli arazzi di Bruskin, il quale spero non me ne vorrà: l’uomo la cui
testa si dissolve nello sfondo dell’arazzo, perché al posto del viso
egli è solo luce, purificato e pronto ad incontrare D-o: “Se salgo nei
Cieli, tu sei lì, e se scendo nello Sheol, eccoti laggiù. Se prendo le
ali dell’alba e vado ad abitare le estremità occidentali del mare,
anche qui la tua mano mi guiderà e la tua mano destra mi afferrerà”
(Tehillim 139:8-10).
Sara Valentina Di Palma
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Time
out - Limiti |
Qual
è il limite alla libertà d'espressione? Mi è stato chiesto in queste
pagine quando, due settimane fa, ho dissentito dal Presidente Ucei
Renzo Gattegna sulla sua relazione sui dati dell'8 per mille. Ho
semplicemente spiegato che, in assenza di dati scientifici, fosse
difficile dire che il merito fosse della comunicazione Ucei. Nulla di
più, nulla che togliesse il merito al lavoro dei professionisti che ci
lavorano. Di lì il finimondo. È arrivata una risposta intimidatoria e
calunniosa in cui si è detto che "anteponevo al bene comune le fortune
di amici e delle loro aziendine". Come a dire che ho degli interessi
economici che mi spingono a prendere alcune posizioni che antepongo al
bene dell'ebraismo italiano. Allora ripartiamo dalla prima domanda:
qual è il limite alla libertà d'espressione? È giusto essere insultati
dal direttore di una testata ebraica solo perché si dissente dal suo
datore di lavoro? Siamo sicuri che poi l'editore sia il presidente Ucei
e non invece l'ebraismo italiano che merita invece di difendere il
diritto alla sua pluralità? Sono domande legittime che spero non
scatenino altre intimidazioni che mirano a ridurre le opinioni diverse
in interessi economici privati che, se qualcuno conosce vorrei, che
fossero resi noti a tutti. Insomma quale vantaggio economico traggo dal
dire che Progetto Dreyfus fa uno straordinario lavoro e perché sarebbe
un'azienda visto che è una Onlus? Tutte domande meritevoli di risposta
che, di fronte a tante insinuazioni, meritano di essere considerate
come il mio diritto di replica; sottolineando che se ho aspettato una
settimana in più a rispondere è solo perché speravo che arrivassero
delle scuse sincere, perché a volte può capitare di esagerare con le
parole. Tutto questo non c'è stato, e neanche l'editore ha scelto di
intervenire di fronte a un'accusa gravissima nei confronti di un
consigliere di una comunità ebraica italiana. Come a dimostrare che
sappiamo parlare tanto di valori come diversità e pluralità purché non
diano troppo fastidio. Questa è stata la mia colpa e per questo
qualcuno ha cercato di intimidirmi senza però riuscirci. Ora il
problema però è dell'ebraismo italiano che pare accetti questo come
metodo di confronto. Poveri noi, mi viene da dire.
Daniel Funaro
Come tutti possono quotidianamente constatare, la redazione sollecita,
rispetta e valorizza la libertà d’opinione e pubblica migliaia di
opinioni ogni anno provenienti dalle persone e dalle prospettive più
diverse. Per questo motivo le opinioni di Daniel Funaro, così come
quelle di molti altri, vengono regolarmente pubblicate e sono
apprezzate come un importante contributo che non tutti, ovviamente,
sono obbligati a condividere. La mia replica a un suo scritto di alcuni
giorni fa voleva esclusivamente avvertire il lettore che le tesi
esposte si basavano in quella occasione su affermazioni certo degne di
pubblicazione, ma che apparivano gravemente mistificatorie. Il tono
brusco e scortese con cui nella concitazione del lavoro quotidiano ho
espresso tali perplessità era del tutto fuori luogo e devo pregare
Daniel di accogliere le mie scuse. Così come tengo a precisare, se ce
ne fosse il bisogno, di non aver mai inteso dire che nell’esprimere le
sue opinioni questo collaboratore coltivasse interessi personali. Le
perplessità espresse in quella replica, per contro, restano a mio
avviso ben fondate.
gv
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