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Paolo Sciunnach,
insegnante
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La
mitzvah del Mishkan viene dopo il Vitello d’oro? Se non ci fosse stata
la mitzvah del Mishkan non ci sarebbe stata nemmeno quella dei
Qorbanot. Secondo alcuni maestri (si veda anche Rashi) la mitzvah del
Mishkan viene data al popolo ebraico solo dopo il peccato del Vitello
d’oro. Questo sta a significare che la mitzvah dei Qorbanot non sarebbe
stata prevista dal principio, ma si tratta solo di un Tiqun (rimedio
espiatorio) al peccato del Vitello d’Oro. Eppure la Parashà del Mishkan
viene inserita nel testo della Torah prima del caso del Vitello d’oro.
Ma il midrash si domanda: quando è stata data la mitzvah del Mishkan?
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Leggi
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Anna
Foa,
storica
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È
una sopravvissuta ultraottantenne, ma è costretta a cambiare posto
sull’aereo perché era seduta vicino a un ultraortosso in un volo
dell’El Al. E non perchè la disturbasse fare un lungo viaggio aereo a
fianco di un ultraortodosso (che sarebbe anche stato possibile), ma
perché ad essere disturbato era lui, il religioso. È noto che le donne
dopo gli ottant’anni sono particolarmente seducenti, tali quindi da
mettere in pericolo la tzniut dell’uomo. Ed è anche noto che tra un
ortodosso e una signora ottantenne si deve alzare la signora, non
l’ultraortodosso. Purtroppo per la compagnia, che si è prestata ad
accogliere questa richiesta, la signora oltre ad essere una
sopravvissuta è anche un avvocato. Nella vita è stata inoltre moglie,
successivamente, di due rabbini e di queste faccende si intende
abbastanza. Tanto da richiedere un congruo risarcimento alla compagnia
di bandiera israeliana per l’umiliazione subita. Speriamo che glielo
diano, in modo da rendere in futuro la compagnia più attenta nei
confronti delle signore e da evitare di conseguenza che in giro nel
mondo circolino notizie del genere, che non possono che coprirci di
ridicolo.
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Il tweet di Rouhani
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“Con
il vostro voto avete creato una nuova atmosfera. Mi alzo in piedi
davanti a voi”. Così il presidente Hassan Rouhani su Twitter,
commentando gli esiti del voto in Iran.
“L’Iran volta pagina? Di certo siamo di fronte a un risultato notevole
se anche la guida suprema, il per ora leader sconfitto ayatollah
Khamenei, riconosce il senso dell’alta affluenza dichiarando che l’Iran
è un paese saggio e determinato” scrive Francesca Paci su La Stampa.
Numerose le opinioni pubblicate al riguardo sui quotidiani. “L’accordo
sul nucleare è stato di grande aiuto per spingere i moderati” sostiene
il politologo Ian Bremmer in una intervista al Corriere (Giuseppe
Sarcina). “È inutile illudersi, il potere è sempre in mano ai radicali”
avverte invece Fiamma Nirenstein (Il Giornale).
Sul Corriere, Paolo Salom racconta la consultazione dal punto di vista
degli ebrei iraniani e la discutibile scelta del governo di Teheran di
fissare il voto in una data che, dopo il tramonto, ha segnato la
profanazione dello Shabbat.
Se Donald cita Benito.
Incredibile gaffe di Donal Trump, che ha ritwittato una frase di Benito
Mussolini (“Meglio vivere un giorno da leoni, che cento da pecora”)
presa dall’account @ilduce2016 con foto del dittatore fascista e
capelli biondi del candidato repubblicano. “Voglio essere associato a
buone citazioni. Mi piaceva come suonava. Sapevo di citare Mussolini,
ma che differenza fa?” ha commentato Trump (Repubblica, tra gli altri).
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LO SPECIALE DI PAGINE EBRAICHE
Quale futuro per il Dialogo
Il
Dialogo va avanti, ma non può essere fatto solo di gesti simbolici. Per
questo il giornale dell’ebraismo italiano nel suo numero di marzo in
distribuzione dà spazio alle riflessioni del rabbino capo di Roma
Riccardo Di Segni riguardo a un recente documento della Commissione
vaticana per i rapporti con l’ebraismo. Molteplici i temi affrontati
nel documento: dall’impatto della dichiarazione conciliare allo statuto
teologico del dialogo ebraico-cattolico; dalla relazione tra Antico e
Nuovo Testamento al mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione
all’ebraismo.
Oltre all'intervento del rav, numerose le pagine del giornale dedicate al futuro del Dialogo.
Numerose
le pagine che il giornale dedica al futuro del Dialogo. A dicembre è
comparso sul tema dei rapporti ebraico cristiani un importante
documento redatto dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo del
Vaticano (“Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm
11,29) Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni
cattolico-ebraiche in occasione del 50º Anniversario di Nostra aetate
(n. 4). Il documento ha sollevato giustamente molta attenzione; i
commenti e le reazioni “a caldo” sono stati numerosi e di diverso
orientamento. In questa nota si vuole proporre una sintesi informativa
per il pubblico meno addetto, con qualche riflessione dal punto di
vista di un rabbino italiano. Il documento vaticano è una sorta di
bilancio e sintesi su quanto è stato fatto dalla Chiesa cattolica negli
ultimi cinquanta anni a partire dalla Nostra Aetate, soprattutto dal
punto di vista teologico, nella definizione di come la Chiesa
interpreta il ruolo dell’ebraismo e come debba di conseguenza
rapportarsi ad esso. Si tratta di un documento molto importante perché
rappresenta il punto di arrivo di una lunga strada, ma anche il punto
di partenza per gli sviluppi futuri. Trattandosi di una riflessione
teologica interna al mondo cristiano, l’osservatore esterno che la
segue con attenzione è tenuto al rispetto e alla non interferenza.
Quando tuttavia le decisioni che ne derivano hanno un impatto
sull’altra parte, è inevitabile essere coinvolti e fare dei commenti
per le conseguenze previste. Sotto questo aspetto gli elementi
importanti di questo documento, di cui si riportano le citazioni
essenziali, sono:
L’interpretazione del rapporto originale
tra ebraismo e cristianesimo
L’humus di ebrei e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha
dato origine non solo al cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico
postbiblico successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C.
L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo
Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le
Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano
Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta
alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra
tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio:… La Torah e Cristo
sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale
presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine
ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe
suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.
È in un certo senso il modello che qualcuno definisce a Y, con
riferimento alla forma della lettera maiuscola y in cui una linea retta
si biforca in due rami simmetrici. Da una radice comune nascono
l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo. Per la cristianità è
certamente un progresso rispetto al modello classico in cui l’ebraismo
successivo a Gesù non ha più dignità. Ora si manifesta un rispetto
sostanziale per l’ebraismo “rabbinico”; ma il quadro interpretativo
generale, come si vedrà più avanti, non è di parità, ma è visto tutto
sotto l’ottica dell’evento salvifico cristiano; e questo ridimensiona
l’impressione di tolleranza e parità che si potrebbe avere a prima
vista. Cosa comporti questo nei nostri rapporti lo vedremo più avanti.
Ma va spiegato anche che questo non è il modo tradizionale in cui
l’ebraismo si guarda e definisce se stesso, considerandosi come l’unica
evoluzione organica dalle antiche radici, in cui la Toràh orale è
l’unica integrazione possibile con la Toràh scritta. Nella definizione
dell’altro, e della cristianità in particolare, le definizioni sono
diverse e complesse.
La teoria della sostituzione e il “nuovo” popolo di D.
La teoria classica dichiarava che il popolo ebraico aveva ormai
esaurito la sua funzione, ed era stato sostituito dalla Chiesa, che si
definiva Verus Israel. Documenti più recenti, tra cui la Nostra Aetate,
hanno parlato di nuovo popolo di Dio (Nostra Aetate evitava di
menzionare il nome di Israele), lasciando però margini di dubbio
sull’entità e il ruolo dell’Israele Antico (sostituito dal nuovo?); lo
stesso cardinale Bea, redattore della Nostra Aetate, pensava alla fine
del ruolo dell’Antico Israele. Gli sviluppi dottrinali recenti vanno in
una direzione differente e così vengono ora riassunti:
Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede
esplicita o anche implicita in Cristo, essa [la Chiesa] non rimette in
discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto.
Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede
contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili e una Sinagoga
respinta e sostituita da tale Chiesa. …. La Chiesa è chiamata il nuovo
popolo di Dio (cfr. “Nostra aetate”, n. 4), ma non nel senso che
Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. … La Chiesa non
sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata
in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a
Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale
compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio.
Sembrerebbe di capire da queste righe, che non sono di facile
comprensione, che Israele, nel senso di popolo ebraico, è e rimane
popolo di Dio. La Chiesa rappresenta il compimento delle promesse fatte
ad Israele ma se Israele non è arrivato al compimento non perde la
qualifica di popolo di Dio. La non facilità di comprensione non dipende
solo dal modo in cui i concetti sono espressi, ma dalla difficoltà
teologica di comprensione della originalità ebraica, che nel documento,
come si vedrà più avanti, viene risolta con il concetto di mistero.
La riscoperta dell’esegesi rabbinica e lo scopo del dialogo
… si profilarono due risposte a questa situazione o, per meglio dire,
due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica
dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che
ebbe uno sviluppo storico….Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere
del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro
questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare
la “ricca complementarietà” laddove esiste ed “aiutarci vicendevolmente
a sviscerare le ricchezze della Parola”.
Praticamente c’è un invito allo scambio reciproco di informazioni e
conoscenze: i cristiani dovrebbero conoscere l’esegesi rabbinica e gli
ebrei quella cristologica. Ho qualche dubbio sulle disponibilità del
mondo ebraico ortodosso a questa apertura, oltre a cerchie
specialistiche molto ristrette di studiosi. Indisponibilità dettata
dalla diffidenza secolare verso l’esegesi cristologica, veicolo di
messaggi di evangelizzazione e conversione e considerata una deviazione
dall’ambito delle letture accettabili. Per un ebreo ortodosso la
scienza si deve apprendere da chiunque la possieda, ma la Toràh solo da
chi la ha accettata, la vive e la mette in pratica. Qui c’è un nodo
teologico ebraico difficile da risolvere.
L’olivo selvatico
Il documento si ricollega all’immagine di Paolo dell’innesto dell’olivo
selvatico (“oleastro”) nell’olivo originale (Rm 11,16-21) per spiegare
il rapporto tra Israele la Chiesa.
Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la
relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa
immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza
tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere
compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine
i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova
situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione
dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può
essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr.
Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa
anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di
Israele e i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se
fossero recisi da tale radice (cfr. “Ecclesia in Medio Oriente”, n. 21).
Quello che però non viene detto in questo commento è che nell’immagine
di Paolo l’innesto dell’oleastro non è un’aggiunta ma una sostituzione
perché i rami dell’Israele originario vengono recisi dalla pianta “e se
non persevereranno nell’infedeltà saranno anch’essi innestati” (vv.
17-23). Quindi solo se accetteranno la nuova fede saranno ricollegati
alla pianta originale. L’esegesi proposta nel documento vaticano
seleziona in positivo solo una parte dell’immagine. Non spetta a noi
decidere se questa esegesi sia corretta. Ma bisogna vedere se potrà
essere condivisa nel mondo cristiano.
La salvezza e la conversione degli ebrei
La Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come “due vie
parallele di salvezza” e… la Chiesa deve “testimoniare il Cristo
Redentore a tutti” (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole
condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore
universale della salvezza e che non vi è “altro nome dato agli uomini
sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At
4,12). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è
teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza
una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino
insondabile. Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice
che per gli ebrei “è stato fissato un tempo che non può essere
anticipato”. … La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non
possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il
redentore degli ebrei oltre che dei gentili.
Dunque gli ebrei, anche se non credono in Cristo hanno parte della
salvezza, e come questo sia possibile rimane un mistero della fede.
Rispetto a questo problema vi erano altre due possibilità: l’esclusione
degli ebrei dalla salvezza, come era stato detto in
passato, o l’ammissione della legittimità della via ebraica secondo la
Toràh come via autonoma verso la salvezza. Nessuna di queste due
soluzioni è stata accettata e la contraddizione derivante dalla
soluzione adottata è stata “risolta” sotto forma di mistero. Le
difficoltà di questa soluzione sono state così riassunte (in
un’intervista a www.rosspoporpora.org del 23/1/2016) dal card. Koch,
presidente della commissione che ha firmato il documento:
Il problema teologico resta nel senso che non è facile conciliare
l’irrevocabilità dell’alleanza del popolo ebraico con Dio e la nostra
convinzione che con la venuta di Gesù Cristo si è verificato nella
storia qualcosa di nuovo, di fondamentale, di cui è necessario tener
conto. Non sono convinto che fin qui si sia trovata sull’argomento una
soluzione soddisfacente per ambo le parti.
Bisogna però precisare che quando ebrei e cristiani parlano di salvezza
parlano di cose differenti, e quindi l’idea che per gli ebrei possa
esserci o meno la salvezza di Cristo o che questa comunque arrivi anche
se non ci si crede, non interessa più di tanto l’ebraismo. Salvo che
per quanto riguarda la conseguenza pratica di queste premesse,
l’atteggiamento che il cristiano deve avere verso l’ebreo per
procuragli la salvezza.
Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in
causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa
che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti…. La Chiesa
deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che
credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a
coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del
mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce
né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli
ebrei. Fermo restando questo rifiuto – per principio – di una missione
istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere
testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei;
devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei
sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande
tragedia della Shoah.
È uno dei passaggi più significativi del documento. È stato
interpretato mediaticamente come la rinuncia della Chiesa alla
evangelizzazione e alla conversione degli ebrei. In realtà non è
proprio così, si rigetta la missione istituzionale ma
l’evangelizzazione rimane. Per quanto ne consegue, come ebrei non
possiamo certo chiedere che il cristiano che si rivolge a noi rinunci a
proclamare la sua identità e la sua fede, ma se nell’approccio
dialogico c’è un intento di evangelizzazione anche se non
istituzionale, questo deve essere respinto. E non si capisce il
riferimento finale alla Shoah, unico nel documento, a questo punto del
discorso. Se l’incomprensione delle nostre specificità ha avuto, come
certamente ha avuto, un peso importante nel determinare le persecuzioni
della storia culminate nella Shoah, non basta chiedere
all’interlocutore cristiano un atteggiamento di umiltà e sensibilità
(che tutti dovremmo avere nel rapportarci agli altri), ma serve
comprensione e rispetto fondamentale della differenza. Un rispetto
della differenza che sembra mancare nella visione globalizzante sotto
il nome di Cristo, più volte ribadita nel documento e che alla fine
viene espressa in questa frase:
il ruolo permanente del “popolo dell’Alleanza di Israele” nel piano
salvifico di Dio deve essere rapportato in maniera dinamica al “popolo
di Dio composto da ebrei e gentili uniti in Cristo” [virgolettato
originale].
La terra e lo stato d’Israele
Non vengono ignorati, ma il riferimento più importante riguarda la situazione dei cristiani in Israele.
Prerequisito di tale dialogo e di tale pace è la libertà di religione
garantita dalle autorità civili. Al riguardo, il banco di prova
consiste nel modo in cui le minoranze religiose sono trattate e in
quali diritti vengono loro concessi. Nel dialogo ebraico-cristiano, di
grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato
di Israele, poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una
minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La
pace in Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega
costantemente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e
cristiani.
È un problema importante, è giusto che se ne parli, e che i diritti dei
cristiani siano tutelati, ma appare strano che per quanto riguarda
terra e stato d’Israele solo questo sia il punto sollevato in una
trattazione teologica. Ciò discende da quanto detto nelle premesse del
documento, in cui si nega un significato religioso dello Stato:
Per quanto concerne l’esistenza dello Stato d’Israele e le sue opzioni
politiche, essi vanno visti in un’ottica che non sia di per sé
religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto
internazionale.
In conclusione
Il documento registra i notevoli progressi compiuti in questi cinquanta
anni, sul ruolo di Israele nella percezione della Chiesa. L’ebraismo
“rabbinico” è secondo questo documento uno degli sviluppi possibili e
legittimi dalle antiche radici, ma deve essere visto nella prospettiva
salvifica cristiana; gli ebrei rimangono popolo di Dio che ha parte
nella salvezza, anche se non credono, e nei loro confronti non ci deve
essere missione istituzionale. Il nodo fondamentale della differenza
ebraico-cristiana viene spiegato, o meglio non spiegato ma esposto
sotto forma di mistero di fede. Il rapporto religioso ebraico con la
terra e lo stato d’Israele non viene preso in considerazione. Ora non
spetta agli ebrei commentare le difficoltà teologiche interne del mondo
cristiano quanto piuttosto riferirsi alle loro conseguenze pratiche;
qui i significativi progressi sono comunque segnati da un’ombra di
dubbio, data dalla visione totalizzante della salvezza cristiana e
della necessità comunque di proclamarla ed evangelizzare; e c’è il
dubbio che non risolvendo in modo logico e convincente le difficoltà
dottrinali (come mai gli ebrei restano popolo di Dio e sono salvati
anche se non credono), ma affidandole al piano misterioso della fede,
l’intero impianto sia fragile e non abbia la forza di penetrazione
presso il vasto pubblico. Per quanto riguarda poi la risposta ebraica
ortodossa, il documento pone delle difficoltà, perché non è
condivisibile l’interpretazione della natura dell’ebraismo rabbinico
che il documento propone, l’approccio di evangelizzazione seppure umile
e sensibile, e alcuni aspetti dell’agenda del dialogo. Come da sempre
il dialogo ebraico cristiano continua ad essere un laboratorio di
ricerca dove ogni elemento di novità significativa apre nuove frontiere
e discussioni.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Qua gli altri contenuti dell'approfondimento sul Dialogo
"Insieme per la redenzione"
"In corso dei cambiamenti epocali"
Quella pretesa un po' eccessiva
Condotto così, il dialogo è un pericolo
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il trionfo de "il figlio di saul"
La Memoria conquista l'Oscar
“Anche
nei momenti più oscuri dell’umanità può esserci una voce tra noi che ci
permetta di rimanere umani, e questa è la speranza di questo film”. Lo
ha detto Laszlo Nemes del suo Il figlio di Saul, mentre ritirava
l’Oscar come miglior film straniero. Nemes si è fatto così strada
partendo dall’Ungheria, passando per Cannes, dove ha vinto il Gran Prix
speciale della Giuria, e arrivando a Los Angeles, dove aveva già vinto
un Golden Globe (che come spesso accade aveva preannunciato la vittoria
all’Oscar). Un successo ottenuto anche grazie alla riuscita
interpretazione dell’attore protagonista Geza Rohrig, con il quale
Nemes ha voluto condividere il premio. È intorno al volto di Rohrig
ripreso da 35 millimetri di distanza che ruota infatti tutto il film,
in cui si racconta la storia disperata dell’ebreo ungherese Saul
Auslander, che mentre lavora come sonderkommando tenta di dare una
sepoltura al corpo del ragazzo che crede suo figlio. Tutta la
pellicola, per oltre due ore, è fatta di lunghi piani sequenza che
mostrano gli orrori del campo con i suoi occhi. “Stretto in questa
claustrofobica angolatura, di grande rigore estetico, Son of Saul è un
film a tratti così angosciante da essere insopportabile”, scriveva
Daniela Gross su Pagine Ebraiche. “Vedere lo sterminio con gli occhi di
Saul non è una scelta intimista – proseguiva – ma la via per cogliere
appieno l’immensità della Shoah, che qui finisce per dipanarsi nella
nostra testa più che direttamente sullo schermo”.
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i risultati di un sondaggio internazionale Europa ebraica, voci a confronto Speranze, paure, prospettive
L'urgenza
di combattere l'antisemitismo, e di rinforzare i rapporti con le
religioni presenti in Europa. Ma anche la preoccupazione per
l'allontanamento degli ebrei dalla vita comunitaria, seguito dalla
debolezza delle organizzazioni ebraiche e per il declino demografico.
Preoccupazione diminuita, invece, nei confronti degli effetti dei
matrimoni misti. Sono questi i dati forti che emergono nella terza
edizione del sondaggio sugli orientamenti dei leader ebraici europei.
Quarantacinque domande poste a 314 rispondenti di 29 paesi poste in
cinque lingue, ossia, una scelta non casuale: inglese, francese,
spagnolo, tedesco e ungherese. Queste le premesse che hanno portato ai
dati raccolti nel 2015 e presentati nel "Third Survey of European
Jewish Leaders and Opinion Formers" dell'International Centre for
Community Development dell'American Jewish Joint Distribution
Committee. Una sessantina di pagine ricche di dati, grafici e
informazioni fondamentali per chiunque voglia occuparsi seriamente del
futuro della minoranza ebraica europea, in cui le priorità di coloro
che in Europa per l'ebraismo si impegnano ogni giorno sono chiare:
rafforzamento dell'educazione ebraica, in primo luogo, seguita dalla
formazione di giovani che possano entrare nelle istituzioni e nelle
organizzazioni in un futuro anche prossimo.
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memoria storica della FIUME EBRAICA Federico Falk (1919-2016)
Scompare
a 97 anni Federico Falk, uno degli ultimi testimoni della Fiume ebraica
devastata dalle persecuzioni nazifasciste e dalla Shoah. Nato nel 1919
da genitori di origine ungherese, studi scientifici, le Leggi Razziste
del ’38 che gli precluderanno gli studi universitari fino al
dopoguerra, Falk è stato tra i più attivi custodi di quel mondo e dei
suoi protagonisti. Volti, biografie, i legami di una comunità scomparsa
che hanno trovato collocazione in quello che è oggi un vero e proprio
atlante del Quarnero e delle sue ferite: Le comunità israelitiche di
Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, pubblicato a Roma nel 2012.
Il frutto di un lavoro di ricerca protrattosi per oltre 15 anni, dal
pensionamento in poi, che ha portato l’autore sulle dolorose tracce
della memoria fiumana tra Italia, Europa, Americhe, Israele e
Australia.
(LeggiNell'immagine Federico Falk in una foto d'epoca)
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Oltremare - Eurovisione
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L’Eurovisione
è qualcosa che non occupa molti dei pensieri dell’italiano medio,
perfino di quelli che invece disdicono serate di gala e mangiano
davanti alla televisione ogni sera durante la lunghissima settimana del
Festival di Sanremo. D’altra parte forse è stato un bene disabituare
gli italiani all’Eurovisione: mandare canzoni di ottimo livello a
gareggiare significa esporsi al pericolo – in caso di vittoria – di
dover ospitare la gara l’anno successivo.
In Israele invece, l’Eurovisione è un luogo di meraviglia e musica
colorata, portatore di leggerezza e di vittorie molto desiderate.
Soprattutto, ha la parola Europa nel nome. E come per gli sport,
Israele ha la forte tendenza a entrare nelle competizioni europee,
visto che quelle contro i vicini mediorientali potrebbero portare agli
sportivi come ai cantanti pericoli ben piu’ gravi del dover riempire un
paio di palasport di gente e palloncini multicolori. Israele l’isola,
si trova bene come cittadina temporanea mezzo alla antica patria di
quasi metà della sua popolazione. Ne capisce le lingue, ne invidia la
raffinatezza e la gastronomia.
Daniela Fubini, Tel Aviv
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