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  29 Febbraio 2016 - 20 Adar 5776
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Paolo Sciunnach,
insegnante
La mitzvah del Mishkan viene dopo il Vitello d’oro? Se non ci fosse stata la mitzvah del Mishkan non ci sarebbe stata nemmeno quella dei Qorbanot. Secondo alcuni maestri (si veda anche Rashi) la mitzvah del Mishkan viene data al popolo ebraico solo dopo il peccato del Vitello d’oro. Questo sta a significare che la mitzvah dei Qorbanot non sarebbe stata prevista dal principio, ma si tratta solo di un Tiqun (rimedio espiatorio) al peccato del Vitello d’Oro. Eppure la Parashà del Mishkan viene inserita nel testo della Torah prima del caso del Vitello d’oro. Ma il midrash si domanda: quando è stata data la mitzvah del Mishkan?
 
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Anna
Foa,
storica
È una sopravvissuta ultraottantenne, ma è costretta a cambiare posto sull’aereo perché era seduta vicino a un ultraortosso in un volo dell’El Al. E non perchè la disturbasse fare un lungo viaggio aereo a fianco di un ultraortodosso (che sarebbe anche stato possibile), ma perché ad essere disturbato era lui, il religioso. È noto che le donne dopo gli ottant’anni sono particolarmente seducenti, tali quindi da mettere in pericolo la tzniut dell’uomo. Ed è anche noto che tra un ortodosso e una signora ottantenne si deve alzare la signora, non l’ultraortodosso. Purtroppo per la compagnia, che si è prestata ad accogliere questa richiesta, la signora oltre ad essere una sopravvissuta è anche un avvocato. Nella vita è stata inoltre moglie, successivamente, di due rabbini e di queste faccende si intende abbastanza. Tanto da richiedere un congruo risarcimento alla compagnia di bandiera israeliana per l’umiliazione subita. Speriamo che glielo diano, in modo da rendere in futuro la compagnia più attenta nei confronti delle signore e da evitare di conseguenza che in giro nel mondo circolino notizie del genere, che non possono che coprirci di ridicolo.
 
Il tweet di Rouhani
“Con il vostro voto avete creato una nuova atmosfera. Mi alzo in piedi davanti a voi”. Così il presidente Hassan Rouhani su Twitter, commentando gli esiti del voto in Iran.
“L’Iran volta pagina? Di certo siamo di fronte a un risultato notevole se anche la guida suprema, il per ora leader sconfitto ayatollah Khamenei, riconosce il senso dell’alta affluenza dichiarando che l’Iran è un paese saggio e determinato” scrive Francesca Paci su La Stampa.
Numerose le opinioni pubblicate al riguardo sui quotidiani. “L’accordo sul nucleare è stato di grande aiuto per spingere i moderati” sostiene il politologo Ian Bremmer in una intervista al Corriere (Giuseppe Sarcina). “È inutile illudersi, il potere è sempre in mano ai radicali” avverte invece Fiamma Nirenstein (Il Giornale).
Sul Corriere, Paolo Salom racconta la consultazione dal punto di vista degli ebrei iraniani e la discutibile scelta del governo di Teheran di fissare il voto in una data che, dopo il tramonto, ha segnato la profanazione dello Shabbat.

Se Donald cita Benito. Incredibile gaffe di Donal Trump, che ha ritwittato una frase di Benito Mussolini (“Meglio vivere un giorno da leoni, che cento da pecora”) presa dall’account @ilduce2016 con foto del dittatore fascista e capelli biondi del candidato repubblicano. “Voglio essere associato a buone citazioni. Mi piaceva come suonava. Sapevo di citare Mussolini, ma che differenza fa?” ha commentato Trump (Repubblica, tra gli altri).
 
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  davar
LO SPECIALE DI PAGINE EBRAICHE 
Quale futuro per il Dialogo
Il Dialogo va avanti, ma non può essere fatto solo di gesti simbolici. Per questo il giornale dell’ebraismo italiano nel suo numero di marzo in distribuzione dà spazio alle riflessioni del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni riguardo a un recente documento della Commissione vaticana per i rapporti con l’ebraismo. Molteplici i temi affrontati nel documento: dall’impatto della dichiarazione conciliare allo statuto teologico del dialogo ebraico-cattolico; dalla relazione tra Antico e Nuovo Testamento al mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo.

Oltre all'intervento del rav, numerose le pagine del giornale dedicate al futuro del Dialogo.

Numerose le pagine che il giornale dedica al futuro del Dialogo. A dicembre è comparso sul tema dei rapporti ebraico cristiani un importante documento redatto dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo del Vaticano (“Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29) Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50º Anniversario di Nostra aetate (n. 4). Il documento ha sollevato giustamente molta attenzione; i commenti e le reazioni “a caldo” sono stati numerosi e di diverso orientamento. In questa nota si vuole proporre una sintesi informativa per il pubblico meno addetto, con qualche riflessione dal punto di vista di un rabbino italiano. Il documento vaticano è una sorta di bilancio e sintesi su quanto è stato fatto dalla Chiesa cattolica negli ultimi cinquanta anni a partire dalla Nostra Aetate, soprattutto dal punto di vista teologico, nella definizione di come la Chiesa interpreta il ruolo dell’ebraismo e come debba di conseguenza rapportarsi ad esso. Si tratta di un documento molto importante perché rappresenta il punto di arrivo di una lunga strada, ma anche il punto di partenza per gli sviluppi futuri. Trattandosi di una riflessione teologica interna al mondo cristiano, l’osservatore esterno che la segue con attenzione è tenuto al rispetto e alla non interferenza. Quando tuttavia le decisioni che ne derivano hanno un impatto sull’altra parte, è inevitabile essere coinvolti e fare dei commenti per le conseguenze previste. Sotto questo aspetto gli elementi importanti di questo documento, di cui si riportano le citazioni essenziali, sono:

L’interpretazione del rapporto originale

tra ebraismo e cristianesimo
L’humus di ebrei e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha dato origine non solo al cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico postbiblico successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio:… La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.
È in un certo senso il modello che qualcuno definisce a Y, con riferimento alla forma della lettera maiuscola y in cui una linea retta si biforca in due rami simmetrici. Da una radice comune nascono l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo. Per la cristianità è certamente un progresso rispetto al modello classico in cui l’ebraismo successivo a Gesù non ha più dignità. Ora si manifesta un rispetto sostanziale per l’ebraismo “rabbinico”; ma il quadro interpretativo generale, come si vedrà più avanti, non è di parità, ma è visto tutto sotto l’ottica dell’evento salvifico cristiano; e questo ridimensiona l’impressione di tolleranza e parità che si potrebbe avere a prima vista. Cosa comporti questo nei nostri rapporti lo vedremo più avanti. Ma va spiegato anche che questo non è il modo tradizionale in cui l’ebraismo si guarda e definisce se stesso, considerandosi come l’unica evoluzione organica dalle antiche radici, in cui la Toràh orale è l’unica integrazione possibile con la Toràh scritta. Nella definizione dell’altro, e della cristianità in particolare, le definizioni sono diverse e complesse.

La teoria della sostituzione e il “nuovo” popolo di D.
La teoria classica dichiarava che il popolo ebraico aveva ormai esaurito la sua funzione, ed era stato sostituito dalla Chiesa, che si definiva Verus Israel. Documenti più recenti, tra cui la Nostra Aetate, hanno parlato di nuovo popolo di Dio (Nostra Aetate evitava di menzionare il nome di Israele), lasciando però margini di dubbio sull’entità e il ruolo dell’Israele Antico (sostituito dal nuovo?); lo stesso cardinale Bea, redattore della Nostra Aetate, pensava alla fine del ruolo dell’Antico Israele. Gli sviluppi dottrinali recenti vanno in una direzione differente e così vengono ora riassunti:
Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in Cristo, essa [la Chiesa] non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili e una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa. …. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. “Nostra aetate”, n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. … La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio.
Sembrerebbe di capire da queste righe, che non sono di facile comprensione, che Israele, nel senso di popolo ebraico, è e rimane popolo di Dio. La Chiesa rappresenta il compimento delle promesse fatte ad Israele ma se Israele non è arrivato al compimento non perde la qualifica di popolo di Dio. La non facilità di comprensione non dipende solo dal modo in cui i concetti sono espressi, ma dalla difficoltà teologica di comprensione della originalità ebraica, che nel documento, come si vedrà più avanti, viene risolta con il concetto di mistero.

La riscoperta dell’esegesi rabbinica e lo scopo del dialogo
… si profilarono due risposte a questa situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico….Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare la “ricca complementarietà” laddove esiste ed “aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola”.
Praticamente c’è un invito allo scambio reciproco di informazioni e conoscenze: i cristiani dovrebbero conoscere l’esegesi rabbinica e gli ebrei quella cristologica. Ho qualche dubbio sulle disponibilità del mondo ebraico ortodosso a questa apertura, oltre a cerchie specialistiche molto ristrette di studiosi. Indisponibilità dettata dalla diffidenza secolare verso l’esegesi cristologica, veicolo di messaggi di evangelizzazione e conversione e considerata una deviazione dall’ambito delle letture accettabili. Per un ebreo ortodosso la scienza si deve apprendere da chiunque la possieda, ma la Toràh solo da chi la ha accettata, la vive e la mette in pratica. Qui c’è un nodo teologico ebraico difficile da risolvere.

L’olivo selvatico
Il documento si ricollega all’immagine di Paolo dell’innesto dell’olivo selvatico (“oleastro”) nell’olivo originale (Rm 11,16-21) per spiegare il rapporto tra Israele la Chiesa.
Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele e i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice (cfr. “Ecclesia in Medio Oriente”, n. 21).
Quello che però non viene detto in questo commento è che nell’immagine di Paolo l’innesto dell’oleastro non è un’aggiunta ma una sostituzione perché i rami dell’Israele originario vengono recisi dalla pianta “e se non persevereranno nell’infedeltà saranno anch’essi innestati” (vv. 17-23). Quindi solo se accetteranno la nuova fede saranno ricollegati alla pianta originale. L’esegesi proposta nel documento vaticano seleziona in positivo solo una parte dell’immagine. Non spetta a noi decidere se questa esegesi sia corretta. Ma bisogna vedere se potrà essere condivisa nel mondo cristiano.

La salvezza e la conversione degli ebrei
La Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come “due vie parallele di salvezza” e… la Chiesa deve “testimoniare il Cristo Redentore a tutti” (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è “altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei “è stato fissato un tempo che non può essere anticipato”. … La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili.
Dunque gli ebrei, anche se non credono in Cristo hanno parte della salvezza, e come questo sia possibile rimane un mistero della fede. Rispetto a questo problema vi erano altre due possibilità: l’esclusione degli ebrei dalla salvezza, come era stato detto in
passato, o l’ammissione della legittimità della via ebraica secondo la Toràh come via autonoma verso la salvezza. Nessuna di queste due soluzioni è stata accettata e la contraddizione derivante dalla soluzione adottata è stata “risolta” sotto forma di mistero. Le difficoltà di questa soluzione sono state così riassunte (in un’intervista a www.rosspoporpora.org del 23/1/2016) dal card. Koch, presidente della commissione che ha firmato il documento:
Il problema teologico resta nel senso che non è facile conciliare l’irrevocabilità dell’alleanza del popolo ebraico con Dio e la nostra convinzione che con la venuta di Gesù Cristo si è verificato nella storia qualcosa di nuovo, di fondamentale, di cui è necessario tener conto. Non sono convinto che fin qui si sia trovata sull’argomento una soluzione soddisfacente per ambo le parti.
Bisogna però precisare che quando ebrei e cristiani parlano di salvezza parlano di cose differenti, e quindi l’idea che per gli ebrei possa esserci o meno la salvezza di Cristo o che questa comunque arrivi anche se non ci si crede, non interessa più di tanto l’ebraismo. Salvo che per quanto riguarda la conseguenza pratica di queste premesse, l’atteggiamento che il cristiano deve avere verso l’ebreo per procuragli la salvezza.
Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti…. La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto – per principio – di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah.
È uno dei passaggi più significativi del documento. È stato interpretato mediaticamente come la rinuncia della Chiesa alla evangelizzazione e alla conversione degli ebrei. In realtà non è proprio così, si rigetta la missione istituzionale ma l’evangelizzazione rimane. Per quanto ne consegue, come ebrei non possiamo certo chiedere che il cristiano che si rivolge a noi rinunci a proclamare la sua identità e la sua fede, ma se nell’approccio dialogico c’è un intento di evangelizzazione anche se non istituzionale, questo deve essere respinto. E non si capisce il riferimento finale alla Shoah, unico nel documento, a questo punto del discorso. Se l’incomprensione delle nostre specificità ha avuto, come certamente ha avuto, un peso importante nel determinare le persecuzioni della storia culminate nella Shoah, non basta chiedere all’interlocutore cristiano un atteggiamento di umiltà e sensibilità (che tutti dovremmo avere nel rapportarci agli altri), ma serve comprensione e rispetto fondamentale della differenza. Un rispetto della differenza che sembra mancare nella visione globalizzante sotto il nome di Cristo, più volte ribadita nel documento e che alla fine viene espressa in questa frase:
il ruolo permanente del “popolo dell’Alleanza di Israele” nel piano salvifico di Dio deve essere rapportato in maniera dinamica al “popolo di Dio composto da ebrei e gentili uniti in Cristo” [virgolettato originale].

La terra e lo stato d’Israele
Non vengono ignorati, ma il riferimento più importante riguarda la situazione dei cristiani in Israele.
Prerequisito di tale dialogo e di tale pace è la libertà di religione garantita dalle autorità civili. Al riguardo, il banco di prova consiste nel modo in cui le minoranze religiose sono trattate e in quali diritti vengono loro concessi. Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele, poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega costantemente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani.
È un problema importante, è giusto che se ne parli, e che i diritti dei cristiani siano tutelati, ma appare strano che per quanto riguarda terra e stato d’Israele solo questo sia il punto sollevato in una trattazione teologica. Ciò discende da quanto detto nelle premesse del documento, in cui si nega un significato religioso dello Stato:
Per quanto concerne l’esistenza dello Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, essi vanno visti in un’ottica che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale.

In conclusione
Il documento registra i notevoli progressi compiuti in questi cinquanta anni, sul ruolo di Israele nella percezione della Chiesa. L’ebraismo “rabbinico” è secondo questo documento uno degli sviluppi possibili e legittimi dalle antiche radici, ma deve essere visto nella prospettiva salvifica cristiana; gli ebrei rimangono popolo di Dio che ha parte nella salvezza, anche se non credono, e nei loro confronti non ci deve essere missione istituzionale. Il nodo fondamentale della differenza ebraico-cristiana viene spiegato, o meglio non spiegato ma esposto sotto forma di mistero di fede. Il rapporto religioso ebraico con la terra e lo stato d’Israele non viene preso in considerazione. Ora non spetta agli ebrei commentare le difficoltà teologiche interne del mondo cristiano quanto piuttosto riferirsi alle loro conseguenze pratiche; qui i significativi progressi sono comunque segnati da un’ombra di dubbio, data dalla visione totalizzante della salvezza cristiana e della necessità comunque di proclamarla ed evangelizzare; e c’è il dubbio che non risolvendo in modo logico e convincente le difficoltà dottrinali (come mai gli ebrei restano popolo di Dio e sono salvati anche se non credono), ma affidandole al piano misterioso della fede, l’intero impianto sia fragile e non abbia la forza di penetrazione presso il vasto pubblico. Per quanto riguarda poi la risposta ebraica ortodossa, il documento pone delle difficoltà, perché non è condivisibile l’interpretazione della natura dell’ebraismo rabbinico che il documento propone, l’approccio di evangelizzazione seppure umile e sensibile, e alcuni aspetti dell’agenda del dialogo. Come da sempre il dialogo ebraico cristiano continua ad essere un laboratorio di ricerca dove ogni elemento di novità significativa apre nuove frontiere e discussioni.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma



Qua gli altri contenuti dell'approfondimento sul Dialogo

"Insieme per la redenzione"

"In corso dei cambiamenti epocali"


Quella pretesa un po' eccessiva


Condotto così, il dialogo è un pericolo
il trionfo de "il figlio di saul"
La Memoria conquista l'Oscar
“Anche nei momenti più oscuri dell’umanità può esserci una voce tra noi che ci permetta di rimanere umani, e questa è la speranza di questo film”. Lo ha detto Laszlo Nemes del suo Il figlio di Saul, mentre ritirava l’Oscar come miglior film straniero. Nemes si è fatto così strada partendo dall’Ungheria, passando per Cannes, dove ha vinto il Gran Prix speciale della Giuria, e arrivando a Los Angeles, dove aveva già vinto un Golden Globe (che come spesso accade aveva preannunciato la vittoria all’Oscar). Un successo ottenuto anche grazie alla riuscita interpretazione dell’attore protagonista Geza Rohrig, con il quale Nemes ha voluto condividere il premio. È intorno al volto di Rohrig ripreso da 35 millimetri di distanza che ruota infatti tutto il film, in cui si racconta la storia disperata dell’ebreo ungherese Saul Auslander, che mentre lavora come sonderkommando tenta di dare una sepoltura al corpo del ragazzo che crede suo figlio. Tutta la pellicola, per oltre due ore, è fatta di lunghi piani sequenza che mostrano gli orrori del campo con i suoi occhi. “Stretto in questa claustrofobica angolatura, di grande rigore estetico, Son of Saul è un film a tratti così angosciante da essere insopportabile”, scriveva Daniela Gross su Pagine Ebraiche. “Vedere lo sterminio con gli occhi di Saul non è una scelta intimista – proseguiva – ma la via per cogliere appieno l’immensità della Shoah, che qui finisce per dipanarsi nella nostra testa più che direttamente sullo schermo”.
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LA NOTTE DEGLI OSCAR
Dal teatro yiddish a Hollywood El Chivo cala la tripletta 
El Chivo ha colpito ancora. Senza pestare piedi o fare troppo rumore, il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (conosciuto appunto con il soprannome El Chivo), conquista il suo terzo Oscar di fila per The Revenant, arrivato dopo Birdman nel 2015 e Gravity nel 2014. L’ennesima conferma per uno dei più virtuosi addetti ai lavori di Hollywood che ha portato il cinema messicano alla ribalta assieme ai suoi compatrioti registi Alfonso Cuaron e Alejandro Gonzales Inarritu. Nato a Mexico City nel 1964, Lubezki è un ebreo di origine ashkenazita. E come ogni ashkenazita che si rispetti, ha una storia avventurosa: sua nonna fuggì dalla Russia durante la rivoluzione e riparò a Shangai, pronta ad inseguire il suo sogno di diventare un’attrice e conquistare il cinema americano. I piani non andarono però come previsto, come ha rievocato lo stesso Lubezki: “Mia nonna voleva una carriera ad Hollywood e convinse tutta la famiglia a lasciare la Cina, li fermarono però in Messico a causa delle restrizioni sull’accoglienza dei migranti”. A Mexico City conobbe poi quello che sarebbe diventato suo marito: un amore esploso mentre entrambi recitavano in una compagnia teatrale yiddish.


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i risultati di un sondaggio internazionale
Europa ebraica, voci a confronto Speranze, paure, prospettive 
L'urgenza di combattere l'antisemitismo, e di rinforzare i rapporti con le religioni presenti in Europa. Ma anche la preoccupazione per l'allontanamento degli ebrei dalla vita comunitaria, seguito dalla debolezza delle organizzazioni ebraiche e per il declino demografico. Preoccupazione diminuita, invece, nei confronti degli effetti dei matrimoni misti. Sono questi i dati forti che emergono nella terza edizione del sondaggio sugli orientamenti dei leader ebraici europei.
Quarantacinque domande poste a 314 rispondenti di 29 paesi poste in cinque lingue, ossia, una scelta non casuale: inglese, francese, spagnolo, tedesco e ungherese. Queste le premesse che hanno portato ai dati raccolti nel 2015 e presentati nel "Third Survey of European Jewish Leaders and Opinion Formers" dell'International Centre for Community Development dell'American Jewish Joint Distribution Committee. Una sessantina di pagine ricche di dati, grafici e informazioni fondamentali per chiunque voglia occuparsi seriamente del futuro della minoranza ebraica europea, in cui le priorità di coloro che in Europa per l'ebraismo si impegnano ogni giorno sono chiare: rafforzamento dell'educazione ebraica, in primo luogo, seguita dalla formazione di giovani che possano entrare nelle istituzioni e nelle organizzazioni in un futuro anche prossimo.
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memoria storica della FIUME EBRAICA
Federico Falk (1919-2016)
Scompare a 97 anni Federico Falk, uno degli ultimi testimoni della Fiume ebraica devastata dalle persecuzioni nazifasciste e dalla Shoah. Nato nel 1919 da genitori di origine ungherese, studi scientifici, le Leggi Razziste del ’38 che gli precluderanno gli studi universitari fino al dopoguerra, Falk è stato tra i più attivi custodi di quel mondo e dei suoi protagonisti. Volti, biografie, i legami di una comunità scomparsa che hanno trovato collocazione in quello che è oggi un vero e proprio atlante del Quarnero e delle sue ferite: Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, pubblicato a Roma nel 2012. Il frutto di un lavoro di ricerca protrattosi per oltre 15 anni, dal pensionamento in poi, che ha portato l’autore sulle dolorose tracce della memoria fiumana tra Italia, Europa, Americhe, Israele e Australia.


(LeggiNell'immagine Federico Falk in una foto d'epoca)

informazione - international edition
Venezia, Ghetto a porte aperte
Un dossier che celebra Venezia. Il nuovo numero di Pagine Ebraiche propone una sezione speciale che scava e racconta la storia dell’ebraismo lagunare, in attesa del 29 marzo, giorno in cui si apriranno ufficialmente le cerimonie per i 500 anni dalla fondazione del Ghetto in città, il primo nella storia. Il giornale di marzo viene così presentato ai lettori internazionali in questa uscita di Pagine Ebraiche International Edition.
Rabbini e rappresentanti di tutte le correnti ebraiche d’Europa si sono ritrovati negli scorsi giorni a Roma, per discutere delle sfide che attendono le comunità del Vecchio Continente. Sul notiziario una cronaca dell’evento.

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  pilpul
 Oltremare - Eurovisione
L’Eurovisione è qualcosa che non occupa molti dei pensieri dell’italiano medio, perfino di quelli che invece disdicono serate di gala e mangiano davanti alla televisione ogni sera durante la lunghissima settimana del Festival di Sanremo. D’altra parte forse è stato un bene disabituare gli italiani all’Eurovisione: mandare canzoni di ottimo livello a gareggiare significa esporsi al pericolo – in caso di vittoria – di dover ospitare la gara l’anno successivo.
In Israele invece, l’Eurovisione è un luogo di meraviglia e musica colorata, portatore di leggerezza e di vittorie molto desiderate. Soprattutto, ha la parola Europa nel nome. E come per gli sport, Israele ha la forte tendenza a entrare nelle competizioni europee, visto che quelle contro i vicini mediorientali potrebbero portare agli sportivi come ai cantanti pericoli ben piu’ gravi del dover riempire un paio di palasport di gente e palloncini multicolori. Israele l’isola, si trova bene come cittadina temporanea mezzo alla antica patria di quasi metà della sua popolazione. Ne capisce le lingue, ne invidia la raffinatezza e la gastronomia.


Daniela Fubini, Tel Aviv
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